Giovanni Vartolo, 27 anni, è laureato in Comunicazione Pubblica e Politica e appassionato di marketing.

Ci racconti il tuo percorso di studi e come sei entrato nel mercato del lavoro?
Io abito a Torino, vivo qui da sempre anche se sono di origine calabrese, come quasi tutti i “veri” torinesi! Ho iniziato a lavorare prestissimo, già quando frequentavo le superiori, per potermi poi pagare l’università e così ho continuato a fare per tutta la triennale e poi per la specialistica. Il mio ingresso nel mondo del lavoro, a dire il vero, è stato abbastanza semplice: ho inviato in giro un po’ di curriculum e ho sempre trovato qualcosa. Ricordo che la mia prima occupazione è stata in un call center, un classico. Da quella esperienza ho cominciato a capire l’importanza dell’indipendenza economica, non avendo alle spalle una famiglia con grandi risorse economiche. Così, lungo tutto il periodo degli studi, ho svolto tantissimi lavoretti, il cameriere, il barista, il cassiere, il gastronomo, il macellaio, fino ad arrivare finalmente a essere assunto per un incarico di grafico, un lavoro coerente con la mia formazione, avendo studiato appunto grafica e pubblicità.
Da lì mi si è aperto un mondo differente, nel senso che ho cambiato il mio modo di pensare al lavoro: non era più solo un mezzo per mantenersi agli studi, ma ciò di cui volevo occuparmi, ciò che mi piaceva fare. Dopo la triennale mi ero ritrovato senza lavoro perché l’azienda aveva chiuso. Avendo ancora voglia di imparare, avevo comunque ripreso gli studi. Devo dire che fortunatamente sono sempre riuscito a coniugare questa voglia di studiare con l’impegno lavorativo. Mi sono laureato lo scorso anno, a marzo e dopo poco mi sono ritrovato di nuovo disoccupato.
Puoi raccontarci di come ti sei ritrovato senza lavoro?
Facevo il social media manager. Era una collaborazione avviata per una comunicazione politica ai fini delle elezioni di un comune vicino a Torino. Con la pandemia e tutto il resto, questa collaborazione è terminata. Era inizio estate, giugno. Mi sono subito mobilitato e ho sostenuto diversi colloqui. A differenza di quanto accaduto in passato, ho incontrato tante difficoltà a trovare un lavoro “vero”, con un contratto vero, cioè pagato.
All’inizio ero pure un po’ schizzinoso, nel senso che se l’azienda non mi piaceva o il colloquio non mi aveva soddisfatto, continuavo la mia ricerca per qualcosa di nuovo, per fissare altri appuntamenti, per conoscere nuove persone e possibilità.
Durante il lockdown ho anche frequentato dei corsi; avevo sempre fame di conoscenze ulteriori, di acquisizione di nuove competenze, sempre per questo fatto della competizione, che certo è brutto. Il fatto è che una volta che termini l’università, il tuo primo e unico obiettivo è trovare il lavoro. E come te ce ne sono tanti altri, che sono appunto tuoi “competitor”, come si suol dire, e che come te sono alla costante ricerca di nuove competenze, di avere qualcosa in più da offrire rispetto agli altri. Per la mia generazione, questa sta diventando una macchina del suicidio: passiamo ore e ore sui libri e davanti al computer per offrire di più, sapere di più. Da un certo punto di vista, può andar bene, ma può diventare un’ossessione.
Hai detto che hai sostenuto tantissimi colloqui di lavoro.
Sì, ovviamente le esperienze sono state molte e diverse tra loro, alcune negative, altre certamente positive. Per esempio ho avuto colloqui con dei recruiter molto formati non soltanto dal punto di vista professionale, ma anche dal punto di vista emotivo; alcune persone cercano davvero di mettersi nei tuoi panni perché magari anche loro fino a pochi anni prima erano nelle stesse tue condizioni. E di questo ti accorgi subito, perché riesci ad avere un dialogo un po’ differente rispetto ai soliti, in cui ti chiedono solo quando ti sei laureato, che lavoro hai fatto, se conosci l’utilizzo di Wordpress, Photoshop, quale certificazione in lingua inglese possiedi. Il colloquio in questi casi diventa un’esperienza davvero costruttiva. A volte invece ho avuto a che fare con persone che ti parlano di progetti e poi ti dicono: “Va bene, hai le competenze per farlo; non ti posso pagare, però per te può essere un’ottima esperienza per fare business in futuro”. Così uno magari accetta, però il lavoro è un’altra cosa.
Cos’è il lavoro per te?
Per me è riuscire a mettere in campo le mie competenze, la mia professionalità, la mia attitudine, la mia serietà anche rispetto a un impegno ch ...[continua]

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