Luigi Lombardi Vallauri è stato professore ordinario di Filosofia del diritto presso l’Università di Firenze dal 1970 al 2011. Dal 1976 al 1997 ha insegnato la stessa disciplina all’Università Cattolica di Milano, da cui è stato espulso per eterodossia (provvedimento dichiarato illegittimo nel 2010 dalla Corte europea di Strasburgo). Nel 1979 ha fondato il Gruppo di Meditazione, tuttora attivo, che costituisce la sua seconda famiglia. La prima consta di cinque figli e undici nipoti.

La natura afflittiva dell’istituzione penitenziaria si esprime fin dal suo nome. Penitenza, pena, dolore. E noi bravi cittadini che viviamo fuori dal carcere, scrivi nel tuo libro Crudeltà (Doppiavoce, Napoli, 2021), dovremmo provare a immaginare il dentro e a sentirlo sulla nostra pelle. Nello spazio chiuso nel quale l’orizzonte è tagliato, il tempo scorre vuoto, sono assenti non soltanto i progetti per il futuro, ma addirittura il futuro. Del carcere scrivi che è un luogo “considerato la pena meno crudele tra quelle finora escogitate; crudeltà che si aggrava all’estremo nell’ergastolo e in alcune forme repressive assunte -per esempio in base all’articolo 41bis- dal perseguimento della massima sicurezza. È una crudeltà strutturale, struttural-funzionale, una crudeltà delle cose stesse, indipendente da eventuali attitudini o atti di crudeltà soggettiva degli operatori carcerari”.
Che il carcere sia crudele è un dato di fatto. Però, al tempo stesso, come ogni cosa, il carcere è sottoposto a quello che io chiamo il principio super-supremo dell’ordinamento giuridico, che risulta dal combinato dell’articolo 3, II comma (“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”), e dell’articolo 9 integrato, quello sulla bellezza del mondo (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”).
Come norme sul carcere abbiamo il ben noto articolo 27, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, che però sta sotto il principio super-supremo del pieno sviluppo della persona nel contesto della bellezza del mondo: il carcere viene giudicato nella misura in cui promuove il pieno sviluppo della persona e cerca di creare al proprio interno un contesto simile a quello della bellezza del mondo.
Quello di cui parli è un orizzonte molto lontano dalla realtà dei nostri istituti penitenziari. Eppure nella Costituzione italiana la parola carcere non compare mai e non casualmente si parla al plurale di pene, non di pena. Ovvero: esistono altre possibilità, per chi ha commesso un reato, oltre a quella di essere recluso. Mi riferisco alla restorative justice, un’idea di giustizia molto diversa da quella del nostro Paese, che è ancora essenzialmente retributiva.
Si tratta di sostituire alla triade processo-condanna-prigione la triade mediazione-incontro fra l’autore del reato e la vittima-riparazione. Nella giustizia retributiva il ruolo della vittima è pari a zero: la vittima ha soltanto la “soddisfazione” di sapere che l’altro soffre. Invece, l’incontro occhi negli occhi permette al colpevole di comprendere il male che ha fatto e alla vittima di comprendere le ragioni che lo hanno condotto a farlo. Penso al libro di Elvio Fassone, Fine pena ora, (Sellerio, 2015): il detenuto, omicida che veniva dal Bronx di Catania, e colui che lo aveva condannato all’ergastolo si sono scritti per ventisei anni. Da poco è nata un’associazione di persone che si occupano di uomini maltrattanti che stanno in prigione, il Centro studi trattamento agire violento, di cui recentemente è stata inaugurata la sede a Torino. Esistono anche i problemi degli uomini maltrattanti, non solo quelli delle donne maltrattate.
Questo modo di affrontare la questione dei reati e delle loro conseguenze presuppone che l’attenzione si sposti sulle relazioni che esistono o possono ristabilirsi fra le persone.
Sì, assolutamente. Mentre la giustizia retributiva è una copia de ...[continua]

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