La natura afflittiva dell’istituzione penitenziaria si esprime fin dal suo nome. Penitenza, pena, dolore. E noi bravi cittadini che viviamo fuori dal carcere, scrivi nel tuo libro Crudeltà (Doppiavoce, Napoli, 2021), dovremmo provare a immaginare il dentro e a sentirlo sulla nostra pelle. Nello spazio chiuso nel quale l’orizzonte è tagliato, il tempo scorre vuoto, sono assenti non soltanto i progetti per il futuro, ma addirittura il futuro. Del carcere scrivi che è un luogo “considerato la pena meno crudele tra quelle finora escogitate; crudeltà che si aggrava all’estremo nell’ergastolo e in alcune forme repressive assunte -per esempio in base all’articolo 41bis- dal perseguimento della massima sicurezza. È una crudeltà strutturale, struttural-funzionale, una crudeltà delle cose stesse, indipendente da eventuali attitudini o atti di crudeltà soggettiva degli operatori carcerari”.
Che il carcere sia crudele è un dato di fatto. Però, al tempo stesso, come ogni cosa, il carcere è sottoposto a quello che io chiamo il principio super-supremo dell’ordinamento giuridico, che risulta dal combinato dell’articolo 3, II comma (“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”), e dell’articolo 9 integrato, quello sulla bellezza del mondo (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”).
Come norme sul carcere abbiamo il ben noto articolo 27, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, che però sta sotto il principio super-supremo del pieno sviluppo della persona nel contesto della bellezza del mondo: il carcere viene giudicato nella misura in cui promuove il pieno sviluppo della persona e cerca di creare al proprio interno un contesto simile a quello della bellezza del mondo.
Quello di cui parli è un orizzonte molto lontano dalla realtà dei nostri istituti penitenziari. Eppure nella Costituzione italiana la parola carcere non compare mai e non casualmente si parla al plurale di pene, non di pena. Ovvero: esistono altre possibilità, per chi ha commesso un reato, oltre a quella di essere recluso. Mi riferisco alla restorative justice, un’idea di giustizia molto diversa da quella del nostro Paese, che è ancora essenzialmente retributiva.
Si tratta di sostituire alla triade processo-condanna-prigione la triade mediazione-incontro fra l’autore del reato e la vittima-riparazione. Nella giustizia retributiva il ruolo della vittima è pari a zero: la vittima ha soltanto la “soddisfazione” di sapere che l’altro soffre. Invece, l’incontro occhi negli occhi permette al colpevole di comprendere il male che ha fatto e alla vittima di comprendere le ragioni che lo hanno condotto a farlo. Penso al libro di Elvio Fassone, Fine pena ora, (Sellerio, 2015): il detenuto, omicida che veniva dal Bronx di Catania, e colui che lo aveva condannato all’ergastolo si sono scritti per ventisei anni. Da poco è nata un’associazione di persone che si occupano di uomini maltrattanti che stanno in prigione, il Centro studi trattamento agire violento, di cui recentemente è stata inaugurata la sede a Torino. Esistono anche i problemi degli uomini maltrattanti, non solo quelli delle donne maltrattate.
Questo modo di affrontare la questione dei reati e delle loro conseguenze presuppone che l’attenzione si sposti sulle relazioni che esistono o possono ristabilirsi fra le persone.
Sì, assolutamente. Mentre la giustizia retributiva è una copia de ...[continua]
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