L’intervista è stata raccolta da Coleman Hughes, scrittore e opinionista, nell’ambito del suo podcast “Conversations with Coleman”, nato per ospitare “conversazioni oneste con intellettuali di spicco su questioni polarizzate nel campo della razza, della politica e della cultura occidentale”.
Kathleen Stock, filosofa, ha insegnato filosofia all’Università del Sussex per tanti anni. Ha scritto Material Girls: Why Reality Matters for Feminism (2021). Nel 2021 è stata costretta ad andarsene per le sue posizioni sulla questione dei transessuali.

Quando hai cominciato a incontrare problemi all’Università del Sussex per le tue posizioni?
Nel 2018, quando ho iniziato a essere più esplicita, anche se comunque mi limitavo perché immaginavo di scatenare delle controversie. Bisogna considerare che la mia Università ha sede a Brighton, e Brighton è la capitale Lgbtq della Gran Bretagna, per cui molti studenti scelgono questa Università anche per questo motivo. Inoltre, sono lesbica, e fin qui tutto sembrava filare dritto.
Il problema è che ho cominciato a maturare preoccupazioni serie circa la direzione che l’attivismo trans stava prendendo in questo paese, posizioni molto radicali, del tipo che dichiarare la propria identità, cioè il solo affermare “sono una donna” ti renderebbe una donna, con accesso agli spogliatoi femminili, o alle sezioni femminili delle carceri, o il fatto che un minorenne potesse intraprendere un percorso verso una transizione irreversibile prima ancora di aver avuto l’occasione di pensarci seriamente. Tutto questo mi preoccupava.
Inoltre ero impensierita per quest’idea, che vale per le lesbiche in particolare, che l’essere donna fosse presentata come un’identità che si può semplicemente adottare, così come il lesbismo, nel senso che se sei un maschio che si considera donna e sei al contempo attratto dalle donne, puoi dire di essere lesbica ed essere annoverato dalle grandi organizzazioni Lgbtq come tale. Beh, è una cosa ben curiosa pensare che un maschio possa essere lesbica. Quindi c’era tutto questo e poi c’erano anche problemi filosofici, perché viene impiegata la filosofia per sostenere queste idee, un certo tipo di filosofia postmoderna e decostruttivista. Insomma, sulla base di queste cose ho cominciato a dire la mia e sapevo che sarei andata incontro a gravi problemi nella mia università, nella mia disciplina, e più in generale con l’opinione pubblica. Certo non era una cosa popolare da fare.
Quando hai dovuto lasciare la Sussex University e in che circostanze?
Ho lasciato a ottobre dell’anno scorso. Tra il 2018 e il 2021 c’erano state ondate di pubblica ostilità, lettere aperte da parte di colleghi accademici, un’infinità di articoli sulla mia presunta transfobia, colleghi del mio ateneo che sui social media affermavano che ero un pericolo per gli studenti trans, tutto ciò mentre io insegnavo tranquillamente ai miei studenti trans senza problemi, per quanto mi riguarda…
Insomma, mi ero anche abituata a questa diffusa ostilità, ma nel 2021 le cose sono precipitate perché un gruppo di studenti ha orchestrato una campagna per farmi perdere il lavoro; la campagna consisteva nell’affiggere manifesti nel mio campus con il mio nome e la scritta “dev’essere licenziata”, o adesivi nei bagni che usavo io, pieni di affermazioni assurde sulle mie convinzioni, tutte cose che in questi casi sono la prassi, c’è una tale disinformazione su ciò che penso realmente, dicevano cose che ora neppure ricordo bene, che sarei di destra, cosa che non sono...
Come ti identifichi politicamente?
Ho sempre votato a sinistra e continuo a farlo, non potrei mai votare per un partito conservatore in questo paese.
Ti chiedo schiettamente: cosa pensi riguardo ai diritti per le persone trans?
Ovviamente come filosofa ti poni la domanda su cos’è un diritto, ecc. In questo paese ci sono due leggi che proteggono le persone trans e su cui non ho mai espresso alcuna obiezione. Abbiamo il Gender recognition Act, che offre la possibilità di cambiare legalmente sesso date alcune condizioni, poi c’è l’Equality act, che disciplina il cambio di genere come caratteristica protetta al pari del sesso biologico, della gravidanza, dell’età, e di varie altre categorie, che so, l’etnia. Fin qui tutto bene. Le mie critiche non riguardano questo tipo di cose. La mia preoccupazione riguarda questa pretesa relativamente radicale che queste leggi vengano ora cambiate per tutelare allo stesso modo la propria personale percezione di identità, che questa cioè divenga una caratteristica protetta di per sé, senza il bisogno di attuare un processo chirurgico o comportamentale. Insomma, il solo dire “sono donna” dovrebbe bastare per essere considerati donna. Con la semplice dichiarazione si dovrebbe ottenere il cambiamento di sesso legale. Questo secondo la nuova ortodossia della sinistra. È a questo che obiettavo, a quest’incursione in quelli che sono i diritti delle donne e dei bambini da parte di questa nuova posizione radicale. Qualcosa di molto diverso da ciò che avevamo prima.
La Scozia ha tentato di modificare una legge per rendere meno vincolante il riconoscimento dell’identità di genere, cioè la possibilità per un trans di vivere in tutto e per tutto come donna in tutti gli aspetti della società. Questa iniziativa è stata bloccata dal Regno Unito. Puoi parlarne?
La Scozia ha un governo autonomo, per cui ha alcuni poteri legislativi. Tra l’altro io stessa sono di origini scozzesi. In Scozia governa lo Scottish national party, e per motivi a me sconosciuti recentemente hanno adottato una posizione radicale, praticamente si sono fatti imboccare dalle organizzazioni radicali trans e hanno intrapreso la strada che porta alla cosiddetta Self-id, l’auto-identità. Ora, dobbiamo capire che la Self-id non è un fatto che riguarda solo noi, se ne parla ovunque; la si ritrova nell’agenda di Germania, Spagna, Canada, per fare alcuni esempi.
La Scozia ha annunciato che avrebbe provato a implementare una nuova legge che avrebbe reso più facile alle persone il cambio legale di sesso. Al momento, la situazione nel Regno Unito è che prima di tutto devi avere una qualche valutazione medica, una valutazione delle ragioni che ti inducono a questa scelta, il motivo per cui vuoi effettuare la transizione, in più devi dimostrare un impegno a voler vivere come membro dell’altro sesso, vale a dire indossare vestiti dell’altro sesso (ed è una cosa di cui non è molto chiaro il significato). Insomma, nella legge è incorporato il riconoscimento di un certo tipo di “impegno”; in altre parole, devi fare sul serio. Il governo scozzese voleva sbarazzarsi di questi vincoli, di fatto rendendo il processo di transizione al nuovo sesso molto più rapido, e inoltre prevedeva un abbassamento dell’età minima credo a 16 anni. In Inghilterra, una tale proposta non è in discussione, per cui si sarebbe creato un sistema a due livelli. Il problema, per come è stato presentato dal governo britannico, e credo sia vero, è che non è chiaro come questa riforma avrebbe modificato i diritti delle donne, perché in quanto donne il nostro sesso biologico è una caratteristica protetta; con questa modifica, un numero maggiore di persone potrebbe cambiare sesso con null’altro che un’autocertificazione, e diventa poco chiaro se questo cambiamento può essere considerato un cambio di sesso a tutti gli effetti, con le tutele del caso, oppure no. Un tale provvedimento potrebbe mettere i diritti delle donne e delle cosiddette donne trans gli uni contro gli altri.
Puoi farci un esempio di come questo problema potrebbe manifestarsi?
È ancora poco chiaro e si discute molto anche a livello giuridico di cosa significherebbe, ma prendiamo per esempio una donna che volesse adire una causa di discriminazione. In questo caso, si immagina un uomo nella medesima situazione e si dice: “Sarebbe andata così se al posto di una donna ci fosse stato un uomo?”. Bene, nel caso di una donna trans, quale sarebbe l’oggetto della comparazione, un uomo o a una donna? Oppure prendiamo il caso in cui una donna trans e una donna entrino in competizione in un caso di discriminazione, dovremmo trattare la donna trans come appartenente allo stesso sesso della donna?
Ci sono aspetti ancora oscuri. Queste comunque sono alcune contestazioni all’idea di trattare le donne trans come donne biologiche in tutte le circostanze.
Forse questa è la parte più “eretica” della mia posizione: mi dispiace, ma io non credo che le donne trans siano donne. Sono uomini che hanno cambiato sesso, hanno attraversato un processo legale per cambiare status, ma è una sorta di finzione, non hanno cambiato davvero sesso, perché gli esseri umani non possono cambiare sesso. Ci sono caratteristiche della loro condizione che potrebbero diventare determinanti per un caso di discriminazione, ma che verrebbero del tutto oscurate se dicessimo che sono vere donne.
Voglio tornare su ciò che hai detto. C’è questa distinzione di base che risale a molto tempo fa tra sesso e genere. C’è un dibattito in corso. Tendenzialmente il sesso ha a che fare con i cromosomi. Poi c’è quest’altra cosa che viene chiamata “identità di genere” e le persone si chiedono se il genere sia collegato al sesso o se sia più una percezione psicologica. Tu dici che le donne trans non sono donne. Dal mio punto di vista non avrei problemi a dire che una donna trans non è una femmina, questo mi pare un fatto scientifico puro e semplice.
TransAction direbbe che sei transfobico!
Personalmente lo dico senza alcun odio, senza fanatismo.
Certo, ma non ce n’è bisogno per essere etichettati così.
Comunque se osservo questa distinzione, dovrei poter dire che le donne trans sono biologicamente maschi ma vivono nella nostra società come donne…
Dire “vivono come donne” non è la stessa cosa che dire “sono donne”.
Giusto. Allora, parlaci del tuo punto di vista su questa distinzione tra genere e sesso. La accetti?
La prima cosa da dire è che la parola “genere” è ambigua e parte del problema di questo dibattito avvelenato è che le persone usano la parola “genere” in modi diversi. Riconosco il senso con cui la usi tu, ma personalmente non credo sia questo il senso con cui viene usata abitualmente.
Voglio provare a fare chiarezza su alcuni significati che vengono attribuiti alla parola “genere”. Talvolta è usata come sinonimo educato di “sesso”, perché purtroppo la parola che definisce il “sesso” biologico è la stessa che si usa per descrivere l’atto sessuale, e le persone sono un po’ pudiche a riguardo, per cui dicono “genere” invece di dire “sesso”. Quando compili il passaporto, ti si chiede il genere, ma si vuole sapere il sesso, cioè se sei femmina o maschio.
Poi c’è il senso che hai menzionato tu, che è venuto avanti in gran parte attraverso il lavoro delle femministe degli anni Settanta che dicevano che il genere non aveva niente a che fare direttamente con il sesso, ma con il modo in cui ci si presentava, con i ruoli comportamentali, con gli stereotipi e le norme secondo le quali maschi e femmine della specie umana si dovrebbero comportare in quanto tali, per cui c’è la mascolinità e la femminilità, alle ragazze piace il rosa, ai ragazzi piace il blu… ma quello cambia da cultura a cultura, ed è questo il significato di “genere”.
Oggi c’è un terzo significato che credo si avvicini al modo in cui lo intendi tu e personalmente non credo che abbia senso, e cioè che essere uomo ed essere donna sarebbero generi, ma non si riducono a mascolinità e femminilità, cioè essere donna ha a che fare con il presentarsi in un modo femminile, ed essere uomo è presentarsi in un modo maschile. Personalmente credo sia profondamente sessista, perché così si riduce la femminilità al rossetto e al rosa  e la mascolinità a essere macho.
Per cui direi che c’è un motivo giusto per cui non si vuole dire che l’essere uomo e l’essere donna non sono di per sé la mascolinità o la femminilità; uomini e donne possono essere mascolini o femminili quanto vogliono; personalmente da tanti punti di vista sono una donna mascolina, e va bene così, per cui è abbastanza liberatorio pensarla così piuttosto che dire, cosa che trovo limitante, che ciò che renderebbe un uomo una donna è che gli piacciano le “cose da donna”, no?
Sono cresciuto con l’idea che un ragazzo possa essere quello che vuole: ovviamente c’erano pressioni perché maschi e femmine si conformassero a certi comportamenti, ma sicuramente era condivisa l’idea che l’atteggiamento più “illuminato” fosse che ognuno fosse il tipo di ragazzo che desidera, che si può essere maschio e vestirsi di rosa, giocare con le ragazze, e resti comunque un ragazzo in piena regola, o che puoi essere una bambina a cui piace fare la scalmanata con i maschietti, quando ero piccolo la chiamavamo “tomboy”, maschiaccio. E quello non era inteso in senso offensivo, era un termine perfettamente neutrale. Ma c’è una differenza netta tra questo e un atteggiamento per cui a un ragazzo cui piacciono cose tipiche da ragazze, beh, allora forse sei una ragazza. Questo è un atteggiamento che è venuto avanti negli ultimi dieci anni.
Esattamente. Ed è molto pericoloso per i nostri bambini, in particolare per bambini che magari finirebbero per diventare gay, o gender non-conforming… Questa è la conseguenza logica del dire che ciò che rende un maschio che si mette il rossetto e vestiti femminili una donna è che la sua identità di genere è data dall’attrazione per quelle cose.
Tornando alla seconda parte della mia risposta alla tua domanda, l’altro problema che vedo nell’affermare che le donne trans sono donne o che gli uomini trans sono uomini è che la parola “donna” non è sinonimo di “femmina”. Nel nostro linguaggio (in ogni linguaggio c’è sempre una parola per “donna” perché è una delle distinzioni fondamentali tra gli esseri umani) la parola “donna” denota le femmine umane che raggiungono l’età della maturità sessuale. Abbiamo le ragazze e abbiamo le donne, abbiamo i ragazzi e abbiamo gli uomini; ci servono queste parole perché ragazze e donne non sono la stessa cosa, così come ragazzi e uomini non sono la stessa cosa. Ci serve un concetto che individui le donne umane che hanno superato l’età della maturità sessuale. E quella parola non è “maschi”. Questo concetto funziona in un milione di modi, tutti importanti nel nostro linguaggio, perché socialmente ci sono differenze decisive tra ragazze e donne, tra ragazzi e uomini, e dobbiamo continuare a rappresentare questa differenza. Non possiamo rinunciare così alla parola “donna”, e tenere la parola “femmina”. Non può funzionare.
Tra l’altro ci sono femmine che non sono nemmeno umane, “femmina” e “maschio” è una distinzione applicabile al mondo naturale, per cui ci servono concetti raffinati, e li abbiamo, e hanno funzionato bene per migliaia di anni. La parola “donna” serve a distingue le femmine umane adulte dai maschi umani adulti e dai bambini.
Prima di quest’epoca dell’ideologia del genere, per cui una ragazza a cui piacciono cose da maschio potrebbe essere in effetti maschio, c’era comunque una piccola percentuale di persone che crescendo si erano rese conto di far parte dell’altro genere, e non era certo una “moda” sociale o cose del genere, perché era un tabù ovunque nel mondo fino a poco tempo fa. Qual è il modo migliore, socialmente accettato, per rivolgersi a una persona in questa situazione? Su questo sono un po’ in difficoltà... Chiamare “donna” qualcuno che è nato maschio diventerà presto lo standard su cui definire il rispetto verso una persona in quanto individuo. È qualcosa che mi sento di poter fare anche se posso essere in disaccordo con quell’ideologia.
Su questo ho scritto un libro in cui ho provato a portare un po’ della mia esperienza con la filosofia nella fiction.
Mi pare che il modo migliore per comprendere le rivendicazioni secondo cui le donne trans sarebbero donne, quelle che avocano a sé il diritto di utilizzare i pronomi “lei” e gli aggettivi femminili; il modo migliore per comprendere la possibilità di cambiare legalmente il sesso è la “legal fiction”.
Il concetto di “legal fiction” non è limitato al caso delle donne trans, è valido anche per altri contesti, come per esempio quando le corporation vengono trattate come se fossero persone per farle ricadere nell’egida di determinate leggi, così come una volta appena una donna si sposava questa veniva trattata fittiziamente come se fosse proprietà del marito. Insomma ci sono precedenti del concetto di “legal fiction”.
Sono tutti abbastanza impopolari…
Certo non piacciono molto. Questa della moglie sicuramente non è più così popolare, in parte anche grazie alle istanze dei movimenti radicali. Fino a vent’anni fa credo che alle persone andasse ancora bene giocherellare con questo concetto della donna trans da considerare come donna, perché in primo luogo non c’era un boom di transizioni, e in secondo luogo non c’era questo atteggiamento oltranzista. Io mi approccio alla questione pensando: “Va bene, è una finzione, mi sta bene anche seguire questa finzione... sono felice di potermi immergere in questa finzione secondo cui una persona si dice uomo o donna anche se io non penso che lo siano...”.
Ciò a cui obietto assolutamente, che è ciò che sta accadendo nel mio paese e in altri, è che ci venga imposto di accettare questa finzione. Non sono disposta a concedere il beneficio di questa fiction, per esempio, a uno stupratore maschio che voglia essere posto in una prigione femminile, e certo non sono disposta ad accettare questa finzione nei riguardi dei bambini. Credo che non abbiano chiara la differenza tra finzione e realtà. Ritengo pertanto dannoso dare seguito alle cosiddette presunte “identificazioni temporanee” dei bambini che giocano con certe idee, che stanno ancora sperimentando. Nella nostra generazione abbiamo visto molti bambini che giocherellavano con quei concetti, per cui dipende dal contesto; ora ci sono pure persone più drastiche, che rifiutano di intrattenersi con quel tipo di fiction, ma io non arrivo a quel punto.
Io non avrei problemi a chiamare qualcuno con il pronome che preferisce, purché esista nella nostra lingua, anche se mi aspetterei un po’ di tolleranza se sbaglio... Credo che traccerei un limite là dove lo hai tracciato tu, non solo quando si parla di carcere o di bambini, ma anche nello sport.
Per me non sarebbe un problema dire: “Lei non può entrare in questa squadra perché non è una donna”.
Nemmeno per me. Se chiediamo a dei transessuali adulti, alcuni racconteranno di come non appena si sono resi conto del proprio sé rispetto al mondo sapevano in modo incontrovertibile, indiscutibile, di appartenere all’altro sesso e non appena sono stati legalmente in grado di cambiare sesso l’hanno fatto. Non si sente invece quasi mai parlare delle persone che erano affette da un’altrettanto forte disforia di genere da bambini o da adolescenti che però è andata scemando gradualmente e hanno continuato a vivere con il loro sesso di nascita. Ci sono pure quelli che hanno finito per pentirsi e vorrebbero operare una de-transizione. Parliamo di persone con problemi di salute, che patiscono gli spiacevoli effetti collaterali di terapie ormonali, chirurgiche, chirurgie inverse... un campo ancora poco conosciuto. Cosa pensi dell’attuale dibattito sulla disforia di genere?
Beh, la prima cosa che mi viene da dire è che sono sempre stata scettica circa le autonarrazioni a posteriori. Cioè, se uno è interessato alla letteratura dovrebbe sapere che c’è un “narratore non attendibile” che ti accompagna sempre e questo riguarda tutti noi. Tralasciando queste mie perplessità, il problema per come l’hai presentato tu è che non c’è assolutamente modo di predire come andrà a finire un simile processo per un bambino. Sappiamo anche che ci sono fattori ambientali che rendono più probabile un desiderio di transizione. Tutte cose che complicano la questione. Per esempio, oggi esiste una tendenza fortissima sul web. È davvero difficile misurare quanto un minore venga influenzato dai suoi amici reali o virtuali, da queste chat room, da queste organizzazioni che gli dicono che potrebbe essere trans. Insomma, non si sa se sono entrati in contatto con delle realtà che li hanno spinti a interpretare la propria esperienza in quel modo.
Esiste una tentazione molto forte a credere a un’idea quasi religiosa secondo cui nel profondo c’è un’anima con un genere che vuole emergere, e capendo questo il bambino sente di poter dire: “Sono trans”, o “Sono maschio”. Insomma che al fondo ci sia una tua “vera natura”.
Noi anglosassoni -ma in particolar modo, devo dire, gli statunitensi- siamo vittime di questa creduloneria di massa per cui un bambino saprebbe già con esattezza chi è e quindi noi dobbiamo capitolare a questo suo sapere e disporre tutto affinché si possa procedere con i necessari trattamenti medici di transizione. È una follia!
Anche perché esiste una quota relativamente alta di bambini affetti da autismo in questo tipo di campione; sappiamo anche che alcuni di questi casi hanno alle spalle storie traumatiche, e che ciò può indurre con più probabilità la disforia di genere. Sappiamo infine che alcuni di questi bambini sono sottoposti a qualche tipo di cura, o hanno dei tutori, e più suscettibili alla transizione o meglio a pensare di volere una transizione, più di altri. Sono tutti campanelli d’allarme che ci dovrebbero far capire che è in atto qualcosa di non così semplice. Siamo ad anni luce dall’idea che esista questa piccola anima emergente, per cui dobbiamo vestirli in modo diverso, chiamarli con pronomi differenti, dar loro i bloccanti della pubertà. Come hai appena detto non sappiamo praticamente nulla di tutto ciò e ciò che sappiamo ci dovrebbe molto preoccupare. Parliamo di cose come la densità delle ossa, la funzionalità renale, l’altezza... tra l’altro, una volta che si cominciano ad assumere i farmaci che bloccano la pubertà, il passaggio successivo sono gli ormoni dell’altro sesso e sono percorsi che si cominciano anche a dieci anni, per cui è altamente probabile che il tuo corpo verrà modificato in maniera irreversibile prima ancora che tu sappia cosa stai facendo.
In effetti mi ha stupito molto scoprire che sono pochi quelli che si fermano dopo aver assunto i farmaci che bloccano la pubertà.
Non abbiamo molte indagini e spesso i dati vengono strumentalizzati ideologicamente e presentati male. Credo che al momento uno sviluppo interessante e positivo è che chi comprende i dati e la differenza tra esperimenti controllati e campioni aneddotici sta cominciando a esaminare queste cose. Per come lo comprendo io, questo in parte è dovuto al mito secondo cui i farmaci che bloccano la pubertà non farebbero altro che mettere in “pausa” lo sviluppo per darti la possibilità di riflettere. Ma le cose non stanno proprio così. Quei farmaci, di fatto, ritardano lo sviluppo, impediscono al tuo corpo di svilupparsi, ed è presumibile che impediscano anche al cervello di svilupparsi, dal momento che la pubertà è un processo decisivo nello sviluppo umano; succedono ogni genere di cose.
Insomma, diventi diverso dai tuoi amici, anche in base alle differenze del tuo corpo, diventi “speciale”, attraversi un percorso sanitario, i tuoi genitori ti chiamano trans, e potrebbero anche essere orgogliosi di questo perché ti rende differente, ma sono tutte influenze psicologiche che ti portano in una determinata direzione. Dunque, anche se non è vero che tutti i bambini che iniziano un processo di blocco della pubertà lo porteranno avanti fino in fondo, nel momento in cui passeranno alla terapia ormonale cross-sex saranno ancora molto giovani, la loro corteccia prefrontale non sarà ancora propriamente sviluppata e però ormai saranno diversi dai loro amici che hanno attraversato la maturazione sessuale. Questo tra l’altro li rende più vulnerabili a narrazioni del tipo: “devi continuare il percorso che hai iniziato”.
C’è questa idea per cui esiste un certo numero di ragazzini che si identificano come trans, in particolar modo le ragazzine starebbero subendo un processo di contagio sociale molto potente. Mi rendo conto che potrà sembrare ridicolo ad alcuni, e ad altri molto offensivo, perché il tema è stato politicizzato. Si sono verificati altri casi di contagio sociale, di suggestione collettiva. Un articolo dell’“Atlantic” di un anno parlava di questo gruppo di ragazzine che avevano cominciato a manifestare i sintomi della Tourette semplicemente guardando video di influencer effettivamente affetti dalla Tourette. È come l’effetto placebo, è reale...
Sicuramente ti ricorderai cosa volesse dire stare in gruppi di pari e subire la pressione a pensare o a provare determinate cose. Hai detto che alcuni potrebbero trovare questa cosa ridicola, ma perché? Ci sono davvero adulti che non capiscono quanto gli esseri umani siano suscettibili al contagio sociale? Pensa a quando sei in metropolitana e vedi tutti intenti a guardare il proprio telefono, tutti con la stessa postura, o come si può essere trascinati da un movimento politico, o religioso… nella storia si trovano tantissimi esempi del genere. C’è qualcosa di strano, di arrogante nella nostra epoca che ci fa pensare di non essere vulnerabili a questo genere di cose. Pensiamo di essere sempre del tutto consapevoli dei vestiti che indossiamo, ma tutto ciò che ci riguarda è frutto di questa gigantesca influenza. A meno che qualcuno non sia un grande eccentrico e non abbia alcuna consapevolezza sociale, ognuno è influenzato dal suo ambiente sociale. Per i bambini questo è terribile perché stanno ancora giocando, esplorando, cercando di capire il mondo.
Le prove che abbiamo ci suggeriscono che l’effetto dell’influenza è ancora piuttosto limitato, ma anche che molti desisterebbero, se venissero lasciati soli.
Un altro dato interessante è che la transizione socializzata rende meno probabile che si desista, per cui anche solo chiamare un bambino con i suoi pronomi di elezione, o cambiargli il nome a scuola, sono tutti processi che riducono la probabilità che desista perché rafforzano un qualcosa che magari sarebbe stato solo temporaneo, rendendolo permanente...
Questo è un argomento a favore della posizione di Ben Shapiro: dovremmo stare con i piedi per terra e appellarci a qualcuno al maschile anche se vorrebbe essere chiamato al femminile.
Penso di sì, soprattutto per i bambini. A me  piacerebbe che si potesse dire “mettiti i vestiti che vuoi, fatti i capelli come vuoi, se sei attratto dal tuo stesso sesso non è un problema”. Se vogliamo cioè rimanere ancorati alla realtà, dobbiamo anche assicurarci che la nostra versione della realtà non sia ugualmente ideologica, cioè che non finisca per scivolare occultamente verso punti di vista rigidi su cosa e come dovrebbero essere ragazzi e ragazze.
L’argomento a questo punto, non solo per gli attivisti trans, è che le persone trans e gli adolescenti in generale sono molto suscettibili alla depressione e al suicidio, e questo può essere peggiorato quando non possono fare una transizione né socialmente né chirurgicamente.
Non ci sono dati a sostegno di questa teoria.
Provo a mettermi nei panni di una persona convinta di voler fare la transizione. Cosa le diresti?
Questo argomento viene usato come un martello per far passare più o meno tutto quello che è necessario al movimento trans. Lo spettro del suicidio induce il terrore nei genitori, nei bambini e negli insegnanti, perché si adeguino, ma bisogna guardare bene: prima di tutto, i dati che vengono citati sono spesso del tutto fuori scala.
Si sente dire: il 50% degli adolescenti trans hanno pensato al suicidio. Ma dove li hanno presi questi dati? È un campione che si è selezionato da solo? Qual è la domanda che hai posto per ottenere tale risposta? C’è una differenza tra pensare: “Il pensiero mi ha sfiorato”, e dire...
Non nego esista il problema, perché esiste il problema dell’ideazione suicida, dico soltanto che dobbiamo fare una bella distinzione, c’è differenza tra ideazione e tentativo; dovremmo avere dati e statistiche validi su queste cose. Un mio collega ha analizzato i dati sui veri e propri suicidi su un campione di persone seguite in cura in una clinica per l’identità di genere nel Regno Unito, chiamata Tavistock, e ha concluso che sulla base del campione essere trans incrementa il rischio di suicidio di un valore di cinque. Ok, l’altra cosa da fare è dire, ok, ma quali sono le altre co-morbilità in questo campione? Per esempio, l’autismo incrementa il rischio di suicidio, così come l’ansia, la depressione e l’anoressia; poi ci sono problematiche di malattia mentale in questa popolazione. Non possiamo semplicemente isolare un singolo valore e non guardare il contesto. Essere una ragazzina adolescente e avere uno smartphone, anche questo incrementa il rischio di suicidio; se guardiamo i tassi di suicidio nelle adolescenti, e non parlo di ragazzine trans, ma di semplici ragazzine adolescenti, sin da quando sono arrivati gli smartphone i casi di suicidio sono cresciuti drammaticamente.
Tutto ciò suggerisce che è in atto una crisi di salute mentale generale nei ragazzini.
Il terzo e più ovvio pezzo del puzzle è dire: ok, siamo d’accordo, fra gli adolescenti che si identificano come trans -questa è la formula che uso, non dico “adolescenti trans” come se fosse un fatto permanente, perché non lo sappiamo- c’è un problema di salute mentale, problema presente anche nel gruppo più ampio, allora dov’è la prova che una transizione socializzata li aiuterà? Dov’è questo nesso causale? Talvolta sentiamo dire che è colpa della transfobia. Non abbiamo idea del motivo per cui questi ragazzi sono in difficoltà; invece sappiamo che alcuni di loro sono autistici, che molti di loro sono omosessuali, che tanti di loro hanno problemi emotivi più generali. Dobbiamo indagare con appropriatezza le singole situazioni. Non c’è un legame diretto per cui si possa dire: “Ah, facciamogli la transizione socializzata e i loro problemi saranno risolti”. È un bastone agitato con faciloneria a scopi propagandistici, senza basi, per terrorizzare le persone e farle acconsentire a un programma decisamente ideologizzato.
Io non ho figli, ma spesso penso a cosa farei se mi trovassi nella situazione di un genitore il cui bambino sentisse di appartenere a un altro genere e chiedesse di essere definito come appartenente all’altro sesso, e cominciare un trattamento di farmaci che bloccano la pubertà, o la terapia ormonale, eccetera. È una condizione in cui si ritrovano molti genitori, che non sanno cosa fare... poi ci sono queste storie di persone che hanno scelto la de-transizione, che hanno devastato i propri corpi, che hanno perso la capacità di riprodursi, perché anche loro erano convinti che fosse la cosa giusta da fare...
Mi sento male per i genitori che si trovano in queste situazioni... Io ho dei figli adolescenti, so che hanno amici in quella condizione e trovo sia terribile. Trent’anni fa potevi essere una giovane lesbica che si considerava un maschio, e in effetti molte delle mie amiche lesbiche hanno passato una fase in cui insistevano nel voler essere chiamate con nomi maschili, cercavano di urinare stando in piedi, e giocavano con altri maschi, e i loro genitori erano tranquilli, erano quel tipo di genitori progressisti che dicono: “Va bene, ti chiameremo George, o come ti pare...”, e poi ne sono uscite crescendo. Ora ai genitori non è più concesso adottare questi comportamenti con leggerezza, è tutto influenzato da questa tempesta di fuoco culturale in cui se segui la corrente stai di fatto facilitando un fenomeno che potrebbe rivelarsi dannoso e se ti opponi puoi essere bandito dal tuo gruppo di amici.
Ci sono addirittura luoghi in cui puoi essere perseguito legalmente. È una follia. Conosco molti genitori che vivono una vera agonia. Agonia, perché magari non sono particolarmente di destra, neppure conservatori, hanno sempre accudito i figli, pensato a quale cibo fosse migliore per loro, hanno cercato di proteggerli, e ora semplicemente non vogliono che le loro figlie si amputino i seni, o che prendano ormoni per farsi crescere la barba per il resto della vita. Sono genitori convinti che i figli non siano consapevoli delle conseguenze e non sanno cosa fare.
Spesso non possono neppure parlarne perché devono proteggere la privacy dei figli, per cui sono intrappolati in un sistema in cui nessuno parla per loro, o almeno poche persone lo fanno, come Ben Shapiro, o chi per lui, e magari neppure si ritrovano nella visione del mondo di questi conservatori. È terribilmente difficile.
È difficile trovare persone che parlino per loro con empatia. Se non avessi passato un’ora sul forum di Reddit “DeTRans” a leggere le storie personali non avrei capito la portata di queste vicende. Si trovano le storie di questi giovani che dicono: ero davvero convinto di essere trans a 16 anni... Ho notato che spesso sono le lesbiche le più esplicite su problemi, forse anche tu conosci persone che alla fine hanno capito di essere lesbiche ma che oggi verrebbero categorizzate come trans.
Sicuramente è parte della questione. L’altra parte è che c’è un trend nella transizione socializzata nel mondo lesbico, in particolare per le lesbiche mascoline. Si potrebbe anche dire: “Va beh, siamo adulti, non voglio certo far cambiare idea a qualcuno...”, e però mi sembra che così si vada perdendo l’orgoglio e l’auto-accettazione dell’essere lesbiche.
Non c’è niente di male nell’essere una donna che è attratta dal suo stesso sesso, e si presenta come donna. Io personalmente ne sono felice; non vedo tanti modelli in questo senso intorno a me, quantomeno sono sicura che le giovani lesbiche non ne vedano. È come se la stessa parola “lesbica” fosse caduta in disuso. Ti devi definire “queer”…
Sembra una parola antiquata…
C’è una specie di perdita di interesse per i gay e le lesbiche, che finisce per intaccare anche le parole. Per cui si cerca di liberarsi di quei termini. Ora le lesbiche sperano di apparire più “cool” mettendosi sotto il cappello del “queer”, del non-binary, del fatto di non essere “davvero donne”. Personalmente preferisco dire: “Guarda, siamo donne attratte dal nostro stesso sesso. Va bene così, è divertente”.
La parola “queer” per come la conoscevo al college era una parola strana, perché non denotava alcun orientamento sessuale o di genere, come invece facevano le parole gay, lesbica, trans, non-binary... Molte ragazze che ho conosciuto hanno attraversato una fase queer, in fondo potevi essere eterosessuale, cisgender e queer! È finito per diventare un archetipo, eppure fa ancora parte dell’acronimo Lgbtq che include orientamenti sessuali legittimi e anche l’identità trans.
Ora sotto quest’ombrello abbiamo anche gli “asessuali”, che si definiscono come persone che non sono neppure del tutto disinteressate al sesso, potrebbero talvolta essere interessate e altre no, cioè praticamente chiunque!
La mia preferita è la parola che definisce chi è attratto sessualmente da una persona solo una volta che prova un legame emotivo… io la definirei un essere umano femmina! Ma in realtà esiste un termine apposito...
Il fatto è che tutto è diventato identità. Gli uomini trans possono andare nei club gay ed essere infastiditi dal fatto che non vengono trattati come uomini gay e poi ci sono gli uomini che si vestono con abiti esageratamente femminili e che dicono sul web di essere lesbiche perché sono attratte dalle donne… io direi che sono uomini eterosessuali! Essere attratti dal sesso opposto è letteralmente l’eterosessualità. Ma la finzione qui è che sono lesbiche.
Allora, si può dire che tutto questo è un’assurdità, roba effimera di internet, ma la cosa che mi intristisce è che le nostre istituzioni, quelle che dovrebbero battersi per i diritti di gay e lesbiche, hanno completamente capitolato. Se vai sui siti di Stonewall Uk [associazione inglese che tutela i diritti Lgbt], di Gladd [associazione inglese dei medici Lgbt] e cerchi la definizione di “lesbica”, scoprirai che può includere anche i maschi. In altre parole trattano gli orientamenti sessuali come identità “interiori”, per cui è tutta una zuppa identitaria.
A questo punto allora perché non includere le persone che indossano vestiti bislacchi, o che si tingono i capelli di blu? Perché no? È un’altra identità, è tutta personalità, è estetica. Non sono più categorie politiche.
Un’amica mi ha detto di essere diventata una “terf”, le cosiddette femministe radicali che escludono i trans, termine usato in maniera spregiativa per definire persone come te, Helen Joyce o J. K. Rowling…
Io non sono neppure una femminista radicale...
Questa mia conoscente è lesbica, e frequentando il college ha conosciuto una persona nata maschio che era trans. Insomma, uno che andrebbe chiamato “donna”. Questa persona la faceva sentire in colpa per indurla ad avere un rapporto sessuale con lei...
Io direi “lui”. Giusto per essere chiari.
Insomma, questa persona con un pene per fare sesso usava la tattica della manipolazione, del senso di colpa, antiche tecniche maschili. In questa versione però il concetto era “sei una bigotta se non fai sesso con me”. La mia amica diceva di non potersi neppure lamentare di questa situazione, perché la cultura diffusa alla Columbia e alla Barnard era tale che denunciare una cosa del genere l’avrebbe esposta a un rischio…
Sì, la morte sociale!
Al rischio di essere “cancellata”, di essere etichettata…
Attenzione: etichettata da persone eterosessuali! Tra le tante cose che mi colpiscono c’è anche questa di doversi sorbire la lezioncina sul tuo orientamento sessuale di lesbica da donne eterosessuali.
Questo è uno dei motivi per cui spesso le lesbiche sono in prima linea nel dibattito su questi temi. Ci sono donne trans che non solo dicono di essere lesbiche, ma aggiungono: “io sono lesbica, tu sei lesbica, perché non sei interessata a me? Sei forse transfobica?”. Scusate un attimo: siamo lesbiche! Voglio dire: nel senso originale, il nostro orientamento sessuale esclude i maschi! Qui invece abbiamo un maschio che viene a dirci di essere lesbica anche lui e che pertanto… Ora, un discorso del genere su di me non avrebbe alcun effetto, salvo irritarmi profondamente, ma avrebbe un grande effetto su una ragazzina diciassettenne che sta ancora scoprendo la sua sessualità.
Nei circoli queer si riproducono dinamiche che sono al cento per cento strutturate intorno al sesso biologico, e in maniere note, cioè maschi che tormentano le ragazze per indurle a fare sesso, tranne che ora questi maschi sarebbero “donne”, per cui in qualche modo dovrebbe essere diverso. Non è diverso!
Un’altra cosa da aggiungere, di nuovo, è che se tutto ciò accadesse solo nei gruppi giovanili non ci sarebbe molto che potremmo fare, certo sarebbe già una cosa grave. Il fatto è che il problema riguarda le nostre istituzioni. Il capo di Stonewall ha dichiarato ufficialmente che se una lesbica intende escludere le donne trans dal suo orizzonte di frequentazioni e possibili appuntamenti, solo perché sono trans (e cioè perché sono maschi) ci troveremmo di fronte a un caso di “razzismo sessuale”. Saresti cioè equiparata a chi esclude dai propri interessi le persone in base all’etnia, insomma a un razzista! Bene, ci si può chiedere se esista veramente una cosa chiamata “razzismo sessuale”, ma dando per scontato che sia una cosa negativa, il fatto che il capo della più grande organizzazione Lgbtq di Gran Bretagna dica alle lesbiche che sono delle “razziste sessuali” perché non vogliono frequentare sessualmente le donne trans… siamo alla follia.  
In che percentuale le persone trans diciamo comuni sono allineate con queste posizioni radicali?
La cosa ideale sarebbe non dover oscillare continuamente tra due estremi. Ma comunque, esiste una varietà di opinioni. Ci sono quelli che definirei “transessuali vecchia scuola”, persone che ben prima di quest’ondata di attivismo trans hanno fatto le operazioni, hanno preso gli ormoni e molte delle persone che le conoscono magari non sanno nemmeno che sono trans. Ora, quelli che conosco io, e non è un campione casuale perché sono persone che mi cercano, sono interdette per quanto sta succedendo perché pensano, ma come, io ho patito tutto questo dolore, ho sofferto, la società mi ha rifiutato, e ora basta dichiarare che sei donna perché così ti senti? Non è abbastanza, devi fare di più, ti devi “guadagnare” lo status. Questo crea una divisione. Lo vedo in continuazione. Comunque è difficile conoscere le loro posizioni perché molti trans della vecchia scuola non vogliono esporsi. È proprio questo il punto: loro volevano essere assimilati, e comunque non ci sono abbastanza indagini e i vari governi o i partiti tendono a delegare la responsabilità su questi temi alle organizzazioni Lgbtq, non si impegnano a fare ricerca direttamente. Gli altri hanno interesse a continuare a divulgare questa narrazione fondata sulla vittimizzazione, sul rischio suicidio, per cui bisogna “arrendersi” alle loro istanze...
Parliamo un po’ di sport. Di recente si è parlato del caso di Leah Thomas, una nuotatrice dell’Università della Pennsylvania nata maschio che dopo la transizione, riconosciuta dall’associazione di nuoto del suo college, ha cominciato a competere come donna ottenendo ottimi risultati.
Ma che sorpresa!
Ovviamente è scoppiata una forte controversia. Io vorrei una società in cui una persona trans possa essere un’atleta e competere in uno sport, senza però che ogni record delle categorie femminili diventi appannaggio di atleti nati uomini. Tu come la vedi?
È completamente falso che due anni o qualsivoglia numero di anni di soppressione del testosterone possano cancellare i vantaggi che ti derivano dalla pubertà maschile, atleticamente.
Parliamo di polmoni più grandi, muscoli più scattanti, ossa più dense, e questi sono solo alcuni dei vantaggi sportivi che hanno i maschi; questo spiega il gap nelle performance delle due categorie. La donna più veloce del mondo arriverebbe comunque dopo altri settecento maschi del college. In certi sport è ben noto e costante questo gap, si basa su capacità biologiche. In certi sport, le autorità di governo non impongono neppure di ridurre il testosterone; ormai dire “sono una donna” è diventata una formula magica.
Questo è incredibilmente ingiusto nei confronti delle donne, ma è anche pericoloso in sport di contatto come il rugby; ci sono pressioni in Gran Bretagna perché i nati uomini possano entrare in squadre di rugby femminili, ed è folle, se venissi atterrata da un maschio enorme che si identifica come donna potrei rompermi l’osso del collo. Le persone che sostengono queste cose per me è come se facessero parte di una sorta di setta, perché è così platealmente ingiusto e assurdo...
Ho incontrato la madre di una nuotatrice che ha gareggiato contro Leah Thomas. A un certo livello conosci tutti i tuoi potenziali concorrenti, e all’improvviso entra in gioco questa “Leah Thomas” e ci si chiede, ma chi sarà, nessuno ne ha mai sentito parlare, e all’improvviso nello spogliatoio femminile entra questo, mi spiace ma dirò uomo, e le atlete si devono coprire usando degli asciugamani, perché non vogliono farsi vedere da lui. C’è un uomo in piscina e c’è un uomo nello spogliatoio femminile. Questo è un buon esempio del perché bisogna dire queste cose.
Parliamo di un maschio adulto, non di un ragazzo, è un uomo. Ebbene: cosa dobbiamo fare a questo proposito? I trans possono già gareggiare negli sport: Leah Thompson aveva già gareggiato prima, contro gli uomini, con risultati abbastanza mediocri; per me può continuare a gareggiare, ma nella categoria degli uomini.
E pensare a una terza categoria?
Giusto. Ne ho parlato in altri contesti, penso che, per esempio, ci dovrebbero essere sezioni carcerarie per i trans, perché è altrettanto difficile metterli nelle sezioni maschili, anche se il rischio non è lo stesso. Capisco che in molti contesti ci sia un reale bisogno di una terza opzione, perché non puoi mettere una donna trans operata in una prigione maschile, perché sono molto vulnerabili lì, per cui in quei casi ci dobbiamo pensare. Ma questo non vale per gli sport. Lì non c’è pericolo; al limite puoi rischiare che la tua identità non venga rispettata, ma io sono abbastanza all’antica da non interessarmi troppo del fatto che un’identità o l’altra non vengano rispettate in determinati contesti.
Aggiungo una considerazione. Tutto questo conferma quando alla gente interessi ben poco degli sport femminili, che sono infatti finanziati molto meno di quelli maschili. Una delle donne che ha vinto la Coppa del mondo di calcio femminile il giorno dopo è tornata al suo lavoro al bar. Le atlete viaggiano in classe economica, talvolta si devono pagare il viaggio, e ora arrivano pure delle persone nate maschi, casomai con una pregressa carriera sportiva mediocre, che cominciano a vincere premi. A loro viene riconosciuto un grande coraggio, medaglie... Io lo trovo molto irritante.
Se fossi una donna che ha passato vent’anni a svegliarsi alle cinque di mattina per fare allenamenti, sarei furiosa. Purtroppo in tanti hanno paura di esprimersi in proposito...
Perché poi verrai screditato su tutti gli altri argomenti di cui parlerai. Quello che trovo impressionante è che la vecchia generazione di atlete donne si stanno esponendo in nome delle più giovani che non possono rischiare di perdere contratti di sponsorizzazione o il posto di lavoro. Vorrei tanto che questa stessa cosa succedesse anche nell’accademia, o nel mondo della medicina o in altre aree in cui c’è invece molta codardia. Le atlete più anziane stanno combattendo davvero con coraggio e sono fonte di ispirazione in questo campo
(traduzione di Stefano Ignone. Intervista originale disponibile all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=grcKIUrEh0o)