Prima di entrare nell’esperienza di Arezzo, mi sembra necessario spiegare un po’ che cosa è la psicosintesi, in modo da poter capire poi meglio il tipo di lavoro che state facendo lì…
Il fondatore della psicosintesi è uno psichiatra fiorentino, Roberto Assagioli. Anche se in Italia ci sono 14 centri, la psicosintesi è molto più conosciuta e praticata all’estero, in almeno 40 paesi. Assagioli è stato uno dei pionieri della psicanalisi in Italia, il primo a tradurre Freud, con il quale ha avuto anche una corrispondenza. Ha conosciuto molto bene Jung quando era allievo di Freud e sono stati amici per gran parte della vita. Si è staccato però molto rapidamente dalla psicanalisi, già nel 1909-’10, perché, pur riconoscendo la validità della ricerca della psicanalisi, con la psicosintesi Assagioli voleva dare un ruolo anche a ciò che in genere viene trattato dalle religioni e dalle filosofie e cioè all’aspetto spirituale, di crescita, di piena realizzazione del potenziale umano, che include non solo l’uscita dalla malattia ma anche la realizzazione delle potenzialità. La psicosintesi ha quindi un’applicazione terapeutica ma anche un’applicazione formativa, autoformativa, e di conseguenza un ruolo nell’educazione e nel sociale.
I punti caratterizzanti sono l’evoluzione dell’individuo, vista anche come crescita spirituale, una spiritualità laica, l’utilizzo di una serie molto ampia di tecniche che vengono sia dalla tradizione occidentale che da quella orientale e un ruolo particolare nella riscoperta della volontà, in un senso non vittoriano, all’Alfieri per intenderci, ma una volontà che è proprio una qualità fondamentale dell’io.
Come è nato il lavoro nel carcere di Arezzo?
Dieci anni fa avevo fatto un corso di psicosintesi nel carcere di Lucca come volontario. L’esperienza mi era piaciuta e mi era sempre rimasta la voglia di rifarla. Un giorno ad Arezzo sono andato ad uno spettacolo teatrale fatto dai detenuti e tra gli attori ho riconosciuto un mio compagno del servizio militare ad Orvieto, nella compagnia atleti. Il nostro incontro risaliva a trent’anni fa. Questo uomo era un pugile con cui avevo fatto amicizia e, benché pesasse una trentina di chili in più, l’ho riconosciuto. Alla fine dello spettacolo l’ho avvicinato e ci siamo fatti una gran festa. Lui, sapendo che facevo lo psicologo, mi ha proposto di fare qualche attività in carcere. Ad Arezzo c’è una sezione detta trattamentale in cui una ventina di detenuti, tra cui il mio amico, sono sottoposti a un trattamento particolare, per esempio una cella singola, e partecipano a una serie di attività riabilitative. Ho fatto la proposta sia a questo gruppo di detenuti sia alla direzione del carcere. Entrambi l’hanno accettata con lo stesso spirito: vediamo un po’ cos’è.
Nella sezione trattamentale ci sono detenuti con pene minori o non importa la pena?
No, ci sono anche detenuti con grosse pene. La discriminante non è l’entità della pena, quanto piuttosto la valutazione che l’educatore e lo psicologo del carcere fanno di una possibilità di trarre giovamento da programmi di questo tipo. Sebbene si tratti di una casa circondariale, per cui in teoria non ci dovrebbero essere pene pesanti, in realtà c’è anche chi ha degli omicidi alle spalle, infatti anche nel gruppo qualcuno ha ancora 10-15 anni da scontare.
Quale è stato il primo impatto con questo gruppo?
Sono arrivato dentro il carcere con un atteggiamento abbastanza naïf, l’esperienza di dieci anni prima me la ricordavo anche poco. Volevo utilizzare la scrittura, perché è un modo molto profondo di lavorare su se stessi, ma anche la fantasia, la creatività e non solo l’autobiografia.
Invece mi sono trovato con un gruppo di semianalfabeti, come è abbastanza logico avvenga nel carcere, sia per bassa scolarità sia perché molti sono stranieri. Il primo gruppo era di 16-18 persone, 40 per cento stranieri, marocchini, albanesi, tunisini, slavi, un rumeno, molti tossicodipendenti, lo spaccato normale delle carceri insomma. C’era anche un analfabeta. Fare un corso di scrittura con un gruppo del genere, beh, la sfida era interessante.
Quali erano le motivazioni che portavano un analfabeta a fare un corso di scrittura?
E’ anche un intrattenimento, è qualche cosa che succede, che rompe ...[continua]
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