Un regime ancora stalinista
premio Langer
Una Città n° 299 / 2024 febbraio
Intervista a Olga Karatch
Realizzata da Barbara Bertoncin, Bettina Foa
UN REGIME ANCORA STALINISTA
Una dittatura feroce, di stampo stalinista, dove si incentivano le denunce finanche fra familiari, dove scompaiono gli oppositori e i prigionieri vengono torturati e i bambini militarizzati; un’associazione per assistere gli oppositori e gli obiettori; l’occupazione russa della Bielorussa avvenuta quattro giorni prima dell’invasione dell’Ucraina; l’importanza dell’adesione all’Unione europea di Ucraina e Moldavia e della vittoria ucraina. Intervista a Olga Karatch.
Olga Karatch, attivista bielorussa, ha fondato l’associazione Naš dom (La nostra casa), che tutela le vittime di violazione dei diritti umani e civili, con particolare attenzione per i bambini. Olga, più volte incarcerata, oggi vive in esilio a Vilnius, in Lituania. Le è stato insignito il Premio Alexander Langer 2023.
Puoi parlarci di te e della tua storia?
Sono nata a Vicebsk, in Bielorussia in una famiglia di operai, che non si interessava di politica in modo particolare. Personalmente ho cominciato a interessarmi della società civile e della situazione dei diritti a partire dal 1996, quasi trent’anni fa. Inizialmente ho preso parte a un gruppo studentesco, eravamo molto creativi, organizzavamo molte iniziative culturali; una delle battaglie era stata quella per avere degli spazi per i giovani, dove fosse possibile pensare e discutere. Erano gli anni in cui Lukashenko andava consolidando la sua dittatura erodendo alcune istituzioni come i tribunali, il parlamento…
C’è poi stato il caso di Viktar Hanchar, il presidente della commissione elettorale centrale, che tentò di organizzare elezioni alternative in protesta contro le riforme costituzionali di Lukashenko e che all’improvviso scomparve; fu probabilmente assassinato. Era il 1999. Noi partecipammo a quelle elezioni “alternative”, raccogliendo le firme per i candidati. È stato lì che ho compreso l’importanza dei diritti umani, in particolare delle persone escluse, discriminate.
Spesso la dittatura non comincia con azioni eclatanti, ma con provvedimenti secondari. In Bielorussia si cominciò attaccando la libertà di espressione dei media indipendenti. Uno di questi doveva uscire con un report sulla corruzione che riguardava l’ambiente di Lukashenko e lui ne proibì la pubblicazione. Il giorno dopo tutti i giornali uscirono con delle pagine bianche, per protestare contro la censura. Dopodiché però nessuno reagì veramente; ancora non si era capito cosa stesse succedendo. Un po’ quello che è accaduto con la pena di morte. Lukashenko ha già fucilato centinaia di persone. Quando cominciò con i capimafia, senza processi, in molti applaudirono, dicendo sì, sono persone cattive, ovvio che debbano essere uccisi. Poi però Lukashenko passò a uccidere i leader dell’opposizione, i giornalisti indipendenti, e ancora il popolo non reagiva, dicevano: “Sono cose politiche, è un gioco, qualcuno ucciderà sempre qualcun altro”. Nemmeno davanti a quella situazione ci fu una reazione. Questo per ribadire che le sue politiche sono cominciate promuovendo azioni che non coinvolgevano la popolazione in generale, bensì soggetti che casomai non sono molto popolari e poi da lì… Il tutto comunque è avvenuto molto lentamente, non è accaduto in un giorno.
Per quanto riguarda la mia attività. Credo che in fondo il mio impegno sia nato soprattutto nell’ambito dalla società. Intorno a me vedevo molte ingiustizie, soprattutto discriminazioni legate al genere. Ho iniziato a chiedermi: perché succede tutto questo, perché ci sono ruoli diversi per donne e uomini? In Bielorussia c’è una lista di almeno 186 lavori che sono proibiti alle donne, che quindi non li possono esercitare legalmente. Come per esempio autista di autobus o di camion e molte altre professioni… Prima i lavori proibiti erano 252, ma il governo ha ridotto la lista anche grazie a una nostra campagna intitolata appunto “252 + 1”.
Capirete che questa limitazione è qualcosa che noi non possiamo accettare. La questione non è se io voglio fare l’autista di autobus, ma perché Lukashenko dovrebbe decidere per me!
Prima di impegnarmi a tempo pieno in queste battaglie, per quattro anni sono stata insegnante di lingua russa e bielorussa. Ovviamente è stato un dispiacere lasciare quel lavoro, ma parliamo del 2004, vent’anni fa. È stata però una mia scelta: se volevo continuare a impegnarmi nell’attivismo dovevo lasciare la scuola.
Sei stata anche arrestata...
Sì, diverse volte, anche con l’accusa di terrorismo, imputazione per la quale è prevista la pena di morte. Mi hanno imprigionato e torturato, ho subito molestie; il poliziotto mentre mi picchiava mi minacciava dicendomi in che modo avrebbe voluto stuprarmi. Insomma, ho avuto questo tipo di esperienze. Quando sono uscita, abbiamo dato vita a una campagna per far cessare le molestie sessuali dei poliziotti contro le donne; sono felice che il numero di casi si sia almeno ridotto; parlo di un fenomeno, quello delle violenze sessuali in carcere, che riguarda anche i detenuti maschi. Nel marzo 2020 ho dovuto lasciare il mio paese per via del Covid. Purtroppo sono affetta da una malattia autoimmune piuttosto seria e ho bisogno di una terapia che in Bielorussia non si fa. Non ho avuto scelta, sono partita con l’ultimo treno, poco prima che chiudessero i confini. Ora vivo in Lituania dove ci sono anche mio marito e i miei figli.
Qual è oggi la situazione dell’opposizione in Bielorussia?
Le persone sono molto deluse e frustrate per tutto ciò che è successo. Nel 2020 c’era la speranza di vincere le elezioni e di cambiare le cose, sognavamo una nuova Bielorussia democratica. Purtroppo le cose sono andate esattamente all’opposto. Vige ancora un regime di terrore e l’attacco all’opposizione continua. Ogni giorno si sente parlare di nuovi arresti, di nuove detenzioni, di prigionieri politici che vengono uccisi, di altri prigionieri politici con gravi problemi di salute… La situazione è davvero scoraggiante. L’opposizione purtroppo è divisa, ma proviamo a fare ciò che possiamo. Le persone, come dicevo, sono molto depresse, hanno perso ogni fiducia. Provano a condurre una vita semplice, ma è impossibile, perché ogni giorno si sente parlare di nuovi arresti. Ora i bielorussi che vivono fuori dal paese sono un milione e anche per loro la situazione è brutta perché sono preoccupati per quello che succede in Bielorussia. Il paese è lacerato anche a causa del problema delle delazioni. Succede che un tuo stesso parente o amico mandi lettere di denuncia al Kgb per rendere note le tue attività di oppositore o dissidente. Penso sia una delle cose peggiori che possano accadere. Per non poche persone queste dinamiche sono all’origine di problemi di salute mentale.
Parlaci della tua associazione, “Our house”, “La nostra casa”...
L’organizzazione è nata a dicembre 2005; fin dall’inizio abbiamo cercato di costituire reti decentralizzate e di lavorare attraverso campagne locali. Le persone infatti hanno problemi a livello locale, magari necessitano di una clinica o di politiche abitative; noi cerchiamo di aiutare le reti locali a organizzare le loro battaglie, a collaborare tra loro. Abbiamo diverse campagne di advocacy su vari temi.
Attualmente per gli attivisti di Our House rimasti nel paese la situazione è critica: per il solo fatto di far parte della nostra organizzazione rischiano fino a sette anni di prigione, per cui ci tuteliamo con comunicazioni protette, soprattutto quando abbiamo conversazioni che coinvolgono più di due persone; usiamo chat vocali e strumenti che permettono di modificare la voce per rendersi anonimi, in modo che sia molto difficile identificare chi ha detto cosa. Noi sappiamo sempre chi dice cosa, ma per un esterno è molto difficile riconoscere le voci. Con le persone con cui c’è un rapporto di fiducia facciamo anche videochiamate zoom, conversiamo e discutiamo su come portare avanti il nostro lavoro. Certo lavorare dall’esilio è più difficile, ma abbiamo ancora attivisti in Bielorussia.
Dicevi che esiste un network di organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani.
Sfortunatamente in Bielorussia non ci sono molte organizzazioni di peace building. Da circa un anno e mezzo cerchiamo di aiutare i profughi bielorussi, dopo aver aiutato i profughi ucraini. In questo momento ci stiamo interrogando su come cambiare il nostro approccio per produrre un impatto sulla situazione, in particolare per aiutare le persone a sfuggire all’arruolamento e alla partecipazione alla guerra. Ecco, in questo quadro abbiamo un network con diverse altre organizzazioni, una coalizione chiamata “Object war campaign”, una campagna contro la militarizzazione e a sostegno degli obiettori di coscienza, non solo in Bielorussia ma in diversi paesi, incluse Ucraina e Russia. Questo rende la coalizione abbastanza unica nel suo genere, perché ucraini, russi e bielorussi si trovano a sedersi allo stesso tavolo. Certo, fino a che agli obiettori di coscienza bielorussi non viene riconosciuto uno status, se non hanno visti comunitari né alcuna protezione, è molto difficile. Noi vogliamo aiutare gli uomini che non vogliono fare la guerra. Finora abbiamo raccolto 50.000 firme di cittadini europei e le abbiamo presentate al governo tedesco e alla Commissione europea affinché venga riconosciuto uno status legale agli obiettori. Svolgiamo diverse attività e azioni pubbliche in vari paesi, a sostegno degli obiettori, incluse l’Italia, la Germania, la Finlandia, l’Olanda.
Puoi parlarci della campagna “No means No”?
Dai primi di marzo 2022 è iniziata questa campagna in qualche modo originale perché, dopo esserci occupati di donne, bambini, per la prima volta in vita mia mi trovo a battermi in difesa dei diritti degli uomini. Quando è cominciata la guerra in Ucraina, ci siamo dati questo impegno molto ambizioso di impedire all’esercito bielorusso di partecipare alla guerra in Ucraina e quindi di aiutare Putin. L’ambizione, dicevamo provocatoriamente, era sfilare l’esercito dalle mani di Lukashenko. Così è nata la campagna. Il regime di Lukashenko ha subito reagito, io sono stata dichiarata “terrorista”, estremista. In realtà noi siamo pacifisti, ma a lui non importa, evidentemente ci teme. La campagna è intitolata “No significa no” (No means No) perché crediamo che anche gli uomini, come le donne, abbiamo il diritto di dire no. L’avvocato che avevamo ingaggiato, qualche mese dopo è stato arrestato con l’accusa di spionaggio. Il Kgb lo aveva assoldato perché ci seguisse e ci boicottasse. Questo comunque ci ha fatto capire quanto sul serio ci prendesse Lukashenko. La nostra idea per la campagna era molto semplice: che se ne fa Lukashenko di un esercito senza soldati? Abbiamo dunque cercato di aiutare gli obiettori di coscienza e i disertori. Nel 2022, circa quattrocento uomini bielorussi sono stati condannati per essersi rifiutati di arruolarsi. Ora la polizia bielorussa parla di cinquemila ricercati per il fatto di essersi sottrarsi all’arruolamento. Quest’anno la situazione è di nuovo pessima, se un soldato è stato in precedenza sotto le armi e ora si rifiuta di tornare a servire l’esercito, se si rifugia in Lituania questa lo rimanda indietro in quanto potenziale minaccia alla sicurezza nazionale. È una situazione molto seria, al momento ci sono circa 1.700 casi simili e ci stiamo dando da fare per aiutare queste persone a non essere estradate in Bielorussia.
Una delle vostre aree di intervento è quella dell’infanzia.
Stiamo lavorando su vari temi e effettivamente quello dei diritti dell’infanzia è per noi molto importante. Abbiamo una campagna chiamata “Children 2028” . In Bielorussia i bambini dai 14 anni possono finire in prigione anche per dieci anni o più, magari per il possesso di una modica quantità di marijuana. Potete immaginarvelo, un ragazzino che entra in prigione a 14 anni e poi resta per dieci anni in un ambiente segnato da violenza, molestie, senza occasioni di socializzazione, senza rapporti con la famiglia (la madre lo può andare a trovare solo una volta ogni sei mesi).
Non solo, Lukashenko usa i ragazzini detenuti come schiavi; all’interno delle prigioni sono state collocate fabbriche dove questi minori lavorano e producono di tutto…Al momento, tra bambini e ragazzi si stima ce ne siano circa 20.000 in prigione, un numero enorme.
Nel nostro lavoro con i minori, proviamo ad aiutare le famiglie, paghiamo gli avvocati, cerchiamo di far arrivare generi alimentari in prigione. Questa è una delle nostre campagne dedicate ai più piccoli, ma non è l’unica. Dovete sapere che in Bielorussia i minori possono facilmente essere sottratti alle proprie famiglie. Per esempio, se sei un attivista dei diritti umani o un giornalista, o anche solo se sei moroso nel pagamento del riscaldamento, dell’elettricità, ti possono togliere i figli e inserirli in istituti statali anche per periodi lunghi. Noi ci impegniamo a far sì che questi bambini possano rientrare presso le loro famiglie.
C’è anche il problema, gravissimo, della militarizzazione dei bambini. Voi siete molto impegnati su questo fronte.
Lukashenko ambisce ad avere dei veri e propri bambini-soldato. Non parlo di cose tipo “gioventù patriottica” o organizzazioni giovanili: si tratta della militarizzazione dei più piccoli fin dalle scuole. Oggigiorno in Bielorussia ci sono circa duemila bambini che sono soldati professionisti.
Questo accadeva già prima della guerra; Lukashenko organizzava dei campi estivi per bambini a partire dai sei anni; si stima vi abbiano partecipato circa 18.000 ragazzini che poi sono stati inseriti in scuole militari collocate presso le unità militari. Viene loro insegnato a sparare, a usare l’equipaggiamento militare… Tra questi 18.000 ne hanno individuati duemila, presi soprattutto da contesti disagiati, bambini che non hanno familiari vicini e che magari soffrono di problemi di socializzazione. Lukashenko sta formando una squadra di fanatici, persone il cui unico pensiero è obbedire e proteggerlo. È davvero orribile. Per noi che lottiamo per i diritti umani tutto questo è terribile. Ci sono lezioni patriottiche o militari in ogni scuola. Lukashenko ha pure coinvolto la Wagner nella preparazione di questi bambini, per addestrarli a diventare soldati professionisti.
Le famiglie non reagiscono al fatto che gli si portino via i bambini?
Purtroppo il regime sceglie con attenzione le famiglie di provenienza dei bambini. Come dicevo prima, si tratta di nuclei per vari motivi emarginati, famiglie con problemi socio-economici, genitori alcolizzati, o ancora famiglie di militari. Insomma, sanno come agire. Naturalmente la tipica famiglia bielorussa non accetterebbe mai che i propri figli piccoli venissero coinvolti in questi processi di militarizzazione.
Ci occupiamo anche dei diritti delle donne. Durante le manifestazioni del 2022, avevamo una linea telefonica gestita da donne attiviste dei diritti umani. Infine assistiamo i detenuti, li aiutiamo per le spese legali…
I rapporti tra Russia e Bielorussia?
È una storia lunga e tuttora ci sono molti rapporti tra Russia e Belorussia. Qui si parlano entrambe le lingue. Il problema è che sfortunatamente la Russia è ormai ovunque e Lukashenko non è più indipendente, specialmente dopo le proteste del 2020. Per questo è importante mobilitarci, fare qualcosa, altrimenti rischiamo di diventare parte della federazione russa.
L’occupazione della Bielorussia è iniziata tra il 20 e il 22 febbraio 2022, cioè quattro giorni prima della guerra in Ucraina, perché le truppe russe, arrivate a gennaio 2022, non se ne sono mai andate e il tutto senza addurre spiegazioni né ragioni. Semplicemente sono arrivati e sono rimasti. Quindi anche noi abbiamo i militari russi all’interno del nostro paese. Magari non è come in Ucraina, non è una guerra, ma certo non è nemmeno pace.
Parli della necessità di un processo di de-sovietizzazione. Puoi spiegare?
Credo sia più esatto parlare di de-stalinizzazione. Purtroppo infatti continuano a essere in vigore pratiche e dinamiche che risalgono all’epoca staliniana, mi riferisco in particolare all’operato del Kgb o, per esempio, alle lettere di denuncia di cui parlavo prima. Noi vogliamo la pace. Ma come facciamo a trovare questa pace, fino a che una madre ritiene giusto mandare una lettera per denunciare la propria figlia? Come faranno, in futuro, a parlarsi quella madre e quella figlia? Questa è proprio una piaga nella nostra società. E purtroppo non parlo dell’epoca di Stalin, parlo di oggi, succede ora. Per esempio, una mia collega ha dovuto lasciare la Bielorussia illegalmente, lei che è madre di due figli, perché sua madre l’ha denunciata al Kgb e ora rischia di perdere la tutela dei figli. Un’altra collega è finita in carcere e lì ha potuto leggere la scheda riguardante le indagini sul suo conto, scoprendo che a tradirla erano stati il fratello e suo padre. Potete immaginare…
Ti aspettavi l’invasione russa del febbraio 2022?
No, non me l’aspettavo. Sono rimasta scioccata. Tutti qui lo erano. Come dicevo, avevamo rapporti molto particolari tra Russia, Bielorussia e Ucraina, eravamo come una famiglia, lo stesso gruppo, e infatti le popolazioni, per certi versi, vivono questo conflitto come una disputa familiare. Per noi rimane quasi impensabile che i russi possano uccidere gli ucraini, o gli ucraini i russi, e che i bielorussi prendano parte alla guerra, circostanza purtroppo non così improbabile.
Sostieni che sia impossibile la vittoria dell’Ucraina senza che avvenga anche in Bielorussia...
Mi interrogo molto su cosa possa significare la parola vittoria, per noi. All’inizio del conflitto tutti erano presi dal fervore militaristico. Ora sono passati due anni di guerra, ci sono stati molti morti… Comunque, se parliamo di un approccio diplomatico per la risoluzione del conflitto, credo che sia necessario includere anche la Bielorussia nell’agenda politica. Se non risolviamo i problemi con Lukashenko, i prigionieri politici, ecc., questo rimarrà un conflitto congelato, che potrà in ogni momento riprendere vigore.
Un’adesione di Ucraina e Moldavia all’Unione europea come la vedi?
Da un lato sono molto felice che Ucraina e Moldavia abbiano preso questa decisione di entrare nell’Ue. Sfortunatamente, assieme ad altre associazioni di peace builders, sin dal principio del conflitto, abbiamo parlato dei rischi di quella che non è destinata a essere una guerra lampo. Sapevamo che non si sarebbe conclusa entro l’anno e oggi non sono molto ottimista. Temo che la guerra non si concluderà nel 2024 e questo rappresenta una minaccia per l’intera regione, perché siamo in uno stato di continua militarizzazione che ovviamente ha un impatto negativo sul rispetto dei diritti umani.
Per quanto riguarda la Bielorussia sarà interessante osservare cosa succederà nel prossimo futuro, ora che Lukashenko è molto malato. La propaganda locale cerca di mostrarlo ancora come un leader, un macho, un uomo molto forte, ma si sa che è piuttosto malmesso. Anche la squadra che si muove dietro di lui è preoccupata del futuro. Il prossimo febbraio avremo le elezioni parlamentari. Naturalmente non sono vere e libere elezioni, sono più che altro simboliche. In Russia ci saranno le elezioni a marzo... Insomma, ci sono seri rischi di una potenziale mobilitazione militare della Bielorussia e di una discesa in campo in Ucraina del nostro esercito. È una minaccia concreta. E poi ci sono le presidenziali negli Stati Uniti, il cui risultato influenzerà ciò che accadrà, se a vincere sarà Trump o qualcun altro... Insomma il 2024 sarà un anno cruciale e produrrà molti effetti per gli anni a venire.
Se l’Ucraina riuscirà a difendersi, a respingere gli aggressori, questo potrebbe produrre un cambiamento anche per la Bielorussia...
Sì, certamente: se l’Ucraina vince e la Russia lascia i territori ucraini, la Crimea, si aprirà una finestra di opportunità anche per la Bielorussia, perché a quel punto la Russia sarà molto debole. Lo speriamo anche se per ora sembra che la guerra proseguirà. Non resta che sperare che l’Ucraina vinca e che possa riprendere un processo di peacebuilding nella nostra regione. Certo parliamo di un processo che non sarà né rapido né semplice...
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)
Puoi parlarci di te e della tua storia?
Sono nata a Vicebsk, in Bielorussia in una famiglia di operai, che non si interessava di politica in modo particolare. Personalmente ho cominciato a interessarmi della società civile e della situazione dei diritti a partire dal 1996, quasi trent’anni fa. Inizialmente ho preso parte a un gruppo studentesco, eravamo molto creativi, organizzavamo molte iniziative culturali; una delle battaglie era stata quella per avere degli spazi per i giovani, dove fosse possibile pensare e discutere. Erano gli anni in cui Lukashenko andava consolidando la sua dittatura erodendo alcune istituzioni come i tribunali, il parlamento…
C’è poi stato il caso di Viktar Hanchar, il presidente della commissione elettorale centrale, che tentò di organizzare elezioni alternative in protesta contro le riforme costituzionali di Lukashenko e che all’improvviso scomparve; fu probabilmente assassinato. Era il 1999. Noi partecipammo a quelle elezioni “alternative”, raccogliendo le firme per i candidati. È stato lì che ho compreso l’importanza dei diritti umani, in particolare delle persone escluse, discriminate.
Spesso la dittatura non comincia con azioni eclatanti, ma con provvedimenti secondari. In Bielorussia si cominciò attaccando la libertà di espressione dei media indipendenti. Uno di questi doveva uscire con un report sulla corruzione che riguardava l’ambiente di Lukashenko e lui ne proibì la pubblicazione. Il giorno dopo tutti i giornali uscirono con delle pagine bianche, per protestare contro la censura. Dopodiché però nessuno reagì veramente; ancora non si era capito cosa stesse succedendo. Un po’ quello che è accaduto con la pena di morte. Lukashenko ha già fucilato centinaia di persone. Quando cominciò con i capimafia, senza processi, in molti applaudirono, dicendo sì, sono persone cattive, ovvio che debbano essere uccisi. Poi però Lukashenko passò a uccidere i leader dell’opposizione, i giornalisti indipendenti, e ancora il popolo non reagiva, dicevano: “Sono cose politiche, è un gioco, qualcuno ucciderà sempre qualcun altro”. Nemmeno davanti a quella situazione ci fu una reazione. Questo per ribadire che le sue politiche sono cominciate promuovendo azioni che non coinvolgevano la popolazione in generale, bensì soggetti che casomai non sono molto popolari e poi da lì… Il tutto comunque è avvenuto molto lentamente, non è accaduto in un giorno.
Per quanto riguarda la mia attività. Credo che in fondo il mio impegno sia nato soprattutto nell’ambito dalla società. Intorno a me vedevo molte ingiustizie, soprattutto discriminazioni legate al genere. Ho iniziato a chiedermi: perché succede tutto questo, perché ci sono ruoli diversi per donne e uomini? In Bielorussia c’è una lista di almeno 186 lavori che sono proibiti alle donne, che quindi non li possono esercitare legalmente. Come per esempio autista di autobus o di camion e molte altre professioni… Prima i lavori proibiti erano 252, ma il governo ha ridotto la lista anche grazie a una nostra campagna intitolata appunto “252 + 1”.
Capirete che questa limitazione è qualcosa che noi non possiamo accettare. La questione non è se io voglio fare l’autista di autobus, ma perché Lukashenko dovrebbe decidere per me!
Prima di impegnarmi a tempo pieno in queste battaglie, per quattro anni sono stata insegnante di lingua russa e bielorussa. Ovviamente è stato un dispiacere lasciare quel lavoro, ma parliamo del 2004, vent’anni fa. È stata però una mia scelta: se volevo continuare a impegnarmi nell’attivismo dovevo lasciare la scuola.
Sei stata anche arrestata...
Sì, diverse volte, anche con l’accusa di terrorismo, imputazione per la quale è prevista la pena di morte. Mi hanno imprigionato e torturato, ho subito molestie; il poliziotto mentre mi picchiava mi minacciava dicendomi in che modo avrebbe voluto stuprarmi. Insomma, ho avuto questo tipo di esperienze. Quando sono uscita, abbiamo dato vita a una campagna per far cessare le molestie sessuali dei poliziotti contro le donne; sono felice che il numero di casi si sia almeno ridotto; parlo di un fenomeno, quello delle violenze sessuali in carcere, che riguarda anche i detenuti maschi. Nel marzo 2020 ho dovuto lasciare il mio paese per via del Covid. Purtroppo sono affetta da una malattia autoimmune piuttosto seria e ho bisogno di una terapia che in Bielorussia non si fa. Non ho avuto scelta, sono partita con l’ultimo treno, poco prima che chiudessero i confini. Ora vivo in Lituania dove ci sono anche mio marito e i miei figli.
Qual è oggi la situazione dell’opposizione in Bielorussia?
Le persone sono molto deluse e frustrate per tutto ciò che è successo. Nel 2020 c’era la speranza di vincere le elezioni e di cambiare le cose, sognavamo una nuova Bielorussia democratica. Purtroppo le cose sono andate esattamente all’opposto. Vige ancora un regime di terrore e l’attacco all’opposizione continua. Ogni giorno si sente parlare di nuovi arresti, di nuove detenzioni, di prigionieri politici che vengono uccisi, di altri prigionieri politici con gravi problemi di salute… La situazione è davvero scoraggiante. L’opposizione purtroppo è divisa, ma proviamo a fare ciò che possiamo. Le persone, come dicevo, sono molto depresse, hanno perso ogni fiducia. Provano a condurre una vita semplice, ma è impossibile, perché ogni giorno si sente parlare di nuovi arresti. Ora i bielorussi che vivono fuori dal paese sono un milione e anche per loro la situazione è brutta perché sono preoccupati per quello che succede in Bielorussia. Il paese è lacerato anche a causa del problema delle delazioni. Succede che un tuo stesso parente o amico mandi lettere di denuncia al Kgb per rendere note le tue attività di oppositore o dissidente. Penso sia una delle cose peggiori che possano accadere. Per non poche persone queste dinamiche sono all’origine di problemi di salute mentale.
Parlaci della tua associazione, “Our house”, “La nostra casa”...
L’organizzazione è nata a dicembre 2005; fin dall’inizio abbiamo cercato di costituire reti decentralizzate e di lavorare attraverso campagne locali. Le persone infatti hanno problemi a livello locale, magari necessitano di una clinica o di politiche abitative; noi cerchiamo di aiutare le reti locali a organizzare le loro battaglie, a collaborare tra loro. Abbiamo diverse campagne di advocacy su vari temi.
Attualmente per gli attivisti di Our House rimasti nel paese la situazione è critica: per il solo fatto di far parte della nostra organizzazione rischiano fino a sette anni di prigione, per cui ci tuteliamo con comunicazioni protette, soprattutto quando abbiamo conversazioni che coinvolgono più di due persone; usiamo chat vocali e strumenti che permettono di modificare la voce per rendersi anonimi, in modo che sia molto difficile identificare chi ha detto cosa. Noi sappiamo sempre chi dice cosa, ma per un esterno è molto difficile riconoscere le voci. Con le persone con cui c’è un rapporto di fiducia facciamo anche videochiamate zoom, conversiamo e discutiamo su come portare avanti il nostro lavoro. Certo lavorare dall’esilio è più difficile, ma abbiamo ancora attivisti in Bielorussia.
Dicevi che esiste un network di organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani.
Sfortunatamente in Bielorussia non ci sono molte organizzazioni di peace building. Da circa un anno e mezzo cerchiamo di aiutare i profughi bielorussi, dopo aver aiutato i profughi ucraini. In questo momento ci stiamo interrogando su come cambiare il nostro approccio per produrre un impatto sulla situazione, in particolare per aiutare le persone a sfuggire all’arruolamento e alla partecipazione alla guerra. Ecco, in questo quadro abbiamo un network con diverse altre organizzazioni, una coalizione chiamata “Object war campaign”, una campagna contro la militarizzazione e a sostegno degli obiettori di coscienza, non solo in Bielorussia ma in diversi paesi, incluse Ucraina e Russia. Questo rende la coalizione abbastanza unica nel suo genere, perché ucraini, russi e bielorussi si trovano a sedersi allo stesso tavolo. Certo, fino a che agli obiettori di coscienza bielorussi non viene riconosciuto uno status, se non hanno visti comunitari né alcuna protezione, è molto difficile. Noi vogliamo aiutare gli uomini che non vogliono fare la guerra. Finora abbiamo raccolto 50.000 firme di cittadini europei e le abbiamo presentate al governo tedesco e alla Commissione europea affinché venga riconosciuto uno status legale agli obiettori. Svolgiamo diverse attività e azioni pubbliche in vari paesi, a sostegno degli obiettori, incluse l’Italia, la Germania, la Finlandia, l’Olanda.
Puoi parlarci della campagna “No means No”?
Dai primi di marzo 2022 è iniziata questa campagna in qualche modo originale perché, dopo esserci occupati di donne, bambini, per la prima volta in vita mia mi trovo a battermi in difesa dei diritti degli uomini. Quando è cominciata la guerra in Ucraina, ci siamo dati questo impegno molto ambizioso di impedire all’esercito bielorusso di partecipare alla guerra in Ucraina e quindi di aiutare Putin. L’ambizione, dicevamo provocatoriamente, era sfilare l’esercito dalle mani di Lukashenko. Così è nata la campagna. Il regime di Lukashenko ha subito reagito, io sono stata dichiarata “terrorista”, estremista. In realtà noi siamo pacifisti, ma a lui non importa, evidentemente ci teme. La campagna è intitolata “No significa no” (No means No) perché crediamo che anche gli uomini, come le donne, abbiamo il diritto di dire no. L’avvocato che avevamo ingaggiato, qualche mese dopo è stato arrestato con l’accusa di spionaggio. Il Kgb lo aveva assoldato perché ci seguisse e ci boicottasse. Questo comunque ci ha fatto capire quanto sul serio ci prendesse Lukashenko. La nostra idea per la campagna era molto semplice: che se ne fa Lukashenko di un esercito senza soldati? Abbiamo dunque cercato di aiutare gli obiettori di coscienza e i disertori. Nel 2022, circa quattrocento uomini bielorussi sono stati condannati per essersi rifiutati di arruolarsi. Ora la polizia bielorussa parla di cinquemila ricercati per il fatto di essersi sottrarsi all’arruolamento. Quest’anno la situazione è di nuovo pessima, se un soldato è stato in precedenza sotto le armi e ora si rifiuta di tornare a servire l’esercito, se si rifugia in Lituania questa lo rimanda indietro in quanto potenziale minaccia alla sicurezza nazionale. È una situazione molto seria, al momento ci sono circa 1.700 casi simili e ci stiamo dando da fare per aiutare queste persone a non essere estradate in Bielorussia.
Una delle vostre aree di intervento è quella dell’infanzia.
Stiamo lavorando su vari temi e effettivamente quello dei diritti dell’infanzia è per noi molto importante. Abbiamo una campagna chiamata “Children 2028” . In Bielorussia i bambini dai 14 anni possono finire in prigione anche per dieci anni o più, magari per il possesso di una modica quantità di marijuana. Potete immaginarvelo, un ragazzino che entra in prigione a 14 anni e poi resta per dieci anni in un ambiente segnato da violenza, molestie, senza occasioni di socializzazione, senza rapporti con la famiglia (la madre lo può andare a trovare solo una volta ogni sei mesi).
Non solo, Lukashenko usa i ragazzini detenuti come schiavi; all’interno delle prigioni sono state collocate fabbriche dove questi minori lavorano e producono di tutto…Al momento, tra bambini e ragazzi si stima ce ne siano circa 20.000 in prigione, un numero enorme.
Nel nostro lavoro con i minori, proviamo ad aiutare le famiglie, paghiamo gli avvocati, cerchiamo di far arrivare generi alimentari in prigione. Questa è una delle nostre campagne dedicate ai più piccoli, ma non è l’unica. Dovete sapere che in Bielorussia i minori possono facilmente essere sottratti alle proprie famiglie. Per esempio, se sei un attivista dei diritti umani o un giornalista, o anche solo se sei moroso nel pagamento del riscaldamento, dell’elettricità, ti possono togliere i figli e inserirli in istituti statali anche per periodi lunghi. Noi ci impegniamo a far sì che questi bambini possano rientrare presso le loro famiglie.
C’è anche il problema, gravissimo, della militarizzazione dei bambini. Voi siete molto impegnati su questo fronte.
Lukashenko ambisce ad avere dei veri e propri bambini-soldato. Non parlo di cose tipo “gioventù patriottica” o organizzazioni giovanili: si tratta della militarizzazione dei più piccoli fin dalle scuole. Oggigiorno in Bielorussia ci sono circa duemila bambini che sono soldati professionisti.
Questo accadeva già prima della guerra; Lukashenko organizzava dei campi estivi per bambini a partire dai sei anni; si stima vi abbiano partecipato circa 18.000 ragazzini che poi sono stati inseriti in scuole militari collocate presso le unità militari. Viene loro insegnato a sparare, a usare l’equipaggiamento militare… Tra questi 18.000 ne hanno individuati duemila, presi soprattutto da contesti disagiati, bambini che non hanno familiari vicini e che magari soffrono di problemi di socializzazione. Lukashenko sta formando una squadra di fanatici, persone il cui unico pensiero è obbedire e proteggerlo. È davvero orribile. Per noi che lottiamo per i diritti umani tutto questo è terribile. Ci sono lezioni patriottiche o militari in ogni scuola. Lukashenko ha pure coinvolto la Wagner nella preparazione di questi bambini, per addestrarli a diventare soldati professionisti.
Le famiglie non reagiscono al fatto che gli si portino via i bambini?
Purtroppo il regime sceglie con attenzione le famiglie di provenienza dei bambini. Come dicevo prima, si tratta di nuclei per vari motivi emarginati, famiglie con problemi socio-economici, genitori alcolizzati, o ancora famiglie di militari. Insomma, sanno come agire. Naturalmente la tipica famiglia bielorussa non accetterebbe mai che i propri figli piccoli venissero coinvolti in questi processi di militarizzazione.
Ci occupiamo anche dei diritti delle donne. Durante le manifestazioni del 2022, avevamo una linea telefonica gestita da donne attiviste dei diritti umani. Infine assistiamo i detenuti, li aiutiamo per le spese legali…
I rapporti tra Russia e Bielorussia?
È una storia lunga e tuttora ci sono molti rapporti tra Russia e Belorussia. Qui si parlano entrambe le lingue. Il problema è che sfortunatamente la Russia è ormai ovunque e Lukashenko non è più indipendente, specialmente dopo le proteste del 2020. Per questo è importante mobilitarci, fare qualcosa, altrimenti rischiamo di diventare parte della federazione russa.
L’occupazione della Bielorussia è iniziata tra il 20 e il 22 febbraio 2022, cioè quattro giorni prima della guerra in Ucraina, perché le truppe russe, arrivate a gennaio 2022, non se ne sono mai andate e il tutto senza addurre spiegazioni né ragioni. Semplicemente sono arrivati e sono rimasti. Quindi anche noi abbiamo i militari russi all’interno del nostro paese. Magari non è come in Ucraina, non è una guerra, ma certo non è nemmeno pace.
Parli della necessità di un processo di de-sovietizzazione. Puoi spiegare?
Credo sia più esatto parlare di de-stalinizzazione. Purtroppo infatti continuano a essere in vigore pratiche e dinamiche che risalgono all’epoca staliniana, mi riferisco in particolare all’operato del Kgb o, per esempio, alle lettere di denuncia di cui parlavo prima. Noi vogliamo la pace. Ma come facciamo a trovare questa pace, fino a che una madre ritiene giusto mandare una lettera per denunciare la propria figlia? Come faranno, in futuro, a parlarsi quella madre e quella figlia? Questa è proprio una piaga nella nostra società. E purtroppo non parlo dell’epoca di Stalin, parlo di oggi, succede ora. Per esempio, una mia collega ha dovuto lasciare la Bielorussia illegalmente, lei che è madre di due figli, perché sua madre l’ha denunciata al Kgb e ora rischia di perdere la tutela dei figli. Un’altra collega è finita in carcere e lì ha potuto leggere la scheda riguardante le indagini sul suo conto, scoprendo che a tradirla erano stati il fratello e suo padre. Potete immaginare…
Ti aspettavi l’invasione russa del febbraio 2022?
No, non me l’aspettavo. Sono rimasta scioccata. Tutti qui lo erano. Come dicevo, avevamo rapporti molto particolari tra Russia, Bielorussia e Ucraina, eravamo come una famiglia, lo stesso gruppo, e infatti le popolazioni, per certi versi, vivono questo conflitto come una disputa familiare. Per noi rimane quasi impensabile che i russi possano uccidere gli ucraini, o gli ucraini i russi, e che i bielorussi prendano parte alla guerra, circostanza purtroppo non così improbabile.
Sostieni che sia impossibile la vittoria dell’Ucraina senza che avvenga anche in Bielorussia...
Mi interrogo molto su cosa possa significare la parola vittoria, per noi. All’inizio del conflitto tutti erano presi dal fervore militaristico. Ora sono passati due anni di guerra, ci sono stati molti morti… Comunque, se parliamo di un approccio diplomatico per la risoluzione del conflitto, credo che sia necessario includere anche la Bielorussia nell’agenda politica. Se non risolviamo i problemi con Lukashenko, i prigionieri politici, ecc., questo rimarrà un conflitto congelato, che potrà in ogni momento riprendere vigore.
Un’adesione di Ucraina e Moldavia all’Unione europea come la vedi?
Da un lato sono molto felice che Ucraina e Moldavia abbiano preso questa decisione di entrare nell’Ue. Sfortunatamente, assieme ad altre associazioni di peace builders, sin dal principio del conflitto, abbiamo parlato dei rischi di quella che non è destinata a essere una guerra lampo. Sapevamo che non si sarebbe conclusa entro l’anno e oggi non sono molto ottimista. Temo che la guerra non si concluderà nel 2024 e questo rappresenta una minaccia per l’intera regione, perché siamo in uno stato di continua militarizzazione che ovviamente ha un impatto negativo sul rispetto dei diritti umani.
Per quanto riguarda la Bielorussia sarà interessante osservare cosa succederà nel prossimo futuro, ora che Lukashenko è molto malato. La propaganda locale cerca di mostrarlo ancora come un leader, un macho, un uomo molto forte, ma si sa che è piuttosto malmesso. Anche la squadra che si muove dietro di lui è preoccupata del futuro. Il prossimo febbraio avremo le elezioni parlamentari. Naturalmente non sono vere e libere elezioni, sono più che altro simboliche. In Russia ci saranno le elezioni a marzo... Insomma, ci sono seri rischi di una potenziale mobilitazione militare della Bielorussia e di una discesa in campo in Ucraina del nostro esercito. È una minaccia concreta. E poi ci sono le presidenziali negli Stati Uniti, il cui risultato influenzerà ciò che accadrà, se a vincere sarà Trump o qualcun altro... Insomma il 2024 sarà un anno cruciale e produrrà molti effetti per gli anni a venire.
Se l’Ucraina riuscirà a difendersi, a respingere gli aggressori, questo potrebbe produrre un cambiamento anche per la Bielorussia...
Sì, certamente: se l’Ucraina vince e la Russia lascia i territori ucraini, la Crimea, si aprirà una finestra di opportunità anche per la Bielorussia, perché a quel punto la Russia sarà molto debole. Lo speriamo anche se per ora sembra che la guerra proseguirà. Non resta che sperare che l’Ucraina vinca e che possa riprendere un processo di peacebuilding nella nostra regione. Certo parliamo di un processo che non sarà né rapido né semplice...
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)
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