Yigal Bronner è professore presso il Dipartimento di Studi Asiatici dell’Università Ebraica di Gerusalemme. Insegna e scrive di poesia sanscrita, teoria poetica e storia intellettuale dell’Asia meridionale. Da oltre vent’anni è impegnato accanto ai palestinesi nella lotta contro l’occupazione israeliana e per la pace.

Puoi raccontarci la tua storia, e anche come è nata la tua volontà di impegnarti al fianco dei palestinesi? Tu lavori in particolare in Cisgiordania…
Comincerei con il dire che ho avuto l’infanzia tipica dell’ebreo israeliano: sono cresciuto nella classica famiglia sionista, e non sapevo molto del conflitto israelo-palestinese, se si eccettua quello che mi dicevano a scuola e quello che sentivo dai media e dai miei genitori. Non ero neppure particolarmente orientato a sinistra. Sono stato nell’esercito, dove ho fatto tre anni, anche se per fortuna non ho mai partecipato a combattimenti.
Dopo la leva, come fanno tanti israeliani, ho fatto un viaggio, sono stato in Asia, ed è lì che è nato il mio interesse accademico. Al ritorno mi sono iscritto all’università. Era il 1988, ed era da poco iniziata la prima Intifada. Un compagno di studi mi aveva suggerito di fare il volontario in una “Hotline” che si occupava di violenze subite dai palestinesi; all’epoca era agli inizi, ma ora è una grande Ong. La mia prima reazione fu: “Non so, non si tratterà di aiutare il nemico?”. Ma lui insistette: “Tu vieni a vedere…”. Così ci andai, e presto capii che c’era una realtà alternativa di cui nessuno mi aveva mai detto niente, una realtà fatta di persone che venivano prese dall’esercito e di cui non si sapeva più niente, di violenza, di profughi… Sì, sapevo che c’erano i campi profughi, ma forse non volevo capire come ci fossero finiti, lì, i profughi. Insomma, rapidamente mi resi conto che la storia che mi era stata raccontata non era completa, e forse era del tutto falsa. Cominciai così a darmi da fare in una serie di attività. Finita l’università, seguii un master negli Stati Uniti per poi rientrare in Israele nel 1999, poco prima che iniziasse la Seconda Intifada. Fu allora che divenni molto più attivo. Entrai in un gruppo chiamato Ta’ayush, un movimento misto di palestinesi e israeliani, che in seguito sarebbe diventato molto grande. Quella diventò la mia casa politica. Lo è ancora.
Cominciammo ad andare molto in Cisgiordania. Ma si lavorava anche all’interno di Israele, con i profughi del 48. Ho imparato tanto in quel periodo. Sono anche diventato un refusenik, cosa che mi ha fruttato un mese di prigione militare perché mi ero rifiutato di essere dislocato in Cisgiordania. Poi ho trascorso un altro periodo negli Usa, ma ora sono 13, 14 anni che sono tornato a Gerusalemme, e da allora non mi sono mai fermato. Anzi, l’anno scorso è stato il più impegnativo della mia vita, dal punto di vista dell’attivismo.
Come ha reagito la tua famiglia a questa scelta?
I miei non ci sono più, ma quando ho cominciato sapevo che non sarebbero stati dalla mia parte. Quando venni arrestato perché renitente mio padre fu intervistato da un giornalista a cui disse che era contrario alla mia scelta. In realtà, simpatizzavano per quello che facevo. Con mia moglie e i miei figli, invece, siamo sulla stessa lunghezza d’onda.
Vorremmo sapere del prima e del dopo il 7 ottobre: è cambiato il rapporto con i palestinesi?
Agli israeliani è da tempo vietato l’accesso a Gaza, quindi non potevamo svolgere alcuna attività laggiù. In Cisgiordania, invece, le cose stavano peggiorando già da prima del 7 ottobre. Questo va tenuto presente. Io lavoro soprattutto nella zona delle colline a sud di Hebron, dove tra l’altro mi recherò dopo questa intervista, e anche nella Valle del Giordano. Lì è in corso uno sforzo congiunto di esercito e coloni per fare una vera e propria pulizia etnica, non tanto nelle città, ma nei villaggi, dove i coloni controllano la maggior parte del territorio. Un paio di settimane dopo il 7 ottobre, mi è arrivato un report da alcuni attivisti sulla minaccia arrivata a diverse comunità, a cui i coloni avevano dato ventiquattro ore per andarsene, altrimenti sarebbero stati assassinati. Quel giorno abbiamo fatto diverse telefonate, e io mi sono subito messo in viaggio per recarmi sul posto. È da allora, dagli inizi di novembre, che qualcuno di noi è sempre lì a vigilare, ventiquattro ore al giorno, tutti i giorni, con una rotazione di volontari che coprono diverse di queste comunità sotto attacco. È stato un periodo intenso e talvolta molto pericoloso. Non tutte le comunità sono rimaste, alcune sono dovute evacuare, perlopiù nella Valle del Giordano, altre nelle colline a sud di Hebron.
Abbiamo trascorso molto tempo in quei luoghi, con quelle persone. Per quanto grave, questo non è l’unico problema di quella gente. Dopo il 7 ottobre sono venute meno le fonti di reddito di un’intera popolazione. Veramente lì le persone non hanno da mangiare...
Con i palestinesi capita di parlare del 7 ottobre?
Sì, talvolta ne parliamo. A volte in sottofondo si sente Al Jazeera e quindi abbiamo modo di ascoltare l’altra narrazione, anche quella con i suoi problemi e i suoi vuoti. In realtà però, la maggior parte delle conversazioni riguardano le cose che abbiamo in comune, che è molto. Le persone non hanno lavoro, o se ce l’hanno spesso non vi si possono recare perché tutti i permessi di lavoro verso Israele sono stati annullati. Per queste persone è venuta meno la principale fonte di reddito, e non possono neppure andare a raccogliere le proprie olive, non possono far pascolare il loro gregge... È dura. Parliamo del comune desiderio di avere una vita normale, della sicurezza, questo tipo di cose. Ciò che tutti vogliamo è che la guerra finisca. Alla fine è meglio lavorare e concentrarsi su ciò che abbiamo in comune.
Qui abbiamo dalla nostra parte una storia di 24 anni di presenza. Loro ci conoscono e noi conosciamo loro: alcuni degli attivisti locali erano bambini, quando abbiamo cominciato a venire nel loro villaggio. Si è creato un rapporto di fiducia e anche di solidarietà che è sopravvissuto al 7 ottobre, perché c’è un rapporto personale oltre che politico.
Dopo il 7 ottobre, hai mai pensato di mollare?
No, al contrario. Ho pensato che fosse il momento di dedicare ancora più tempo ed energia all’attivismo, perché quelle comunità che ho contribuito a mantenere in vita per quasi ventiquattro anni, ora sono nel periodo più critico. Gli abitanti della Cisgiordania non hanno niente a che fare con quanto accaduto il 7 ottobre.
Nel vostro impegno accanto ai palestinesi avete a che fare anche con la recrudescenza delle violenze dei coloni, che agiscono indisturbati.
I coloni dal 7 ottobre in poi si sono scatenati. Fanno tutto ciò che vogliono; sono state loro consegnate tonnellate di armi, e in molti casi è diventato impossibile distinguere tra un colono e un soldato, perché molti coloni sono stati arruolati come riserve, gli sono state date armi e uniformi, e vengono pagati per essere reperibili e stare a casa. Loro usano questo potere per fare ciò che vogliono. Hanno auto, jeep, droni, armi pesanti, armi leggere…
I più spregiudicati si presentano dalle famiglie palestinesi e intimano loro di andarsene in ventiquattro ore, “altrimenti torneremo e vi ammazzeremo”. Il fatto è che non c’è nessuno a cui denunciare un fatto del genere. Già prima del 7 ottobre non si investigava seriamente su simili episodi e dopo quella data non si è indagato per nulla. Noi abbiamo un video che risale a quei giorni, in cui si vede un colono che si avvicina a un palestinese e, senza che ci sia stata alcuna provocazione, gli spara, ferendolo gravemente. A quel colono non è successo nulla. Parliamo di dozzine di episodi analoghi al giorno, e questo solo nell’area delle colline a sud di Hebron.
Ora la novità è che abbiamo gruppi di decine di coloni che si muovono assieme, con le armi e a volto coperto, per andare a picchiare le persone. E non ci si può fare nulla: l’esercito non interviene, la polizia neanche. Si è instaurato un regime di terrore.
Stasera andrò in questa comunità chiamata Zanuta, composta da circa centocinquanta persone. Loro sono stati cacciati dal loro villaggio lo scorso novembre. Non siamo riusciti a proteggerli. Dopo che se ne sono andati, sono arrivati i coloni con i bulldozer e hanno raso al suolo l’intero villaggio. Non è rimasta nemmeno una casa, e gli alberi che non avevano sradicato la prima volta li hanno avvelenati quando sono tornati. Negli scorsi mesi c’è stato un appello alla Corte Suprema per denunciare il fatto, e la Corte ha stabilito che lo stato doveva consentire alla comunità di fare rientro al proprio villaggio, e che l’esercito li doveva scortare. Lo stato ha recepito, ma si è espresso chiaramente su una condizione: gli sfollati non hanno il permesso di ricostruire nulla, né di coprire le macerie con coperture di plastica, con teli, con nulla che faccia ombra o ripari dalla pioggia. Comunque, dopo molti rinvii da parte dell’esercito, finalmente, lo scorso mercoledì, li hanno accompagnati, e noi eravamo lì per accoglierli e aiutarli.
Sono tornati solo gli uomini con le loro greggi di pecore, che sono la principale fonte di reddito da quelle parti. Il fatto è che ogni volta che questi uomini tirano su qualcosa per ripararsi dal sole, la cosiddetta “amministrazione civile”, che di fatto è l’esercito, arriva e tira giù tutto, confiscando il telo “illegale”.
Come si presume queste persone possano rientrare se non viene loro permesso nemmeno di allestire un tetto provvisorio?
Da qui puoi ben capire qual è il piano...
Qui i coloni in qualche modo si muovono in collaborazione con l’esercito: hanno dei droni che ogni due ore sorvolano l’area (cosa illegale), e appena vedono qualcosa che non va chiamano l’esercito, che interviene in cinque minuti per far togliere il tendone.
Ma non è tutto: i coloni di cui parlo vivono in insediamenti, in cosiddetti “outpost” che secondo la stessa legge israeliana sono illegali, ma sono lì da mesi, da anni. Hanno l’elettricità, l’acqua corrente, le strade, la protezione militare... Ecco, l’esercito non ha mai demolito alcuna di queste abitazioni illegali.
Davvero non si capisce come faremo a consentire il ritorno degli abitanti di Zanuta. E considerate che tutto ciò avviene alla presenza costante di volontari come noi. Ci vorrebbe un dispositivo che obblighi lo stato a consentire la ricostruzione. Noi stessi ci stiamo chiedendo come procedere: facciamo un altro appello alla Corte Suprema, invochiamo una pressione internazionale? Alcuni di questi coloni, responsabili dei danni che vi ho descritto, sono pure nella lista dei soggetti sanzionati da vari paesi di tutto il mondo.
Sono persone note; ce n’è uno, per esempio, che è nella lista delle sanzioni di Stati Uniti, Canada, Francia, Inghilterra e altri paesi ancora.
Nel parlamento israeliano si discute di queste cose? Ci sono pressioni interne sulla questione dei coloni?
Il dramma della situazione interna di Israele è che non c’è un’alternativa, una vera opposizione a questo governo. Netanyahu ha sessantaquattro parlamentari della Knesset che automaticamente autorizzano qualunque cosa lui voglia, ma in ogni caso i centoventi esponenti della Knesset, specialmente gli ebrei, si dicono sempre d’accordo e non proferiscono mai una parola contro l’occupazione e l’apartheid. Hanno paura.
La preoccupazione ora, rispetto ai coloni, è che danneggiano la reputazione di Israele sulla scena internazionale. Ma di ciò che accade nella vita quotidiana dei palestinesi non si discute mai. Forse qualcosa dicono i partiti arabi, israelo-palestinesi, ma nessuno li ascolta.
Quando staserà andrai dalla comunità di Zanuta cosa farai? In cosa consiste il vostro lavoro?
Sembrerà incredibile, ma quel che facciamo è semplicemente stare con loro, dormire lì e documentare tutto. Il nostro scopo principale è proteggere i civili e documentare se qualcosa va storto, cosa che succede spesso. La nostra arma principale è il telefono e la macchina fotografica. Intendiamoci, “stare con loro”, in posti come Zanuta, non è semplice: come dicevo, non ci sono più le case, si dorme all’addiaccio, non c’è acqua, né elettricità, né bagni… La nostra organizzazione è composta principalmente da giovani; ci coordiniamo con gruppi Whatsapp, Signal e documenti condivisi, raccogliamo i dati, li compiliamo e poi li diamo ai nostri avvocati e a chiunque debba conoscerli. È un gruppo informale, ma lavoriamo in modo efficace, ci sono persone di diverse nazionalità, riusciamo a presenziare in vari punti del territorio, se poi succede qualcosa in un villaggio “scoperto” prendiamo la macchina e andiamo lì.
Nel tuo lavoro di attivista incontri anche i soldati israeliani...
Tutto il tempo incontro soldati, poliziotti, coloni, a volte ti arrestano o ti trattengono, a volte ti infastidiscono, a volte i coloni ti mettono le mani addosso… succede di tutto. Se sono autorizzato ad andare in quei luoghi? Beh, se ci possono andare i coloni, certamente lo posso fare anch’io! Si inventano qualsiasi regola per tenerci fuori, perché ovviamente non sono contenti di averci lì. Ma ancora non sono riusciti a fermarci.
Hai modo di dialogare con i militari?
A volte non puoi evitare di farlo, perché quando un poliziotto o un soldato ti pone delle domande sei tenuto a rispondere, ma la mia strategia personale è di evitare il più possibile di parlarci. Non credo che aiuti. Oltretutto, non sono nemmeno troppo bravo in queste situazioni, mi arrabbio e finisce che dico cose di cui poi mi pento. Quindi, se non sono costretto, evito. Con i coloni, invece, non parlo mai. Altri adottano altre strategie; il fatto è che non siamo un’organizzazione molto strutturata, e i nostri volontari fanno ciò che l’esperienza ha insegnato loro; per quanto mi riguarda io non vado lì per diventare amico dei soldati, ma per proteggere i palestinesi. Il mio compito è quello, punto.
Chi sono i coloni?
Ce ne sono di molti tipi. I più pericolosi sono quelli che vivono negli avamposti, che -lo ripeto- sono illegali anche per il diritto israeliano. Ci sono persone estremamente violente.
Persino i coloni “ordinari” si sentono più al sicuro quando quelli degli avamposti vengono allontanati, perché sono soliti commettere violenze anche sugli altri coloni. Parliamo di criminali pericolosi. In generale vengono da diversi background. Alcuni sono americani, altri sono nati in Israele. Ci sono anche giovani israeliani che vivono ai margini della società, con famiglie difficili, che hanno lasciato la scuola e che possono avvicinarsi a questi personaggi; a volte costituiscono delle vere e proprie gang. Per alcuni di questi soggetti tormentare i palestinesi è un lavoro a tempo pieno. Non hanno praticamente altra occupazione; molti girano armati e a volto coperto… è una follia. Purtroppo, anche se non sono tutti così, la maggior parte di loro tollera e di fatto sostiene questa fazione più militante.
Che prospettive vedi, anche rispetto al futuro?
Sono tendenzialmente pessimista; non credo che le cose vadano per il meglio, e questo lo penso da molto tempo. Se mi aveste posto questa stessa domanda a proposito delle colline a sud di Hebron quattro o cinque anni fa, avrei detto che quello era un caso virtuoso. Lì siamo riusciti a preservare le comunità, alcune erano tornate nei siti da cui erano state sfollate nei primi anni Duemila. E poi c’era questa relazione di fiducia e solidarietà costruita nel corso di due decadi... Se me l’aveste chiesto allora... Invece negli ultimi anni, e soprattutto dopo il 7 ottobre, ma già da prima, la situazione si è fatta più precaria, anche nelle comunità più consolidate come quella di Zanuta.
Personalmente sono sempre più convinto che, se mai si potrà trovare una soluzione, questa dovrà arrivare da fuori, non dall’interno. Penso a qualche forma di pressione internazionale, magari una coalizione globale che intervenga. Dall’interno non può venire niente, almeno non in questo contesto politico.
Alla fine, con questa nostra presenza ventiquattr’ore su ventiquattro cerchiamo di puntellare con le dita una diga piena di falle. Non è un’azione sostenibile, non saremo in grado di intervenire per sempre. È una battaglia a perdere, che tuttavia continuiamo a combattere pur sapendo che siamo destinati alla sconfitta. Se non si verificano cambiamenti politici radicali in questo contesto -cosa sempre possibile, anche se non vedo come- è difficile immaginare di poter andare avanti così.
E la società israeliana? Ci sono state grandi manifestazioni contro il governo...
Quelle manifestazioni si sono rivelate un fallimento, e il numero dei partecipanti, peraltro, è in calo. In secondo luogo, queste proteste rimangono comunque all’interno di un impianto sionista; non sono contro l’occupazione, né contro l’apartheid, insomma non prendono posizione contro le condizioni che hanno contribuito a portare al 7 ottobre. Penso che non siano nemmeno apertamente contro la guerra. Dentro questo movimento ci sono varie voci; anch’io a volte partecipo, come pure mia moglie, portiamo i nostri cartelli contro la guerra… Ma la maggioranza di quelli che oggi partecipano a queste manifestazioni non hanno queste intenzioni. Ci vanno per chiedere che vengano liberati gli ostaggi. Ma la spinta principale è la rimozione di questo governo. Il fatto è che, anche se la ottenessero, chi credete che lo sostituirebbe? Magari gente meno corrotta, meno opportunista, ma ideologicamente e politicamente non potranno essere tanto diversi da chi ci governa ora.
Personalmente sono a favore di un cessate-il-fuoco e di un qualche tipo di accordo che consenta il ritorno degli ostaggi. Ne abbiamo bisogno anche per cominciare l’opera di ricostruzione. Purtroppo in Israele la popolazione si è spostata a destra, e servirà molto tempo per riportarla, non dico a sinistra, ma quantomeno al centro. Ricordiamoci che siamo in tempo di guerra, e tutto l’armamentario retorico patriottico e fascista che si accompagna di solito alle guerre è alla massima potenza. Inoltre, più il conflitto continua, più Netanyahu torna popolare; non è certo ai livelli di gradimento ante-guerra, ma rispetto all’immediato post-7 ottobre sta recuperando costantemente. Ogni volta che l’esercito riesce ad ammazzare questo o quel militante di Hamas, lui si atteggia a “vero uomo”...
Ma perché neanche negli anni in cui ha governato la sinistra i coloni sono stati fermati?
Perché anche la sinistra in qualche modo era simpatetica con i coloni. Il fatto è che nel tempo questi si sono infiltrati in tutti i gangli dell’apparato statale, fino ai livelli di comando dell’esercito, del governo, della polizia. Oggi sono loro a guidare le danze. Oramai non c’è più differenza tra Israele e i coloni, che stanno diventando il vero volto del paese. Il movimento dei coloni è diventato, come si dice, “la coda che muove il cane”, sono fuori controllo: non c’è alcun meccanismo politico interno in grado di fermarli. Forse si potrà fare agendo da fuori, ma certo non da qui. Loro comandano tutto, e ne subiremo le ripercussioni per anni. Influiscono anche sull’istruzione, intanto sulle loro private, ma anche sulle cosiddette “scuole pre-militari”, dove gli israeliani vanno l’anno prima di fare il servizio di leva. Sono in tutte le posizioni di potere dello stato. Pensate che l’attuale Capo di stato maggiore vive in una colonia; non è uno dei coloni più sfegatati, ma è comunque un colono.
Ritieni sia ancora possibile la nascita di uno stato palestinese?
Nella sinistra israeliana ci sono due scuole di pensiero. Alcuni credono ancora nella soluzione a due stati: pur sapendo che i grandi insediamenti non potranno essere toccati, tuttavia, rimuovendo quelli minori, tutti gli avamposti, e operando uno scambio di territori, sono ancora possibili due stati. Questa è la posizione della vecchia guardia.
Personalmente, invece, ritengo che i coloni non verrano mai spostati, e quindi che questa soluzione sia fuori dal tavolo ormai da tempo. Non ci saranno mai due stati.
Forse può essere praticabile un qualche tipo di soluzione a uno stato; si discute anche di opzioni più complicate. A mio avviso, l’unica certezza è che, anche a fronte di una grande pressione internazionale, i coloni non se ne andranno mai. Sono troppi e troppo forti. Possono trascinarci in una guerra civile; ripeto, oggi sono loro a dettare le regole. Forse, in effetti, hanno già vinto la loro guerra civile, e senza neanche bisogno di combattere. No, io non vedo come potremmo arrivare a una soluzione a due stati. Ma forse è colpa mia, non ho abbastanza immaginazione.
Come la pensano i palestinesi con cui collabori?
Loro sono impegnati a sopravvivere. Non si preoccupano di soluzioni a uno o a due stati: si preoccupano di cosa portare in tavola la sera, di come evitare di essere malmenati dai soldati o dai coloni, di non essere arrestati, di non farsi demolire la casa dall’esercito o dai coloni o da entrambi. E quando sei occupato a sopravvivere, l’unica cosa che ti interessa è quella.
E i loro figli? Hanno ancora la possibilità di andare a scuola, di avere un’istruzione?
Le scuole nel Masafariata sono in condizioni estremamente difficili, è stato complicato assicurare condizioni di frequenza scolastica normali o anche solo di emergenza. Prima c’è stato il Covid, poi uno sciopero degli insegnanti e, subito dopo, questa guerra.
La maggior parte delle settimane scolastiche sono molto, molto corte, per non parlare del fatto che anche le scuole sono state demolite dai coloni o dall’esercito. Così è successo a Zanuta, dove c’era una bella scuola, costruita, peraltro, con fondi dell’Unione europea: l’hanno distrutta i coloni, ma spesso è anche l’esercito a prendere di mira gli istituti scolastici, sempre perché sarebbero “edifici illegali”. A volte poi ci sono comunità minuscole in luoghi remoti i cui bambini devono recarsi a scuola coprendo lunghe distanze, cosa molto pericolosa. Alcuni genitori magari dicono ai figli che li accompagneranno a scuola “quando ne avranno l’occasione”, e se va bene li portano un giorno o due, ma non di più. Nella maggior parte delle scuole dell’area, insomma, è un bel po’ che non si riesce ad avere una routine scolastica. Nelle grandi città è diverso: a Hebron, a Ramallah, a Nablus forse le cose vanno meglio. Io però non frequento quei posti. Noi andiamo nelle comunità rurali, e lì la maggioranza dei bambini trascorre molti giorni senza entrare in classe. Una settimana sì, una no, un giorno sì, un giorno no, poi le ore sono poche, gli insegnanti sono sottopagati… Sì, perché anche per gli insegnanti è pericoloso andare a lavorare. È complicato.
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)