Siamo ancora qui
israele-palestina

Una Città n° 312 / 2025 luglio-agosto
Intervista a volontaria di Operazione Colomba
Realizzata da Barbara Bertoncin
SIAMO ANCORA QUI
Un’esperienza di volontariato in Palestina, nell’area di Masafer Yatta, accanto a una comunità che, giorno dopo giorno, davanti a furti, aggressioni, uccisioni, porta avanti una forma di resistenza nonviolenta; lo sconforto, di fronte a tanta ingiustizia, che fa dubitare del senso del proprio impegno, ma anche l’imprevista gioia di stare in mezzo a un gruppo di donne e uomini che, nonostante tutto, alla fine di una giornata di angherie trova la forza di ridere.
L’intervistata è una volontaria di Operazione Colomba; ha chiesto che il suo nome non venga riportato per poter tornare nei territori palestinesi.
Sei da poco tornata da Masafer Yatta, puoi raccontare la situazione che hai trovato?
Era la quarta volta che andavo in Palestina, nell’ambito del progetto Operazione Colomba che fa un lavoro che viene definito di “protection”, cioè accompagnamento delle comunità locali nelle loro attività quotidiane. Quella di cui parlo è una comunità che, di fronte a uno degli eserciti più grandi e potenti al mondo, ha scelto come strategia di resistenza la nonviolenza.
Da ventisei anni, da quando hanno vinto la causa contro l’espulsione di dodici comunità di Masafer Yatta, nell’area delle colline a sud di Hebron, è stato costituito questo comitato di resistenza popolare che unifica vari villaggi e si coordina all’interno della Palestina con altre realtà analoghe in quello che è il Popular Struggle Coordination Committee, Pscc.
Le attività che noi internazionali svolgiamo sono appunto quelle di accompagnamento nella pastorizia, nelle attività di agricoltura, negli spostamenti degli attivisti locali quando diventano target di rappresaglie. Dormiamo nelle case di queste famiglie nei villaggi dove c’è più bisogno di protezione. Interveniamo nel momento in cui si sta agendo effettivamente una violenza sia da parte dei coloni che da parte dell’esercito, principalmente realizzando delle videoriprese e quindi documentando. L’obiettivo è quello di provare ad abbassare un po’ la tensione e al contempo raccogliere delle prove di quello che sta avvenendo: violazioni dei diritti umani, fondamentalmente.
Quando sono arrivata era un momento in cui la comunità aveva ricominciato a reagire perché dopo il 7 ottobre erano stati praticamente bloccati in casa; non solo non si potevano muovere, ma subivano continui attacchi fin nel cortile di casa. C’era quindi stato un momento di congelamento di qualsiasi attività. Ecco, con l’arrivo della primavera, avevano ripreso le occupazioni quotidiane anche cercando di recuperare le terre che nel frattempo avevano perso. Quindi il mio arrivo è corrisposto a un relativo entusiasmo da parte mia perché vedevo comunque una reazione, mentre l’anno precedente c’era più un clima di paura.
Ovviamente parliamo di piccoli obiettivi perché si faceva veramente un metro al giorno, però il sentimento era: “Piano piano quella terra me la riprendo, non vado via come nella Nakba”.
La prima emergenza a cui ho partecipato è stata l’invasione di un terreno da parte di un colono con il suo gregge; quando siamo arrivati lui non c’era più, ma aveva devastato il terreno e spezzato i rami degli ulivi; abbiamo trovato la famiglia palestinese già intenta a risistemare e ad allestire una rete. Si percepiva il riemergere di una voglia di riscatto. Quel giorno ho pensato che avesse senso essere lì. Immediatamente poi la comunità si è radunata intorno a questa famiglia, che era stata vittima di numerosi attacchi nel giro di poco tempo. Mi piacerebbe dire che la cosa poi si è conclusa positivamente, ma purtroppo non è così.
Cosa possono fare i palestinesi per far valere i loro diritti?
Oggi i palestinesi chiamano spesso la polizia israeliana perché l’unico soggetto garante della giustizia paradossalmente è un organo israeliano. D’altra parte non hanno alternative.
L’esercito ha potere sui civili palestinesi, ma non sui civili israeliani. La polizia invece ha potere anche sui coloni. Quindi i palestinesi chiamano la polizia e i coloni chiamano l’esercito. Fondamentalmente la scena è sempre quella.
In molti casi poi finisce che la polizia dice loro di non chiamarli più e nel frattempo arriva l’esercito, che arresta i palestinesi che hanno subìto gli attacchi!
Mentre ero lì, il padre della famiglia sotto attacco è stato gambizzato da un colono. Quell’area è molto esposta, essendo vicina a una colonia, e la famiglia è battagliera, per cui è costantemente vittima di attacchi. Quel giorno ci ha chiamato. È accaduto tutto molto velocemente. C’erano due coloni, di cui uno armato; il colono non armato ha iniziato a malmenare suo figlio. Nel frattempo l’intera famiglia era andata nel campo e aveva iniziato a riprendere. A quel punto il padre è corso in soccorso del figlio e il colono armato gli ha sparato a una gamba. Sono arrivati polizia, ambulanza, esercito… Il padre è stato portato in un ospedale israeliano (l’ambulanza era stata chiamata dagli attivisti israeliani che sostengono la lotta della comunità). Comunque è stato arrestato lui! Aveva i piantoni nella stanza e le manette al letto. Dopodiché anche il figlio è stato arrestato e messo in un carcere minorile. Sono poi stati rilasciati entrambi sotto cauzione.
Il padre inizialmente è rimasto in ospedale perché purtroppo ha subìto l’amputazione della gamba, suo figlio invece è tornato a casa dopo qualche giorno. La comunità si è subito stretta attorno a questa famiglia: si facevano le veglie notturne, si presidiavano la terra e la casa, perché erano rimaste solo donne e bambini, quindi si temeva che i coloni potessero approfittarne.
Quando il ragazzo è tornato, c’era tutta la famiglia allargata, con anche membri dei villaggi vicini, oltre agli internazionali e agli attivisti israeliani. Devo dire che, pur conoscendo il ragazzo, lì per lì non l’avevo riconosciuto, aveva gli occhi spenti, sembrava proprio un’altra persona, è stato impressionante.
Nel periodo rimanente abbiamo continuato a “coprire” la casa: la maggior parte delle notti le trascorrevamo lì, perché i coloni continuavano a tornare. Sono due casette e il terreno è appena sopra. Poi ci sono stati altri “accompagnamenti”: c’era un’altra famiglia impegnata a riprendersi la sua terra...
Dopo il 7 ottobre sono nati molti di questi cosiddetti outpost: gli avamposti sono spuntati come funghi e circondano i villaggi palestinesi. I coloni appena arrivano piantano una bandiera di Israele e poi pian piano compare una baracca, un prefabbricato, si portano gli animali e rapidamente si allargano. Sul terreno di questa famiglia avevano piantato tre bandiere enormi, a dire: “Questo posto non è più vostro”. Questa famiglia non ha paura dei coloni, però ha paura dei soldati, degli arresti. Quindi finché c’erano soltanto i coloni, loro sono rimasti nell’area.
Quando i coloni hanno chiamato i soldati, sono scappati. A quel punto abbiamo iniziato a fare da vedetta. Abbiamo cominciato a vedere dei movimenti avanti e indietro che non capivamo, dopo un po’ abbiamo visto spuntare delle bandiere...
Avevano piantato ben dodici bandierine! Quando i coloni sono andati via, i palestinesi si sono organizzati per andare a strapparle. Purtroppo hanno calcolato male i tempi... Anche qui non è finita bene, perché i coloni hanno immediatamente chiamato i soldati che nel pomeriggio sono andati nel villaggio ad arrestare uno dei fratelli di questa famiglia. Queste azioni hanno sempre un intento intimidatorio, per cui il giorno dopo l’hanno rilasciato dietro pagamento di una cauzione, per poi tornare, di lì a poco, ad arrestarlo di nuovo...
Io trovo ammirevole questa loro forma di resistenza, con cui, pur in modo semplice e forse anche un po’ scalcagnato, non si stancano di affermare che quella è la loro terra e non se ne andranno.
Qual è l’appiglio formale con cui viene loro sottratta la terra?
È complicato. Le comunità che sono state espulse e poi riammesse ora sono di nuovo sotto ordine di evacuazione, perché lì hanno istituito una zona di addestramento militare, che è una delle strategie dello stato israeliano per sottrarre la terra, insieme all’istituzione di siti archeologici, parchi nazionali, ecc. Insomma, questi villaggi sono finiti all’interno di una zona di addestramento militare che “casualmente” si trova nel corridoio che collega il sud di Israele, quindi il Negev, con il nord.
I più giovani cosa pensano, che prospettive hanno?
Loro sono lì. Molti potrebbero andare via; hanno un’istruzione superiore elevata; diversi sono diventati giornalisti e scrivono per testate internazionali. Il fatto è che non vogliono andare via. Hanno ereditato la battaglia dei loro nonni e nonne. E quindi scelgono di rimanere con tutte le difficoltà del caso.
In questi anni hanno messo in campo anche forme nuove di resistenza. Sono nati e cresciuti all’interno di questo Comitato di resistenza popolare che già aveva scelto la nonviolenza come strategia e nel 2018 hanno formato un collettivo che si chiama “Youth of Sumud” che si muove in modo molto intelligente. Sarura, un villaggio abbandonato a causa della violenza dei coloni e dei costanti attacchi subiti, ormai ridotto a poche pietre e alcune grotte, era però in una posizione strategica; ecco, i giovani hanno deciso di ripristinare le grotte, risistemare le case, dopodiché hanno restituito le chiavi ai proprietari.
È stato un bel gesto di resistenza collettiva; tanto più che erano stati appunto i più giovani sia a pianificarlo che a realizzarlo. Oggi sono loro che portano avanti le forme di resistenza più importanti.
Ma chi sono questi coloni?
Quelli di cui parliamo sono spinti da un’ideologia che è un mix di fanatismo religioso, ultranazionalismo ed etno-suprematismo ebraico.
Non sono contadini o pastori, per ceto sociale, lo sono diventati sempre di più perché negli ultimi anni una delle strategie di occupazione delle terre è quella che viene chiamata di “herding colonialism”, un colonialismo di insediamento in cui ci si appropria anche delle modalità native e le si rivendica come proprie. La prima volta che ci sono andata, c’erano pochissimi coloni pastori adesso invece sono sempre di più. Come non bastasse, ci sono pure dei programmi di reinserimento di minori attraverso la pastorizia per cui i ragazzi vengono mandati nelle colonie, come riscatto sociale! C’è infine un programma analogo per gli orfani.
Molti coloni non vengono da Israele, sono ebrei che fanno la loro “Aliyah”, prendono la cittadinanza e vanno a vivere negli insediamenti.
Esiste un sistema ben organizzato; c’è il coordinamento delle colonie, ci sono delle fondazioni private che finanziano. Il tutto poi avviene con il sostegno, economico e burocratico-amministrativo, del governo.
Nella zona dove operiamo noi, ci sono molti ebrei americani, francesi, qualche italiano; principalmente vengono dall’Europa e dagli Stati Uniti; ci sono poi diversi sudafricani, qualche etiope, ecc.
Qual è il rapporto tra i coloni e i soldati?
Ormai non c’è più distinzione: spesso i coloni sono soldati e infatti adesso si chiamano “soldati coloni”; sono principalmente dei riservisti; essendo l’esercito impegnato a Gaza, vengono coinvolti questi riservisti volontari. All’inizio si faceva fatica a distinguerli, ora capiamo che sono loro perché sono meno equipaggiati; spesso hanno un abbigliamento tipo quello da softair che si trova nei negozi. Però, a parte questo, hanno lo stesso potere; spesso anzi si vedono i coloni dare ordini ai soldati.
Di recente c’è stato un attentato e i soldati hanno arrestato il colono responsabile; il giorno dopo Ben Gvir ha fatto una dichiarazione contro l’esercito...
E con gli internazionali e gli israeliani che sostengono la lotta palestinese?
Va un po’ a ondate. Nelle ultime due settimane l’obiettivo dell’esercito non sono più i palestinesi, ma gli internazionali, infatti ci sono stati una serie di arresti mirati. Le strategie sono sempre molto difficili da decifrare. Sicuramente oggi il senso di impunità è forte e diffuso, per cui anche il nostro ruolo di deterrente attraverso l’uso della fotocamera è ridimensionato; l’impressione è che possano fare quello che vogliono. Se la comunità internazionale non reagisce a quello che sta succedendo a Gaza, che è ormai un genocidio in diretta, la sprangata di un colono contro un palestinese non fa neanche notizia.
La nostra presenza ormai serve principalmente a non far sentire abbandonati le comunità palestinesi.
Subito dopo il 7 ottobre è stato terribile perché erano rimasti soli e molti hanno veramente pensato che li avrebbero ammazzati, tutti perché la violenza dei coloni era fuori controllo. I primi a tornare sono stati gli israeliani, poi Operazione Colomba a cui in seguito si sono aggiunti quelli dell’International Solidarity Movement.
Come nasce questa scelta di una resistenza nonviolenta?
I giovani attivisti con cui ho parlato non si sentono rappresentati da Hamas, né dalla Jihad islamica, ma neanche, per esempio, da Marwan Barghouti. Gli riconoscono un potenziale ruolo di unificatore, però parlandone mi hanno proprio detto: “Lui è un resistente armato e quindi non ci rappresenta perché noi abbiamo scelto un’altra strada”.
Questa è una comunità che ha scelto la nonviolenza. Forse c’è qualche famiglia più tradizionale che sostiene Hamas, ma sono casi isolati, anche perché parliamo di una società abbastanza laica, dove i comitati di resistenza popolare sono una realtà molto presente e attiva, anche se non hanno molta visibilità, perché non sono un partito. Hanno una forma di organizzazione molto orizzontale con rappresentanti all’interno delle comunità. Fanno molto lavoro di base e operano a un livello diverso da quello della rappresentanza politica tradizionale, che peraltro in Palestina è molto corrotta. Ecco, loro sono fuori da queste dinamiche, poi ovviamente ogni villaggio ha una sua fisionomia, ma direi che la maggioranza non è affiliata a nessun partito, anzi non ne vuole sapere...
Aggiungo che in questa scelta, il ruolo delle donne è stato fondamentale, anche se spesso meno visibile. Intanto, pur essendo una società patriarcale, le donne si ritagliano ampi spazi di autonomia. Mettono su cooperative di lavoro che, oltre a permettere loro di portare a casa un reddito, sono anche un luogo d’incontro e di confronto politico. A volte, nelle loro riunioni, discutono proprio di strategie di resistenza. In generale comunque in Palestina le donne hanno titoli di studio superiori agli uomini.
La loro presenza è cruciale anche nelle azioni sul campo. Mi è capitato di vedere tutte queste donne schierate a fare resistenza alle aggressioni dei coloni; spesso poi creano scompiglio quindi sono anche un elemento di distrazione, oltre che di abbassamento della tensione. Sfruttano il “vantaggio” di subire meno ripercussioni del capofamiglia o dei giovani; volgono in loro favore la poca considerazione loro riservata. Le ho viste anche, nella confusione da loro stesse creata, riprendersi gli uomini che avevano già le fascette ai polsi per essere arrestati e portati via. Cose che solo le donne possono fare!
La scuola di At-Tuwani è stata costruita grazie all’intuizione di donne come la mamma del regista Basel Adra, che sanno giocare sulle linee di discriminazione. In quel caso l’idea delle donne era stata di accentrare l’attenzione su di loro e i bambini, mentre gli uomini, di notte, innalzavano i muri dell’edificio...
La nonna di Sameeha è sempre stata un’altra figura cruciale. Sempre in prima fila, negli anni Novanta, durante un’azione, anche lei è stata spintonata e si è rotta un’anca. Suo figlio in quella stessa occasione era stato arrestato. Quando è tornato dalla prigione aveva giurato vendetta. Lei gli ha detto: “Agisci con intelligenza. Loro hanno tutto, tu non hai niente. Non farmi piangere un figlio morto”. Da lì è nata tutta la riflessione e la teorizzazione della resistenza nonviolenta, che poi è stata trasmessa agli altri membri della comunità.
Così è nato il Comitato di Resistenza Popolare di At-Tuwani e piano piano il movimento si è espanso anche negli altri villaggi. At-Tuwani poi ha potuto dimostrare che questa forma di resistenza era anche vincente perché in questo modo è riuscita a ottenere il piano regolatore e di conseguenza la corrente elettrica, l’acqua, ecc., vedendo migliorare decisamente la vita quotidiana degli abitanti.
Dicevi che in queste comunità, nonostante tutto, si trova anche la forza di ridere.
È così. Ridono tantissimo, soprattutto le donne quando si trovano tra di loro, ed è una risata contagiosa. In generale, i momenti di socialità sono bellissimi perché sono sempre accompagnati da queste grandi risate. Anche subito dopo momenti di forte tensione. Probabilmente è una modalità molto spontanea, che però tiene alto il morale. Io la vedo pure come una forma di riscatto. Come dire: questa occupazione coloniale mi sta togliendo tutto, ma io resto qui perché sono parte di questa terra.
A me questo aspetto piace molto, sarà che non sono una persona che ride tanto nella vita, invece quando sono in Palestina rido tantissimo. Ti trasmette quel senso di dire: “Dopo tutto quello che ho vissuto oggi, se riesco ancora a ridere, vuol dire che siamo ancora qui e che non molliamo”. Lo volevo dire perché secondo me fa parte anche questo della resistenza nonviolenta!
(a cura di Barbara Bertoncin)
Sei da poco tornata da Masafer Yatta, puoi raccontare la situazione che hai trovato?
Era la quarta volta che andavo in Palestina, nell’ambito del progetto Operazione Colomba che fa un lavoro che viene definito di “protection”, cioè accompagnamento delle comunità locali nelle loro attività quotidiane. Quella di cui parlo è una comunità che, di fronte a uno degli eserciti più grandi e potenti al mondo, ha scelto come strategia di resistenza la nonviolenza.
Da ventisei anni, da quando hanno vinto la causa contro l’espulsione di dodici comunità di Masafer Yatta, nell’area delle colline a sud di Hebron, è stato costituito questo comitato di resistenza popolare che unifica vari villaggi e si coordina all’interno della Palestina con altre realtà analoghe in quello che è il Popular Struggle Coordination Committee, Pscc.
Le attività che noi internazionali svolgiamo sono appunto quelle di accompagnamento nella pastorizia, nelle attività di agricoltura, negli spostamenti degli attivisti locali quando diventano target di rappresaglie. Dormiamo nelle case di queste famiglie nei villaggi dove c’è più bisogno di protezione. Interveniamo nel momento in cui si sta agendo effettivamente una violenza sia da parte dei coloni che da parte dell’esercito, principalmente realizzando delle videoriprese e quindi documentando. L’obiettivo è quello di provare ad abbassare un po’ la tensione e al contempo raccogliere delle prove di quello che sta avvenendo: violazioni dei diritti umani, fondamentalmente.
Quando sono arrivata era un momento in cui la comunità aveva ricominciato a reagire perché dopo il 7 ottobre erano stati praticamente bloccati in casa; non solo non si potevano muovere, ma subivano continui attacchi fin nel cortile di casa. C’era quindi stato un momento di congelamento di qualsiasi attività. Ecco, con l’arrivo della primavera, avevano ripreso le occupazioni quotidiane anche cercando di recuperare le terre che nel frattempo avevano perso. Quindi il mio arrivo è corrisposto a un relativo entusiasmo da parte mia perché vedevo comunque una reazione, mentre l’anno precedente c’era più un clima di paura.
Ovviamente parliamo di piccoli obiettivi perché si faceva veramente un metro al giorno, però il sentimento era: “Piano piano quella terra me la riprendo, non vado via come nella Nakba”.
La prima emergenza a cui ho partecipato è stata l’invasione di un terreno da parte di un colono con il suo gregge; quando siamo arrivati lui non c’era più, ma aveva devastato il terreno e spezzato i rami degli ulivi; abbiamo trovato la famiglia palestinese già intenta a risistemare e ad allestire una rete. Si percepiva il riemergere di una voglia di riscatto. Quel giorno ho pensato che avesse senso essere lì. Immediatamente poi la comunità si è radunata intorno a questa famiglia, che era stata vittima di numerosi attacchi nel giro di poco tempo. Mi piacerebbe dire che la cosa poi si è conclusa positivamente, ma purtroppo non è così.
Cosa possono fare i palestinesi per far valere i loro diritti?
Oggi i palestinesi chiamano spesso la polizia israeliana perché l’unico soggetto garante della giustizia paradossalmente è un organo israeliano. D’altra parte non hanno alternative.
L’esercito ha potere sui civili palestinesi, ma non sui civili israeliani. La polizia invece ha potere anche sui coloni. Quindi i palestinesi chiamano la polizia e i coloni chiamano l’esercito. Fondamentalmente la scena è sempre quella.
In molti casi poi finisce che la polizia dice loro di non chiamarli più e nel frattempo arriva l’esercito, che arresta i palestinesi che hanno subìto gli attacchi!
Mentre ero lì, il padre della famiglia sotto attacco è stato gambizzato da un colono. Quell’area è molto esposta, essendo vicina a una colonia, e la famiglia è battagliera, per cui è costantemente vittima di attacchi. Quel giorno ci ha chiamato. È accaduto tutto molto velocemente. C’erano due coloni, di cui uno armato; il colono non armato ha iniziato a malmenare suo figlio. Nel frattempo l’intera famiglia era andata nel campo e aveva iniziato a riprendere. A quel punto il padre è corso in soccorso del figlio e il colono armato gli ha sparato a una gamba. Sono arrivati polizia, ambulanza, esercito… Il padre è stato portato in un ospedale israeliano (l’ambulanza era stata chiamata dagli attivisti israeliani che sostengono la lotta della comunità). Comunque è stato arrestato lui! Aveva i piantoni nella stanza e le manette al letto. Dopodiché anche il figlio è stato arrestato e messo in un carcere minorile. Sono poi stati rilasciati entrambi sotto cauzione.
Il padre inizialmente è rimasto in ospedale perché purtroppo ha subìto l’amputazione della gamba, suo figlio invece è tornato a casa dopo qualche giorno. La comunità si è subito stretta attorno a questa famiglia: si facevano le veglie notturne, si presidiavano la terra e la casa, perché erano rimaste solo donne e bambini, quindi si temeva che i coloni potessero approfittarne.
Quando il ragazzo è tornato, c’era tutta la famiglia allargata, con anche membri dei villaggi vicini, oltre agli internazionali e agli attivisti israeliani. Devo dire che, pur conoscendo il ragazzo, lì per lì non l’avevo riconosciuto, aveva gli occhi spenti, sembrava proprio un’altra persona, è stato impressionante.
Nel periodo rimanente abbiamo continuato a “coprire” la casa: la maggior parte delle notti le trascorrevamo lì, perché i coloni continuavano a tornare. Sono due casette e il terreno è appena sopra. Poi ci sono stati altri “accompagnamenti”: c’era un’altra famiglia impegnata a riprendersi la sua terra...
Dopo il 7 ottobre sono nati molti di questi cosiddetti outpost: gli avamposti sono spuntati come funghi e circondano i villaggi palestinesi. I coloni appena arrivano piantano una bandiera di Israele e poi pian piano compare una baracca, un prefabbricato, si portano gli animali e rapidamente si allargano. Sul terreno di questa famiglia avevano piantato tre bandiere enormi, a dire: “Questo posto non è più vostro”. Questa famiglia non ha paura dei coloni, però ha paura dei soldati, degli arresti. Quindi finché c’erano soltanto i coloni, loro sono rimasti nell’area.
Quando i coloni hanno chiamato i soldati, sono scappati. A quel punto abbiamo iniziato a fare da vedetta. Abbiamo cominciato a vedere dei movimenti avanti e indietro che non capivamo, dopo un po’ abbiamo visto spuntare delle bandiere...
Avevano piantato ben dodici bandierine! Quando i coloni sono andati via, i palestinesi si sono organizzati per andare a strapparle. Purtroppo hanno calcolato male i tempi... Anche qui non è finita bene, perché i coloni hanno immediatamente chiamato i soldati che nel pomeriggio sono andati nel villaggio ad arrestare uno dei fratelli di questa famiglia. Queste azioni hanno sempre un intento intimidatorio, per cui il giorno dopo l’hanno rilasciato dietro pagamento di una cauzione, per poi tornare, di lì a poco, ad arrestarlo di nuovo...
Io trovo ammirevole questa loro forma di resistenza, con cui, pur in modo semplice e forse anche un po’ scalcagnato, non si stancano di affermare che quella è la loro terra e non se ne andranno.
Qual è l’appiglio formale con cui viene loro sottratta la terra?
È complicato. Le comunità che sono state espulse e poi riammesse ora sono di nuovo sotto ordine di evacuazione, perché lì hanno istituito una zona di addestramento militare, che è una delle strategie dello stato israeliano per sottrarre la terra, insieme all’istituzione di siti archeologici, parchi nazionali, ecc. Insomma, questi villaggi sono finiti all’interno di una zona di addestramento militare che “casualmente” si trova nel corridoio che collega il sud di Israele, quindi il Negev, con il nord.
I più giovani cosa pensano, che prospettive hanno?
Loro sono lì. Molti potrebbero andare via; hanno un’istruzione superiore elevata; diversi sono diventati giornalisti e scrivono per testate internazionali. Il fatto è che non vogliono andare via. Hanno ereditato la battaglia dei loro nonni e nonne. E quindi scelgono di rimanere con tutte le difficoltà del caso.
In questi anni hanno messo in campo anche forme nuove di resistenza. Sono nati e cresciuti all’interno di questo Comitato di resistenza popolare che già aveva scelto la nonviolenza come strategia e nel 2018 hanno formato un collettivo che si chiama “Youth of Sumud” che si muove in modo molto intelligente. Sarura, un villaggio abbandonato a causa della violenza dei coloni e dei costanti attacchi subiti, ormai ridotto a poche pietre e alcune grotte, era però in una posizione strategica; ecco, i giovani hanno deciso di ripristinare le grotte, risistemare le case, dopodiché hanno restituito le chiavi ai proprietari.
È stato un bel gesto di resistenza collettiva; tanto più che erano stati appunto i più giovani sia a pianificarlo che a realizzarlo. Oggi sono loro che portano avanti le forme di resistenza più importanti.
Ma chi sono questi coloni?
Quelli di cui parliamo sono spinti da un’ideologia che è un mix di fanatismo religioso, ultranazionalismo ed etno-suprematismo ebraico.
Non sono contadini o pastori, per ceto sociale, lo sono diventati sempre di più perché negli ultimi anni una delle strategie di occupazione delle terre è quella che viene chiamata di “herding colonialism”, un colonialismo di insediamento in cui ci si appropria anche delle modalità native e le si rivendica come proprie. La prima volta che ci sono andata, c’erano pochissimi coloni pastori adesso invece sono sempre di più. Come non bastasse, ci sono pure dei programmi di reinserimento di minori attraverso la pastorizia per cui i ragazzi vengono mandati nelle colonie, come riscatto sociale! C’è infine un programma analogo per gli orfani.
Molti coloni non vengono da Israele, sono ebrei che fanno la loro “Aliyah”, prendono la cittadinanza e vanno a vivere negli insediamenti.
Esiste un sistema ben organizzato; c’è il coordinamento delle colonie, ci sono delle fondazioni private che finanziano. Il tutto poi avviene con il sostegno, economico e burocratico-amministrativo, del governo.
Nella zona dove operiamo noi, ci sono molti ebrei americani, francesi, qualche italiano; principalmente vengono dall’Europa e dagli Stati Uniti; ci sono poi diversi sudafricani, qualche etiope, ecc.
Qual è il rapporto tra i coloni e i soldati?
Ormai non c’è più distinzione: spesso i coloni sono soldati e infatti adesso si chiamano “soldati coloni”; sono principalmente dei riservisti; essendo l’esercito impegnato a Gaza, vengono coinvolti questi riservisti volontari. All’inizio si faceva fatica a distinguerli, ora capiamo che sono loro perché sono meno equipaggiati; spesso hanno un abbigliamento tipo quello da softair che si trova nei negozi. Però, a parte questo, hanno lo stesso potere; spesso anzi si vedono i coloni dare ordini ai soldati.
Di recente c’è stato un attentato e i soldati hanno arrestato il colono responsabile; il giorno dopo Ben Gvir ha fatto una dichiarazione contro l’esercito...
E con gli internazionali e gli israeliani che sostengono la lotta palestinese?
Va un po’ a ondate. Nelle ultime due settimane l’obiettivo dell’esercito non sono più i palestinesi, ma gli internazionali, infatti ci sono stati una serie di arresti mirati. Le strategie sono sempre molto difficili da decifrare. Sicuramente oggi il senso di impunità è forte e diffuso, per cui anche il nostro ruolo di deterrente attraverso l’uso della fotocamera è ridimensionato; l’impressione è che possano fare quello che vogliono. Se la comunità internazionale non reagisce a quello che sta succedendo a Gaza, che è ormai un genocidio in diretta, la sprangata di un colono contro un palestinese non fa neanche notizia.
La nostra presenza ormai serve principalmente a non far sentire abbandonati le comunità palestinesi.
Subito dopo il 7 ottobre è stato terribile perché erano rimasti soli e molti hanno veramente pensato che li avrebbero ammazzati, tutti perché la violenza dei coloni era fuori controllo. I primi a tornare sono stati gli israeliani, poi Operazione Colomba a cui in seguito si sono aggiunti quelli dell’International Solidarity Movement.
Come nasce questa scelta di una resistenza nonviolenta?
I giovani attivisti con cui ho parlato non si sentono rappresentati da Hamas, né dalla Jihad islamica, ma neanche, per esempio, da Marwan Barghouti. Gli riconoscono un potenziale ruolo di unificatore, però parlandone mi hanno proprio detto: “Lui è un resistente armato e quindi non ci rappresenta perché noi abbiamo scelto un’altra strada”.
Questa è una comunità che ha scelto la nonviolenza. Forse c’è qualche famiglia più tradizionale che sostiene Hamas, ma sono casi isolati, anche perché parliamo di una società abbastanza laica, dove i comitati di resistenza popolare sono una realtà molto presente e attiva, anche se non hanno molta visibilità, perché non sono un partito. Hanno una forma di organizzazione molto orizzontale con rappresentanti all’interno delle comunità. Fanno molto lavoro di base e operano a un livello diverso da quello della rappresentanza politica tradizionale, che peraltro in Palestina è molto corrotta. Ecco, loro sono fuori da queste dinamiche, poi ovviamente ogni villaggio ha una sua fisionomia, ma direi che la maggioranza non è affiliata a nessun partito, anzi non ne vuole sapere...
Aggiungo che in questa scelta, il ruolo delle donne è stato fondamentale, anche se spesso meno visibile. Intanto, pur essendo una società patriarcale, le donne si ritagliano ampi spazi di autonomia. Mettono su cooperative di lavoro che, oltre a permettere loro di portare a casa un reddito, sono anche un luogo d’incontro e di confronto politico. A volte, nelle loro riunioni, discutono proprio di strategie di resistenza. In generale comunque in Palestina le donne hanno titoli di studio superiori agli uomini.
La loro presenza è cruciale anche nelle azioni sul campo. Mi è capitato di vedere tutte queste donne schierate a fare resistenza alle aggressioni dei coloni; spesso poi creano scompiglio quindi sono anche un elemento di distrazione, oltre che di abbassamento della tensione. Sfruttano il “vantaggio” di subire meno ripercussioni del capofamiglia o dei giovani; volgono in loro favore la poca considerazione loro riservata. Le ho viste anche, nella confusione da loro stesse creata, riprendersi gli uomini che avevano già le fascette ai polsi per essere arrestati e portati via. Cose che solo le donne possono fare!
La scuola di At-Tuwani è stata costruita grazie all’intuizione di donne come la mamma del regista Basel Adra, che sanno giocare sulle linee di discriminazione. In quel caso l’idea delle donne era stata di accentrare l’attenzione su di loro e i bambini, mentre gli uomini, di notte, innalzavano i muri dell’edificio...
La nonna di Sameeha è sempre stata un’altra figura cruciale. Sempre in prima fila, negli anni Novanta, durante un’azione, anche lei è stata spintonata e si è rotta un’anca. Suo figlio in quella stessa occasione era stato arrestato. Quando è tornato dalla prigione aveva giurato vendetta. Lei gli ha detto: “Agisci con intelligenza. Loro hanno tutto, tu non hai niente. Non farmi piangere un figlio morto”. Da lì è nata tutta la riflessione e la teorizzazione della resistenza nonviolenta, che poi è stata trasmessa agli altri membri della comunità.
Così è nato il Comitato di Resistenza Popolare di At-Tuwani e piano piano il movimento si è espanso anche negli altri villaggi. At-Tuwani poi ha potuto dimostrare che questa forma di resistenza era anche vincente perché in questo modo è riuscita a ottenere il piano regolatore e di conseguenza la corrente elettrica, l’acqua, ecc., vedendo migliorare decisamente la vita quotidiana degli abitanti.
Dicevi che in queste comunità, nonostante tutto, si trova anche la forza di ridere.
È così. Ridono tantissimo, soprattutto le donne quando si trovano tra di loro, ed è una risata contagiosa. In generale, i momenti di socialità sono bellissimi perché sono sempre accompagnati da queste grandi risate. Anche subito dopo momenti di forte tensione. Probabilmente è una modalità molto spontanea, che però tiene alto il morale. Io la vedo pure come una forma di riscatto. Come dire: questa occupazione coloniale mi sta togliendo tutto, ma io resto qui perché sono parte di questa terra.
A me questo aspetto piace molto, sarà che non sono una persona che ride tanto nella vita, invece quando sono in Palestina rido tantissimo. Ti trasmette quel senso di dire: “Dopo tutto quello che ho vissuto oggi, se riesco ancora a ridere, vuol dire che siamo ancora qui e che non molliamo”. Lo volevo dire perché secondo me fa parte anche questo della resistenza nonviolenta!
(a cura di Barbara Bertoncin)
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Una Città n° 306 / 2024 dicembre 2024-gennaio 2025
Realizzata da Barbara Bertoncin, Bettina Foa
Realizzata da Barbara Bertoncin, Bettina Foa
Elisheva Baumgarten studia la storia sociale e religiosa degli ebrei nell’Europa settentrionale medievale e insegna Storia medievale all’Università ebraica di Gerusalemme. La sua ricerca si concentra sulla storia sociale delle comunit&a...
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NOI NIPOTI...
Una Città n° 312 / 2025 luglio-agosto
Sameeha Hureini, giovane palestinese, è impegnata nel movimento nonviolento Youth Of Sumud (Gioventù della Perseveranza), vive ad At-Tucani nell’area di Masafer Yatta, in Cisgiordania.
Sono una giovane attivista del villaggio di At-...
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PERCHE' POI VOTANO PER NETANYAHU?
Una Città n° 307 / 2025 febbraio
Realizzata da Gianni Saporetti
Realizzata da Gianni Saporetti
Ernesto Galli della Loggia, storico, è editorialista del “Corriere della Sera”. Il suo ultimo libro è Una capitale per l’Italia. Per un racconto della Roma fascista (Il Mulino, 2024).
Se hai visto un po’ la rivista...
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In ultima: una citazione di Ali Abu Awad
Una Città n° 312 / 2025 luglio-agosto
“Dopo sei mesi dalla morte di mio fratello
arrivò una telefonata. Era di un israeliano,
un ebreo, che mi raccontava di come suo
figlio fosse stato preso e ucciso da Hamas. Aggiunse che voleva incontrarmi e parlare con me ...
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Fame, sete e pallottole
Una Città n° 312 / 2025 luglio-agosto
All’inizio di maggio 2025, il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato il piano “Carri di Gedeone”, con l’obiettivo di “conquistare” la Striscia di Gaza, “stabilirvisi”, eliminare Hamas, liberare gli o...
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