Sameeha Hureini, giovane palestinese, è impegnata nel movimento nonviolento Youth Of Sumud (Gioventù della Perseveranza), vive ad At-Tucani nell’area di Masafer Yatta, in Cisgiordania.

Sono una giovane attivista del villaggio di At-Tuwani. Vengo da una famiglia che ha una lunga storia di lotta nonviolenta. Tutti i miei familiari sono militanti, a partire da mia nonna e poi mio padre, i miei fratelli, mia madre e mia sorella. Abbiamo sempre creduto e ci siamo impegnati in questa forma di resistenza.
Il nostro villaggio si trova nell’area meridionale della Cisgiordania, ci vivono circa 400-500 persone; è la porta d’accesso a Masafer Yatta. L’area si espande sui confini della Linea verde del ’48. Le persone sono sparse in piccoli agglomerati, molte sono costrette ad abitare in delle grotte a causa dell’oppressione del controllo israeliano che non permette loro di avere il permesso di costruire una casa normale. Il mio villaggio ha un piano regolatore di circa trenta dunum, cioè tre ettari. Questo significa che all’interno ci è permesso avere abitazioni e alcune infrastrutture. Abbiamo ottenuto questo dopo una lunga battaglia, durata oltre dieci anni, con i tribunali israeliani, e grazie a un forte sostegno internazionale. Qui almeno abbiamo delle case, l’acqua, l’elettricità. Ma nel resto dei villaggi, più di trenta comunità, la gente vive in condizioni precarie a causa dell’occupazione israeliana. 
I coloni che vivono vicini ai villaggi palestinesi affermano che noi non abbiamo il diritto di stare qui; prendono di mira le persone giorno e notte.
È così da molti, molti anni. Io sono cresciuta assistendo agli interventi dei soldati volti a “ripulire” etnicamente la zona di Masafer Yatta.
Nel 2004 e anche nel 2006, hanno cercato di costruire un muro di apartheid all’ingresso del nostro villaggio. In questo modo volevano separare quest’area dalle altre zone della Cisgiordania e dalla città di Yatta. La gente ha fatto molte manifestazioni e grazie al sostegno internazionale è riuscita a far spostare il muro dell’apartheid. Ma le minacce di pulizia etnica continuano. Dopo il 7 ottobre, gli attacchi si sono fatti più intensi. È una situazione davvero critica quella che stiamo vivendo. D’altra parte noi non abbiamo altra scelta…
Puoi raccontarci come si svolge la vostra vita quotidiana?
È una routine un po’ spaventosa perché viviamo molto vicini agli insediamenti. I coloni sono sempre qui in giro e le minacce sono quotidiane. Gli internazionali accompagnano i bambini, perché per raggiungere la scuola devono attraversare le colonie. Qui i bambini si svegliano presto al mattino e attraversano gli insediamenti dove ci sono questi coloni estremisti e al pomeriggio rifanno lo stesso percorso. Oramai ci sono colonie accanto a ogni villaggio. Poi c’è il problema dei contadini e dei pastori che devono poter accedere alla loro terra per coltivarla e prendersi cura del loro gregge. In questi villaggi non ci sono altre occupazioni. Per fare altro, bisogna trasferirsi in città. Purtroppo proprio la terra è ciò che ci viene tolto: ci sono continue confische per via dell’espansione degli insediamenti a cui assistiamo giorno dopo giorno. La sfida, ogni mattina, è quella di riuscire a raggiungere il campo. Gli internazionali si occupano anche di accompagnare i contadini e i pastori affinché possano svolgere le loro attività quotidiane.
Bisognerebbe che la gente sapesse cosa sta succedendo qui.
Per fortuna nel nostro villaggio siamo riusciti a costruire una scuola internamente, ma i bambini dei villaggi circostanti devono venire fino a qui. Io ho potuto studiare vicino a casa. Tanti miei compagni di classe non erano così fortunati. Li vedevo quando arrivavano in inverno affrontando il freddo e d’estate sotto il sole. Vedevo quant’era duro per loro. Il desiderio di studiare qui è molto forte; servono molto coraggio e tanti sacrifici. 
Purtroppo, da quando è scoppiata la guerra, le scuole sono state chiuse per mesi. La situazione era folle: sparavano e attaccavano ovunque. Questi bambini hanno già perso un anno di scuola. Questa è la nostra vita quotidiana.
Il comportamento dei soldati è cambiato nel corso del tempo? Sembra che ci sia stato un avvicinamento tra esercito e coloni...
Non è cambiato poi molto. Certo, oggi capita che i coloni indossino la divisa e vadano ad attaccare la gente, sparando come se fossero parte dell’esercito o comunque sotto la protezione dei soldati.
Comunque noi è da quando siamo bambini che assistiamo a incursioni notturne, diurne, agli arresti. Forse ora la gente inizia a capire cosa abbiamo vissuto negli ultimi settant’anni, cos’è l’occupazione israeliana e come questa gente si comporta con quelli che sono dei semplici civili, dei contadini.
Io stessa ho visto i coloni, ma anche i soldati, attaccare mia nonna, aggredire mio padre, arrestarlo, sparare ai miei fratelli, fare irruzione nella casa della mia famiglia, bruciare i nostri campi, portarci via la terra, abbattere i nostri alberi.
L’hanno fatto per anni. Dopo il 7 ottobre, la guerra è stata usata come alibi per dare legittimità a queste azioni compiute sotto gli occhi della comunità internazionale.
Purtroppo il popolo palestinese non ha alcuna protezione da ciò che queste persone stanno facendo. Francamente non so cosa pensare, perché non credo che la comunità internazionale, il mondo in generale, abbia bisogno di qualcosa di più di quello che sta accadendo a Gaza per muoversi. E tuttavia ancora non si muovono. Questo permette ai coloni e agli estremisti di continuare ad agire come se i palestinesi non avessero il diritto di esistere. Che vuol dire aggredire, uccidere.
Noi ogni giorno documentiamo quello che succede sui nostri social: mostriamo come i coloni si comportano con le nostre famiglie, con le donne, con i bambini.
Non possiamo paragonare quello che stiamo vivendo a quello che sta accadendo a Gaza perché là è già un genocidio. Anche in Cisgiordania però uccidono persone, demoliscono case, bombardano… ogni giorno.
Quindi, per rispondere alla tua domanda, non è una novità per noi vedere i coloni prendere un’arma e mettersi a sparare alla gente. È da quando siamo bambini che lo vediamo.
Ripeto, forse ora la comunità internazionale inizia a rendersene conto. Speriamo che questo possa fare la differenza e fermare tutto questo.
Il vostro è un movimento di resistenza nonviolenta. Usate i video e la mobilitazione per combattere...
Crediamo nella resistenza nonviolenta. Non vogliamo più violenza nelle nostre vite.
Certo non è una scelta facile se dall’altra parte subisci una violenza quotidiana contro di te, la tua famiglia, la tua gente. La realtà è che viviamo sotto questa autorità, viviamo sotto questa occupazione, capisci? Un giovane che vuole semplicemente avere un pezzo di terra dove poter vivere in pace, dignità e sicurezza, cosa può fare? Ammazzano le persone per il solo fatto di essere qui, parlo di civili… Sono cresciuta in una famiglia che crede e si impegna nella resistenza nonviolenta per difendere questo villaggio.
Abbiamo bisogno che la comunità internazionale veda la verità. Le nostre armi sono le nostre macchine fotografiche; andiamo sul campo a documentare la verità affinché la gente sappia. Fare questo è in nostro potere. Svolgiamo poi diverse attività per sostenere il popolo palestinese e per resistere a questa occupazione.
Noi non ci arrendiamo, andremo avanti fino alla fine. Non abbiamo scelta, dobbiamo credere nella pace. Dobbiamo credere che un giorno il mondo vedrà ciò che sta accadendo in Palestina e reagirà.
Noi cerchiamo di dar voce alla sofferenza che la nostra gente sta affrontando in questo momento a Masafer Yatta e in generale in Cisgiordania.
Qual è la situazione per una giovane donna?
Sono orgogliosa di quello che faccio. Come donna, cerco di sostenere e incoraggiare le altre donne nella comunità. Oggi le donne sono in prima linea nella resistenza nonviolenta: operano dovunque si trovino, a casa, nei campi, a scuola… A ispirarmi è stata la figura di mia nonna, che è morta circa tre anni fa. Aveva 96 anni ed era l’icona di questa nostra lotta. Ha vissuto l’evoluzione dell’occupazione e ha attraversato tutte le guerre, la Nakba, la pulizia etnica e infine l’apartheid. Ci raccontava la storia della sua vita e di come ha resistito a tutto questo.
Nel mio piccolo, spero di poter portare avanti il suo esempio, anche per le nuove generazioni.
Perché quello in corso è il tentativo di cancellare l’identità palestinese. Quindi la nostra missione è anche di non dimenticare ciò che hanno passato i nostri vecchi, le loro battaglie, per trasmetterlo ai più giovani, nella speranza che un giorno l’occupazione si fermerà…
Qual è il rapporto tra uomini e donne e tra generazioni nella comunità?
Ci sosteniamo a vicenda, perché solo così riusciamo a resistere e a proteggere la nostra comunità. La comunità riconosce chi si impegna. Viviamo in una situazione e in una condizione molto difficile. Come donna, come attivista, mi sento rispettata.
Puoi raccontarci della lezione che vi ha lasciato tua nonna?
Come dicevo, lei era l’icona della resistenza nonviolenta ed è grazie a lei che ogni membro della mia famiglia è oggi un attivista nonviolento. Ha lottato fino alla fine e con il suo coraggio ha influenzato tutti coloro che l’hanno ascoltata, non solo la nostra famiglia. Pur essendo una donna molto anziana, non ha mai smesso di resistere ai coloni per proteggere la sua famiglia, la sua terra  e i suoi animali. È sempre stata in prima linea. Quando era più giovane, nel corso delle manifestazioni, proteggeva in tutti i modi, anche con il suo corpo, i più deboli. Una volta che i figli e i nipoti sono cresciuti, non ha mai smesso di sostenerci, non solo me, i miei fratelli e cugini, ma anche gli altri giovani della comunità affinché continuassimo a lottare per i nostri diritti. Non si stancava di ripeterci che abbiamo il diritto di stare qui, che abbiamo il potere di resistere, di lottare per preservare la nostra terra. Nel corso dei vari attacchi dei coloni, è stata più volte ferita. Quando mio padre era ancora piccolo, ha perso un occhio proprio cercando di impedire che lo arrestassero. Alla sua morte aveva chiesto di essere sepolta nella sua terra, ma mio padre ha ricevuto un ordine di demolizione addirittura per la sua tomba. Riuscite a capire? Come a dire che noi palestinesi non abbiamo il diritto nemmeno di morire, in Palestina. Questo gesto assurdo ci ha fatto capire quanto lei fosse stata potente, anche se la sua è sempre stata una resistenza nonviolenta.
Noi nipoti abbiamo quindi ricevuto questa grande responsabilità: è arrivato il nostro turno di portare avanti questa missione e di far conoscere la sua battaglia e i suoi principi, soprattutto ai più giovani che devono trovare la forza di non arrendersi e di andare avanti.
Noi la ricorderemo sempre e spero sia orgogliosa di quello che stiamo facendo.
Qual è il ruolo degli internazionali e degli israeliani che vengono a Masafer Yatta a manifestare assieme a voi?
Il sostegno internazionale fa parte della nostra resistenza: quello che vedono e poi riportano le persone che vengono qui rappresenta uno strumento importante per far sapere quello che sta accadendo qui. Devo dire che se, prima della guerra, vigeva una sorta di protezione, di trattamento diverso riservato a loro, nel senso che era difficile che venissero attaccati mentre erano in giro con le loro telecamere -non si voleva che le aggressioni venissero riprese- ecco, dopo l’inizio della guerra, sembra che non ci sia più questa preoccupazione: gli internazionali vengono aggrediti come gli altri, anche se stanno facendo riprese. Questo per noi è un motivo in più per apprezzare ed essere grati verso queste persone che lasciano temporaneamente la loro casa e il loro paese per venire a vivere accanto a noi e alle nostre famiglie nelle tende e nelle grotte, per documentare la nostra vita quotidiana e la nostra lotta contro l’occupazione, attraverso video e registrazioni vocali.
Vengono qui anche molti israeliani contrari all’occupazione, che vogliono aiutare il popolo palestinese che vive in queste zone sottoposte al totale controllo dell’autorità israeliana e alle aggressioni degli estremisti.
Questi ebrei israeliani vengono aggrediti più ferocemente degli altri perché i coloni li odiano. Anche noi palestinesi siamo odiati, ma la cattiveria che esprimono i coloni nei confronti di questi israeliani è più forte: non sopportano che stiano dalla nostra parte.
Gli amici israeliani cercano di spiegare loro che noi siamo dalla parte giusta e che non è giusto che questi villaggi siano sottoposti ad attacchi, le case bruciate, ecc. La loro posizione non è facile.
Dall’esterno è difficile immaginare come sia possibile non perdere la speranza.
Capisco quello che stai cercando di dirmi. Posso dirti che noi non ci arrenderemo mai perché questa è la nostra vita. Non si tratta di materie scolastiche o astratte: questa è la storia che stiamo vivendo; dobbiamo essere forti abbastanza per continuare a fare quello che facciamo.
Circa un mese fa è stato emanato un ordine di evacuazione per un intero villaggio palestinese. Due settimane dopo hanno demolito tutte le case, che poi, come dicevo, più che di case, parliamo di grotte e spazi che la gente in qualche modo sistema perché non ha altro posto dove stare. Hanno distrutto tutto, portato via le cose delle persone e chiuso le grotte.
Questa è una delle forme di pulizia etnica a cui stiamo assistendo in questo momento a Masafer Yatta. Siccome l’attenzione sta calando, approfittano dell’occasione per “ripulire” etnicamente questa area. 
Noi, i miei fratelli e i loro amici, siamo andati a sostenere queste famiglie che si sono trovate a trascorrere le giornate e la notte senza alcun riparo. Qui d’estate fa molto caldo, quindi è stato un momento molto difficile per i bambini e le donne che non volevano o non potevano lasciare il loro villaggio. Avevano montato delle tende per non rimanere esposti, ma hanno confiscato anche quelle.
È un villaggio a circa mezz’ora, quaranta minuti di macchina da qui e la strada è molto accidentata e pericolosa. Mio fratello è stato arrestato due volte in questo villaggio e anche mio padre proprio due giorni fa è stato arrestato mentre portava aiuti umanitari e cibo a queste famiglie. I soldati non vogliono che si intervenga e così hanno confiscato l’auto di mio padre per un mese e gli hanno imposto di pagare una multa molto salata.
Quando hanno rilasciato mio padre, lo hanno seguito, sono entrati in casa nostra intimandoci di uscire perché questa è un’area militare.
Siccome sanno che questa è una casa di attivisti cercano sempre un appiglio per formulare un’accusa e procedere all’arresto. Noi abbiamo detto loro: “Stiamo solo aiutando delle persone, portando del cibo, dell’acqua e del latte per i loro bambini, perché ci state trattando come fossimo terroristi?”. Hanno risposto: “Sì, siete terroristi, vi abbiamo detto di non andare in questo villaggio e di non portare cibo o internazionali...”.  Non c’è stato niente da fare. Hanno ribadito che avrebbero arrestato chi si fosse recato là, anche solo per portare aiuto umanitario.
Questo è quello che stiamo vivendo oggi.
La vostra rimane una comunità molto unita e solidale...
Infatti, nonostante tutto quello che ho raccontato, sono profondamente felice e orgogliosa di far parte di questa comunità. Di essere accanto a persone che, con forza e coraggio, hanno resistito per tutti questi anni. Uomini e donne che si mobilitano, si aiutano, che non lasciano indietro nessuno. È anche grazie a questo mutuo sostegno che troviamo l’energia per andare avanti, giorno dopo giorno. Nella speranza che, aiutandoci a vicenda, riusciremo a realizzare qualcosa che oggi sembra impossibile. Inshallah, che il futuro, presto, ci possa sorprendere.
(a cura di Barbara Bertoncin)