Nel suo ultimo libro si parla della predilezione italiana per un sapore, l’amaro. Ma si può fare la storia di un gusto? Per tradizione il gusto è soggettivo: qui addirittura si discute sui gusti di un popolo.
Dal punto di vista fisiologico non c’è dubbio: il gusto è assolutamente individuale. Io sento qualcosa, tu senti qualcosa. Ognuno di noi ha le sue declinazioni personali e il gusto rimane un’esperienza chiusa in noi stessi. Ma questa esperienza legata al senso ha poi un punto di rielaborazione culturale, che è il cervello. Anche i fisiologi ce lo dicono, non è l’elucubrazione di uno storico: il senso del gusto, in realtà, è proprio il cervello, che rielabora e interpreta i segnali che riceve. E qui non siamo più nel campo della fisiologia, ma in quello della cultura, che è un campo collettivo. Cultura è tutto ciò che si apprende, che si sceglie, che non è geneticamente determinato. Per questa ragione le culture sono diverse nel tempo e nello spazio; per questa ragione uno storico può fare la storia del gusto. Il primo studioso che ha parlato del gusto in senso storico è stato Jean-Louis Flandrin, il primo fra gli storici dell’alimentazione a usare il parametro culturale di approccio al gusto. Questa è la risposta più neutra che le posso dare.
Per riconoscere certi gusti e certe predilezioni come tipiche di un’epoca o di un’altra, di una cultura o di un’altra, deve scattare la ricerca. Una ricerca storica che si fa sui documenti e seguendo certe piste. In questo caso, come ho scritto nelle prime righe del saggio, l’idea è nata grazie alla lettura di un libro, intitolato L’amer, scritto da un giornalista francese, Emmanuel Giraud, che parla della cucina italiana e dell’importanza tutta italiana del gusto amaro. Interessante è constatare che le caratteristiche definite come identitarie, che individuano persone, gruppi o culture, si vedono meglio da fuori. Chi ne è immerso, le fa o le subisce senza rendersene conto; invece sono più facilmente recepite dall’esterno. Questa idea di una predilezione italiana per il gusto amaro mi ha incuriosito: così ne ho fatto l’oggetto di una ricerca che ho sviluppato secondo temi e filoni che ultimamente ho frequentato parecchio.
In questo caso Giraud è stato il nostro etnografo. Lei individua tre nuclei fondamentali per spiegare questa predilezione italiana per l’amaro: l’importanza della verdura, l’importanza del crudo e la frequenza dello scambio fra cultura alimentare contadina e cultura alimentare “alta”. Partiamo da quest’ultimo: lei sostiene che questo scambio sia un’anomalia della cucina italiana. In che senso? La tradizione contadina è talmente forte che un autore italiano del Settecento ha addirittura inventato un termine preciso per definirla: “alimurgìa”. Che cosa significa?
Sì, “alimurgìa” è un termine settecentesco inventato da Giovanni Targioni Tozzetti per denotare quella scienza contadina di alimentarsi di piante selvatiche in condizioni di urgenza, ed è appunto una crasi fra “alimentazione” e “urgenza”. Il problema era quello di come combattere la fame in tempi di carestia. Diciamo prima il come, premettendo che non conosco tutte le culture del mondo, ovviamente. Diciamo che, anche parlando con altri colleghi, mi sono fatto l’idea che la predilezione per l’amaro sia un fenomeno tipicamente, anche se non solamente, italiano.
Storicamente, nel modo in cui si è costruita la cucina italiana nel tempo, è avvenuto un assorbimento da parte dell’alta cucina dei valori tipici della cultura popolare. Fenomeno che individuo soprattutto nell’importanza di due elementi: la pasta e le verdure. Ovviamente gli italiani hanno sempre mangiato anche carne e pesce... ma questo non è caratteristico della cucina italiana, nel senso che non la differenzia dalle altre culture culinarie.
Nel momento in cui uno si affaccia alla cucina italiana e legge i ricettari storici, le prime cose in cui si im ...[continua]
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