Partiamo dalle teorie classiche della risata: che cosa pensavamo -o presumevano di sapere- sulla risata, fino ad oggi? E perché, come sostenete nel libro, sarebbe meglio abbandonare queste teorie?
Elisabetta Palagi. Da sempre l’uomo ha dato per scontati due presupposti che in un qualche modo si implicano a vicenda: che la risata sia presente solo nell’uomo e che sia sostanzialmente legata allo humor. Lo humor, come lo intendiamo di solito, è un aspetto culturale umano. Ci sono tante teorie che cercano di spiegare che cosa ci fa ridere e perché. Ma se leggiamo la risata soltanto attraverso questa lente, allora ciò si porta dietro il fatto che il riso, in quanto fenomeno culturale, si possa attribuire soltanto all’animale uomo. Questi presupposti sono sbagliati. E il primo motivo è che le risate, siano esse vocalizzate o meno, nonché le espressioni facciali omologhe al sorriso umano, sono presenti anche nelle grandi scimmie antropomorfe. È un dato di fatto, che già Charles Darwin aveva notato nel suo saggio del 1872 L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali.
Le prime osservazioni sistematiche e standardizzate sui primati sono state realizzate negli anni Settanta, e da lì è nato un filone di ricerca che ha preso a cuore questo aspetto. Gli etologi hanno iniziato a usare strumenti avanzati, come il Facial Action Coding System [Sistema di codifica delle espressioni facciali, N.d.R.] che prima esisteva soltanto per l’uomo, applicandolo però su altre specie: in quel modo si sono potuti studiare quantitativamente i distretti anatomici preposti alla creazione delle espressioni facciali, ovvero la contrazione dei singoli muscoli (o insiemi di muscoli) che concorrono a modificare parti della faccia per costruire un’espressione.
C’è voluta molta pazienza, migliaia e migliaia di ore di osservazione sul campo; perché la risata, negli animali, è un comportamento particolare, diverso dal mangiare, dallo spostarsi, dal dormire o dal grooming dei primati [il comportamento della pulizia del mantello o della pelle esibito da molti mammiferi, N.d.R.]: la si trova sostanzialmente in un contesto ludico, non si può indurre. Dunque occorre aspettare che gli animali, soprattutto quelli più giovani, giochino tra loro per osservarla scientificamente.
Nel vostro libro usate un approccio interdisciplinare molto interessante, che intreccia studi etologici e neuroscientifici. Che cosa ci possono dire le neuroscienze sul riso?
Fausto Caruana. Da lungo tempo la neurologia clinica si è interessata al fenomeno del riso, perché è un tratto distintivo di una lunga serie di disastri neurologici. Forse il caso più famoso per il grande pubblico è quello che Joaquin Phoenix ha studiato per interpretare il personaggio del Joker, che nella letteratura clinica si chiama “sindrome di riso e pianto patologico”: lesioni cerebrali possono indurre esattamente quel tipo di riso lì, totalmente meccanico, incontrollabile e privo di un’aspetto emozionale. La cosa curiosa, tuttavia, è che le neuroscienze vere e proprie, quelle teoriche e non cliniche, hanno detto molto poco sul riso, per una serie di problemi strutturali. Lo studio scientifico della risata è molto difficile da mettere in piedi in un laboratorio. Come dice Robert Provine, neuroscienziato statunitense, “il riso è quel comportamento che scompare quando si mette un individuo sotto scrutinio in laboratorio”. Inoltre, l’eredità di quella tradizione filosofica classica che ha legato il riso allo humor ha creato vari disastri anche nelle neuroscienze cognitive: se guardiamo i titoli degli articoli pubblicati fino a poco tempo fa, ricorre spesso il termine humor. Di conseguenza, si sono studiate soprattutto le aree più intelligenti e avanzate del cervello: la corteccia frontale, le aree del linguaggio e del tronco dell’encefalo. Aree che si adattavano abbastanza ...[continua]
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