In Italia le “botteghe del mondo” stanno per festeggiare i primi dieci anni di vita. I risultati raggiunti vi soddisfano o la crescita è stata troppo lenta?
Credo che il bilancio di questi dieci anni sia estremamente positivo. L’Italia è stato uno degli ultimi paesi in Europa a muoversi, ma siamo divenuti in poco tempo una struttura economica visibile, radicata, stabile. Uso questi tre termini per dire che il commercio equo e solidale, anche in Italia, non è più una testimonianza di un gruppo di bravi ragazzi. La centrale Ctm fattura da sola circa 18 miliardi. Se aggiungiamo il fatturato delle botteghe e quelli degli altri importatori, si arriva a una cifra complessiva stimabile in trenta miliardi. Mi sembra un dato significativo, anche in termini strettamente economici. E poi c’è la diffusione sul territorio.
Il commercio equo e solidale conta in Italia almeno 250 punti vendita, che vanno dai grandi negozi al piccolo spaccio. Ormai abbiamo centinaia di migliaia di consumatori legati alle nostre botteghe, e rapporti con le istituzioni e il resto dell’economia sociale ben strutturati. Insomma, credo che rappresentiamo una presenza stabile.
Eppure resta la sensazione che le botteghe stentino a sfondare, anche localmente. Sembrano spesso una presenza silenziosa, con una clientela abituale e una scarsa propensione a guadagnare nuovo pubblico...
Il commercio equo e solidale è un commercio politico, che vende prodotti e informazione. Questo è il nostro slogan ma anche la nostra principale caratteristica. Indubbiamente ciò può rappresentare un limite in un’ottica puramente economica. Ma la nostra esistenza è e resta molto legata al volontariato, alla spinta ideale di chi lavora con noi. Se si intende questa peculiarità eslusivamente come un handicap, si rischia di stravolgere la nostra identità. Detto questo, tutti noi ci muoviamo nell’ottica di migliorare, a piccoli passi, il nostro “lavoro commerciale”. E’ una richiesta che ci viene anche dai produttori del Sud del mondo. Loro vorrebbero maggior efficacia, non solo rispetto agli obiettivi generali, ma anche rispetto al fatturato. Ci chiedono di non rinunciare alla dimensione politica, ma di coniugarla con un maggiore pragmatismo. E’ una sfida importante, che ci deve spingere a portare il dibattito all’esterno, senza chiuderci per anni a discutere fra noi, alla ricerca dell’unanimità sulle questioni più controverse.
In che modo si può uscire dalle quattro mura delle botteghe?
Noi di Ctm ci siamo posti un nuovo obiettivo primario: il coinvolgimento del consumatore. In primo luogo vogliamo davvero uscire dalla nostra nicchia, e poi siamo convinti che il commercio equo e solidale non possa crescere se non si diffonde una diversa cultura del consumo. Questo significa che vogliamo spingere le nostre botteghe ad avere un rapporto più attivo, sia commerciale che culturale, con i consumatori. Ci stiamo muovendo su più fronti. Uno è la produzione di materiali informativi, ormai molto cospicui.
In questi materiali cerchiamo di rimarcare, non tanto la filosofia e i principi generali, ma ciò che si fa: i rapporti coi produttori, i progetti, le strategie di alleanza col Sud del mondo e le altre centrali europee. Insomma, cerchiamo di concentrarci sulla parte non visibile del nostro commercio.
Vogliamo stimolare l’attenzione critica al consumo, far capire che il commercio equo e solidale è un canale economico alternativo, più che un insieme di “buone azioni”. In secondo luogo pubblichiamo una rivista, Altreconomie, con Cric e Ctm-Mag, che sta avendo un impatto positivo: abbiamo 2700 abbonamenti. Un terzo terreno di attività è la promozione di iniziative culturali sul territorio. Per esempio, cerchiamo di portare in Italia dei produttori dai quali ci riforniamo e di organizzare incontri pubblici con loro. Sono appuntamenti di grande importanza, perché mostrano l’altra parte del nostro commercio, quella che si svolge nel Sud del mondo, e perché consentono di avere un riscontro concreto del lavoro che facciamo. Poi ci sono le iniziative spontanee delle botteghe, che si misurano col proprio territorio, con le proprie risorse umane: si va dai convegni, agli incontri nelle scuole ...[continua]
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