L’immagine della "patria portatile" affascina moltissimo, però tu, fra diaspora e sionismo, proponi una terza via...
Quella della patria portatile è un’immagine immediata nella storia dell’esodo: gli ebrei vaganti si portano dietro l’Arca santa con dentro le tavole della legge. Ed è prescritto che questa specie di padiglione, che è un antefatto del tempio, sia portatile anche quando viene insediata nel recesso più intimo del tempio, il Santo dei Santi, che quelle stanghe, cioè, che la rendono simile a una portantina, non siano mai tolte. Poi nella storia la dispersione ebraica si è portata dietro la Torah come punto di riferimento, come una specie di territorio psicosomatico.
Però, secondo me, il senso fondamentale dell’ebraismo non sta nella patria portatile e neanche in quella stabile, bensì nell’oscillazione tra le due. Attenzione però: questo senso lo si ritrova indipendentemente dall’aspirazione dichiarata, perché insieme all’obiettivo che uno professa come proprio c’è sempre anche un messaggio, magari neanche esplicito e cosciente, che si promana. Gli ebrei dicono: "Noi vogliamo andare nella terra promessa", poi in realtà l’ebraismo promana un’altra cosa; così capita a ciascuno di noi quando dichiariamo con forza delle intenzioni e poi, invece, a colpi di subconscio, inconscio, avvenimenti e casualità, esprimiamo un’altra cosa rispetto all’obiettivo delineato. E capita che, sottovalutando il messaggio rispetto alle intenzioni, e all’aspetto pubblicitario che comportano, si perda di vista lo spessore culturale, antropologico di una cultura. Allora, secondo me, se la tensione dell’ebraismo, la sua dichiarazione di intenti, è sempre quella di stabilizzarsi, il suo messaggio, in realtà, è quello dell’oscillazione tra esilio e insediamento.
Già il fatto che l’instaurazione dello stato di Israele non abbia smaltito la diaspora come era nelle intenzioni del sionismo, conferma, a mio avviso, questo dualismo, ma di questo dualismo si trovano radici antiche e addirittura un riflesso dottrinario. Vediamo, per esempio, il doppio strato delle tre grandi festività ebraiche, che sono Pesakh, la Pasqua, Shavuot, la Pentecoste, Suqqot, le capanne, i tabernacoli. Dal punto di vista delle loro scadenze annuali e, quindi, dal punto di vista del calendario agrario, la Pasqua è la festa delle primizie, la Pentecoste è quella del taglio delle grandi messi estive e le Capanne quella del raccolto invernale delle frutte che vengono messe in queste capanne a pendere.
Tutte e tre le feste, cioè, alludono all’insediamento agrario, che, almeno nelle intenzioni, è ancora più stabile, più forte, di quello urbano. Ma dal punto di vista del ricordo, della loro memoria storica, sono l’apoteosi della diasporicità: Pasqua infatti è la festa dell’Esodo, dell’uscita dall’Egitto, Pentecoste quella del dono della Torah sul Sinai, nel deserto, che con le grandi messi estive con cui la messe spirituale avrebbe pure un’omologia, non c’entra niente perché il tutto avviene nel deserto, nella terra di nessuno; l’altra, infine, la festa delle capanne, ricorda il carattere diasporico del vagare degli antenati nelle capanne e l’immanenza continua della capanna nel tuo stabilizzarti sulla terra. A me questa dualità è sembrata molto suggestiva. Ora, questa dualità -l’insediamento cui si aspira e il senso di soffocamento che lo stesso insediamento ispira- ha la capacità di abbracciare una grande massa di condizioni umane ed è per questo che la Bibbia può parlare a molta gente. Il testo biblico stesso è fatto di documenti dell’insediamento e di documenti dell’esilio, fonti che vengono da dentro e fonti che vengono da fuori; i prototipi, i personaggi cioè, sono essi stessi una rappresentazione di questo andirivieni tra le due condizioni; naturalmente se uno smettesse di desiderare la terra promessa a un certo punto questa oscillazione si estinguerebbe, perché è l’aspirazione stessa a produrre la capacità di questa oscillazione. Per esempio c’è il famoso passo, molto commentato, delle spie che Mosé, prima di entrare nella terra promessa, manda avanti per vedere di che cosa si tratta. Queste ritornano dicendo: "Questa terra divora i suoi abitanti". Sembra che abbiano tutti una gran paura dell’insediamento. Ed è a quel punto che Dio si arrabbia e li mand ...[continua]
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