Alfredo Cometti, genovese, architetto, ha scelto da tempo di lavorare in Africa come cooperatore. Dal 1988 al 1992 dirige il Programma di Formazione per Tecnici in Pianificazione Fisica a Maputo, Mozambico.

Lavorando in Africa si ha l’impressione che quello sia un mondo irrimediabilmente destinato all’estinzione, per cui ogni intervento dall’esterno, anche il meglio intenzionato, non può che accelerare questo processo...
Certo l’omologazione culturale che sta avanzando e che pare inarrestabile è un processo che fa paura. Fa paura perché elimina le diversità e queste sono fondamentali, per lo scambio, per la conoscenza, per lo stimolo alla conoscenza stessa. Però è anche vera la critica, che è stata fatta alla cultura africana quando si poneva in contraddizione con i desideri di modificabilità della storia, che sostiene che non è conservando la tradizione che si può pensare ad una crescita dell’Africa. Questo non fa una piega, perché ogni cultura ha subito traumi, trasformazioni, ha lasciato il proprio patrimonio storico. Per esempio, quando, verso la seconda metà degli anni ’70, in Italia il processo di industralizzazione è diventato talmente generalizzato da fare sparire tutta una serie di oggetti e di cose materiali, sono stati inventati i musei della cultura contadina che trattano di un patrimonio storico ormai perso. Questo processo è qualcosa che fa parte della storia dell’umanità, il problema è della modificabilità dall’interno di determinati processi. Viceversa ciò che è avvenuto in un confronto fra culture così diverse è stata una modificazione forzosa indotta dall’esterno, non generata da bisogni di trasformazione interni alla società. La società africana, poi, è una società statica, per storia e cultura, e questa staticità organica del pensiero africano ha generato dei traumi maggiori che non in altri luoghi, dove ciò che apparteneva ad altre culture veniva assorbito attraverso una manipolazione ed un’integrazione all’interno della propria cultura. Probabilmente la difficoltà della cultura africana sta nella incapacità di manipolare gli input che arrivano dall’esterno e di riciclarli dopo una propria interpretazione. Ciò che a me sembra fortissimo nella cultura africana è questa forma di schizofrenia: da un lato il sentirsi occidentale perché si è “cittadini”, si è abbandonato il villaggio, dall’altro il conservare tutta una serie di ritualità collegabili alla tradizione africana che non si è in grado di comunicare all’occidentale perché si tratta di qualcosa su cui sono state espresse delle condanne. Tutta la dimensione spirituale della cultura africana, per esempio, è qualcosa che difficilmente si riesce a portare alla luce perché è qualcosa che loro, giustamente, pensano essere vista come negativa dai bianchi. Questo non solo perché i bianchi si sono sempre scagliati contro l’aspetto magico della cultura africana, ma anche perché i nuovi capi rivoluzionari africani aprirono campagne violentissime contro questo aspetto della loro cultura, vedendolo come qualcosa di negativo, da cancellare. Invano, perché in Mozambico, dopo 18 anni di governo “socialista”, si stanno recuperando i medici ed i capi tradizionali.
Questo, tuttavia, non muta il fatto che per loro non ci sia né la possibilità di liberarsi dai meccanismi di sviluppo imposti dall’Occidente, né la possibilità di recepirli appieno...
La questione di fondo credo sia che la cultura africana non ha in sé la cultura del mercato perché la loro concezione del mercato si inserisce all’interno di una concezione del tempo che è assolutamente diversa da quella occidentale.
Allora quello che un progetto di cooperazione internazionale può portare è sempre un qualcosa che è dentro alla nostra concezione del vivere e del fare, un fare comunque finalizzato alla riduzione dei tempi necessari a svolgere una certa operazione. Tutto questo è lontano anni luce da quella che è la cultura africana al di fuori dell’Africa islamizzata. Quello che, di fatto, l’Occidente ha preteso, attraverso meccanismi che sono anche quelli della cooperazione internazionale, è stata una scommessa completamente sbagliata perché basata su una previsione di tempi impossibili, non praticabili. C’è stata la speranza di trasformare, in un tempo assolutamente improbabile, in società mercantili delle società che hanno un rifiuto organico di certi meccanismi economici e sociali, che non li accettano. Sulla costruzione dei pozzi da parte della cooperazione, per esempio, sono state sc ...[continua]

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