Lena è serba, Dzenana è mussulmana. Ma sono definizioni che non amano. Sono cittadine di Sarajevo, sono tuttora amiche, e oggi, con i due piccoli figli di Lena, vivono da un’amica comune che sta in Italia da tempo.Ci raccontano come la vita normale possa all’improvviso essere travolta, spezzata senza che si capisca la ragione e sotto gli occhi di tutti. E’ un racconto da un inferno dove si vive eleganti, con la permanente, con la cravatta e si muore in fila per l’acqua o per il pane, o mentre si gioca, o al mercato, intenti a scambiare due sigarette per un po’ di zucchero.

Lena. Quando la granata esplode tutti si precipitano ad aiutare. E’ importante fare presto, portare i feriti all’ospedale in tempo per salvarli. All’inizio della guerra mio marito è stato ferito da una granata e si è salvato perché un taxista l’ha caricato sull’auto e portato subito all’ospedale senza preoccuparsi delle bombe che continuavano a cadere intorno. C’è ancora tanta solidarietà fra la gente, anche se la situazione si è molto deteriorata. Prima della guerra a Sarajevo non esistevano divisioni religiose e c’erano tante famiglie miste. All’inizio dei bombardamenti nessuno capiva, nessuno poteva credere. Eravamo nei rifugi e aspettavamo che tutto finisse da un momento all’altro.
Ci chiedevamo chi poteva sparare sui civili, sui bambini, sulle case e i monumenti. Non capivamo. Non immaginavamo che era l’inizio di due anni di follia, che la maggior parte delle famiglie avrebbe visto morire o rimanere ferito un parente, che sarebbero morti tanti bambini, che tante famiglie si sarebbero divise. Abbiamo resistito un anno credendo che sarebbe finita presto. Tanti pensavano: qualcuno farà qualcosa. Poi piano piano la gente si è chiusa, si è proprio ritirata in se stessa per trovare il modo di sopravvivere, di avere ancora speranza. Le vecchie amicizie sono state messe alla prova e non tutte hanno resistito. Io sono serba e ho sentito che non c’era più la vecchia attenzione, ho sentito che qualcuno aveva paura che io pensassi come quelli che dalle colline facevano a pezzi la città. Tutto il giorno sei in tensione e accumuli tanto odio per i cecchini e per chi spara le granate e non puoi mai sfogarti.

Dzenana. Il deterioramento dei rapporti è cominciato con l’arrivo dei profughi dalle altre zone di guerra della Bosnia. Innanzitutto perché venivano dalle campagne dove non c’era la mescolanza, l’abitudine alla convivenza delle città; e poi perché arrivavano malridotti, dopo aver perso tutto, magari anche i loro famigliari.
La vita a Sarajevo non ha più niente di normale, anche se tutti si sforzano perché non si veda. Nonostante il problema dell’acqua, la gente è sempre pulita, lavata, con gli abiti stirati. Gli uomini che lavorano hanno sempre la camicia e la cravatta, le donne sono eleganti, truccate, con la permanente. Ci sono bar e ristoranti aperti. E’ come una ribellione contro la realtà.
Il lavoro ormai riguarda poche persone: il forno, la posta, il tribunale, la fabbrica di biscotti per i soldati. Non ci sono più materie prime e tutto s’è fermato. Il lavoro nella mia ditta è finito presto. Quelli che hanno lasciato Sarajevo prima del maggio del 92 sono stati licenziati, quelli che sono rimasti in città sono stati messi in aspettativa con lo stipendio ridotto. Una decina hanno continuato ad andare in ufficio con l’unico scopo di vigilare sulle attrezzature e sul mobilio. A Sarajevo arrivavano tantissimi profughi e si sistemavano dove potevano, anche negli uffici. Con l’inverno la gente ha cominciato a cercare legna per scaldarsi e ha bruciato mobili, porte e tutto quello che poteva servire. Dalle case abbandonate s’è preso di tutto, per bruciarlo o per venderlo. Il nostro ufficio s’è salvato grazie a queste persone che hanno continuato ad andarci come se dovessero lavorare. Adesso ho un anno di aspettativa non pagata. Se dovessi tornare riavrò il mio lavoro...

Lena. La vita di ogni giorno è scandita da cose che prima erano normalissime, così normali che le facevi senza accorgertene. La prima è fare rifornimento di acqua. Più di un’ora di fila. E poi ancora e ancora, perché l’acqua non basta mai. E sempre con la paura di un bombardamento. All’inizio della guerra i bombardamenti duravano di più, ma ad un certo momento finivano. La gente stava ore e ore nei rifugi e forse c’erano meno morti. Poi hanno cambiato tattica: non c’è più un vero e proprio bombardamento, ma una bomba in qua e una in là e ogni momento è buono e così la gent ...[continua]

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