Lele Galbiati è responsabile tecnico del Depuratore della zona Nord di Milano.

Da tre anni, qui al depuratore, avete fatto un’esperienza particolare. Puoi raccontarcela?
Intanto bisogna dire che il "Consorzio provinciale depurazione acque del nord di Milano" gestisce direttamente con personale proprio i suoi depuratori. E’ una linea piuttosto rara negli enti pubblici, perché ormai la tendenza generale è quella dell’appalto: la ditta che vince la gara fa funzionare il depuratore. La nostra è una linea di indirizzo -voluta da un presidente che abbiamo da 17 anni, si chiama Gelindo Giannoni, ex Pci oggi Pds-, controcorrente e coraggiosa; bisogna dargliene atto, perché ha rischiato moltissimo.
Con l’entrata in funzione di un nuovo depuratore le cose si complicavano. Ci siamo trovati nella necessità di usare lo stesso personale, perché la legge ci vietava le assunzioni. Noi avevamo gli operai sui 3 impianti, si facevano i turni notturni e, di fatto, non era un lavoro, ma una guardianìa, si controllava il processo depurativo e se c’erano problemi si chiamava una ditta. Loro sulla carta sono operai specializzati, ma nella realtà erano dei guardiani, non avevano specialità specifiche. L’unica possibilità era eliminare il turno notturno, cioè automatizzare, mettere una chiamata notturna con certe persone, sostituendo la guardianìa con un meccanismo semiautomatico e redistribuire su tre depuratori il personale. Ovviamente il lavoro cambiava, si eliminava il turno notturno, ma aumentava molto la responsabilità manutentiva diretta dei nostri operai. Loro non avevano mai fatto certe cose.
Da più di 10 anni lavoravo in questo settore come tecnico e sono stato incaricato di occuparmi della questione gestionale, manutentiva e anche della conduzione del personale e degli operai che devono fare una serie di lavori quotidiani sui macchinari. Come fare? Si trattava di mettere in moto una nuova realtà. Nuovo ambiente di lavoro, partenza da zero, però con personale già dipendente da questo ente, cioè dipendenti pubblici assunti con concorsi pubblici, con un meccanismo non ottimale dal punto di vista della selezione. Anch’io ho fatto parte di commissioni. Tu chiacchieri con delle persone, poi ne assumi qualcuna e vai un po’ a fortuna, non si ha la possibilità di prendere uno e vedere magari cosa sa fare. Avevo quindi del personale in realtà non specializzato, da prendere e inserirlo in una nuova realtà e rimotivarlo. E tieni anche presente che il nostro contratto non ti permette di dire: “a te dò 100 lire in più, se dai di più”. Io posso dire che Tizio dà tanto, Caio dà poco, però a fine mese a tutti e due noi diamo 100 lire. E’ spiacevole dirlo, ma nell’ente pubblico se i lavoratori lavorano o non lavorano non cambia niente.
Quando tu hai vinto un concorso e hai superato i 6 mesi di prova, sei di ruolo e devi ammazzare qualcuno per essere licenziato.
Dico una banalità, ma se tu dici a uno: “cambia quella lampadina”, quello può risponderti: “non sono capace, non è compito mio, meglio chiamare una ditta”.
Io, poi, sul lavoro, mi trovavo per la prima volta ad avere a che fare con altri, così mi sono un po’ documentato. Ho usato La condizione operaia di Simone Weil, che, oltre ad essere stata una lettura interessante, mi è servita moltissimo per rapportarmi con le altre persone ed avere delle idee.
Puoi farci un esempio?
Vi leggo un brano che mi è stato utilissimo: “ogni operaio deve conoscere il funzionamento dell’insieme della fabbrica, un’organizzazione che consenta una certa autonomia dei reparti rispetto all’insieme, e di ogni operaio rispetto al proprio reparto; conoscere il programma del lavoro futuro per poter intervenire propositivamente nel modo in cui deve essere svolto il lavoro, in questo modo egli proverà quel senso di proprietà, quell’appropriazione, del quale ha sete il cuore dell’uomo e che abolisce il disgusto”. E’ una nuova dimensione del lavoro: non dobbiamo lavorare solo per lo stipendio o perché siamo obbligati, ma perché il lavoro è espressione umana. Per giungere a questo è necessario che ogni lavoratore faccia una parte che sente sua, che le cose che ha fatto siano sue, le riconosca, che gli diano un senso di proprietà nel mondo del lavoro.
Noi tecnici siamo in una situazione di alta responsabilità e spetta innanzitutto a noi provare questa scommessa. Io mi sono sentito di farlo e come prima cosa ho cancellato da me ogni pregiudizio nei confronti di quegli operai che erano privi di ...[continua]

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