Ci puoi parlare del tuo lavoro e dei risultati che hai ottenuto?
La cosa immediatamente verificabile, che conosco meglio di altri perché è uno dei settori di cui mi occupo, è la priorità data alla spesa sociale. Noi abbiamo quasi raddoppiato la spesa per gli interventi sociali in questi due anni: ammontava a circa 30 miliardi, o poco più, di previsione per il ’94, quando ci siamo insediati alla fine del ’93; adesso ammonta ad oltre 60 miliardi, ossia più del 10% del nostro bilancio, rispetto a una media nazionale che è del 6-8%. Questo ci ha permesso di avviare una serie di interventi in settori finora completamente scoperti: siamo tra i pochissimi comuni che hanno attrezzato due grandi campi di accoglienza per nomadi e sfollati dalla ex-Jugoslavia e abbiamo avviato un’azione con le prostitute, non limitato alla sola prevenzione dell’Aids, utilizzando operatori di strada. In pratica, ci sono operatori che vanno in strada, insieme a mediatori culturali di madrelingua e a prostitute o ex-prostitute che collaborano con noi, sotto la supervisione del gruppo di Carla Corso, del gruppo Abele di don Ciotti e di un gruppo che lavora per conto della Comunità Europea, coordinato da una sociologa veneziana che vive da anni ad Amsterdam.
Questo progetto ci consente di aprire vie d’accesso ai servizi, favorisce un controllo igienico-sanitario e soprattutto orienta i comportamenti; e questo è fondamentale, perché se lasci che le prostitute si insedino di fronte alle case farai scoppiare il conflitto: insomma, le ronde, i comitati anti-prostitute, ecc. Se invece hai un rapporto credibile di dialogo, puoi anche discutere con loro affinché si spostino dove non diano fastidio né siano disturbate. Questo è un lavoro abbastanza delicato. Spesso ci scontriamo con i loro sfruttatori, perché cerchiamo di offrire vie d’uscita a quelle che vogliono smettere, e lo facciamo di concerto con la polizia, perché le ragazze che hanno smesso, -alcune non erano d’accordo o erano in mano al “fidanzato”- stavano dentro un racket. Sono loro, in particolare, che hanno dato un buon contributo allo smantellamento di diverse reti di sfruttamento, per cui nel periodo più caldo sono sorvegliate dalla polizia, mentre noi le aiutiamo fornendo loro servizi di sostegno. E’ un lavoro ad ampio raggio che coinvolge ragazze dell’Est Europa, albanesi, africane e brasiliane. Si tratta di prostituzione classica, mentre il fenomeno dei viados è quasi sconosciuto.
Avete fatto dei corsi per gli operatori di strada?
Ci sono corsi speciali, triennali, istituiti dalla Regione.
Alcune di queste cose sono il frutto di iniziative che alcuni di noi avevano avviato dall’opposizione come lavoro di base e volontariato negli anni ’80, e che ora hanno dato vita al primo progetto sperimentale di operatori di strada, assunti facendo legittimare, in assenza di corsi professionali, l’esperienza pregressa. Sull’onda di questo, qualche anno fa sono stati attivati dei corsi, solo che, quasi ovunque, i comuni hanno uno o due operatori, più spesso sono le Usl ad averne assunti di più, ma non c’è nessun comune che abbia 20 operatori che lavorano sulla strada.
Non è rischioso trasformare un impegno volontario in un impiego comunale?
Il rischio c’è, ovviamente, però è anche vero che non puoi affidarti solo al volontariato: se vuoi giocarti in situazioni rischiose, difficili, devi giocarti come istituzione e questo implica la presenza di figure preparate. E le figure preparate le hai quando le professionalizzi e quando crei un buon clima di lavoro offrendo dei consulenti, dei supervisori del loro lavoro, dei corsi di aggiornamento, insomma devi creare le condizioni o gli strumenti che li mettano in grado di reggere quel tipo di stress. Noi abbiamo educatori che lavorano con i ragazzi a rischio, con i tossicodipendenti, con le prostitute, con gli immigrati - che qua sono in gran parte disoccupati, perché questa è una delle zone del Veneto in cui non c’è la piena occupazione, anzi c’è disoccupazione. Qui abbiamo tanti nomadi e sfollati dall’ex-Jugoslavia di origine rom. Anche in questi campi ci sono nostri educatori.
Poi abbiamo educatori che lavorano in quartieri a rischio, secondo una metodologia d’intervento, chiamata “animazione di comunità”, tesa a costruire la partecipazione degli abitanti, creando delle reti, anche informali, che attivino le risors ...[continua]
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