Anna non è il segno di una anteriorità storica, ma la figura di ciò che gli scolastici chiamavano il "prius ontologicum". Prima che ogni forma si concretizzi vi è nella mente di Dio l’archetipo che caratterizza e legittima il singolo eone - ed in quest’ultimo le nostre storie. Di riflesso, ogni vissuto può postulare un senso del tutto irrelato al darsi del momento empirico. Il verde dei prati è vero a prescindere dall’arrivo della primavera: prima di concretarsi in fasci d’erba si dà nei fasci di luce degli illuminati di cui son ricche le biblioteche delle abbazie alpine, punti nodali della memoria culturale europea. E’ questo il "prius" che legittima la maternità di Anna.
Grazie a tale priorità Anna rinvia al segreto della creazione, alla sua bipolare struttura: non v’è creatura senza una sua icona. Al di fuori della rappresentazione non v’è creazione. E nella maternità intesa come prototipo della creazione, lo spazio rappresentativo si concretizza in un capovolgimento dei tempi. Questa dinamica viene fissata in modo esemplare nella composizione della vetrata gotica: l’artista vive il fiore nel ciclo inverso di corolla, stelo e radice. La densa luminosità della pittura su vetro, portata al suo vertice da Chagall, cercherà di rievocare tale lettura del mondo come genealogia delle cose, acquisendola anzi come loro unica possibile definizione. Ciò che è esiste solo in quanto è "ab initio": il presente si esaurisce nella ricostruzione idealtipica della propria genesi.
Ora, nel mondo biblico questa continua ricostruzione è un atto liturgico: ricostruire è ringraziare. La ricostruzione genealogica esprime la riconoscenza con cui viene accettata la creaturalità che l’uomo vive ed articola: la genealogia è un criterio di realtà. La memoria cultuale neutralizza pertanto l’antitesi, tutta tardottocentesca, tra natura e storia. Anna vive in questo spazio, univocando il senso specificamente ebraico della matrilinearità - senso nascosto di una storia pensata solo per essere dialogata.
L’ebrea Anna non conosce analogie tra le altre memorie etniche: la sua vicenda non rientra nella storia "universale" del matriarcato. E’ triste che il geniale Bachofen, il massimo storico del matriarcato legga in termini riduttivi la matrilinearità biblica. Ed è al contempo significativo: anche all’acme della sua produzione -nella Basilea di Bachofen, Burckhart e Overbeck- il liberalismo teologico ignora la grammatica di quel rapporto, tanto umano da esser solo ebraico, che vincola la matrilinearità alla struttura narrativa della mistagogia.
Le nostre matriarche (da Sara fino ad Elisabetta) sono figure di un dramma incomprensibile nell’ambito della narrazione storicistica. La matrilinearità biblica occupa uno spazio mnestico che è parte costitutiva del titolo messianico. Quando nel mondo intratestamentario le genti fanno proprio questo titolo e lo celebrano come il primo e il più sublime dei titoli cristologici, vivono la scoperta come un’esperienza della transizione dal grembo del buio p ...[continua]
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