Le interviste qui pubblicate sono tratte dalla tesi di laurea in Storia sociale contemporanea (Università di Trieste) di Alessandro Morena. La ricerca è stata ispirata e seguita da Simonetta Ortaggi, recentemente scomparsa.

Duilio Castelli, Presidente AEA Monfalcone, Associazione Esposti Amianto di Monfalcone. Nato il 24 novembre 1931. Inizio attività lavorativa 1954. Prepensionamento 1988.

Io ho lavorato diverso tempo con l’amianto e mi sono ammalato nel 1971, quando ancora nessuno di noi sapeva cos’era l’amianto. Ho lavorato con diverse ditte di isolazioni termiche: ditta Furlan, ditta Rossetti, e ancora una ditta di cui ora non ricordo il nome. Si lavorava senza nessuna protezione. Finito il militare, lavoro non ce n’era e questa è stata la prima opportunità che ho trovato. Noi dovevamo tagliare delle "coppelle” d’amianto bianco o mettere del cordone d’amianto bianco o blu. Ogni persona produceva polvere. Eravamo in 40‑50 operai e sulle navi passeggeri anche in 100. La maggior parte veniva da fuori, nel senso che erano ragazzi disoccupati del monfalconese con i quali, del resto, i rapporti erano buoni. Ad ogni specialista venivano aggregati tre o quattro di questi avventizi. Si dava "un bel botto di lavoro” e poi, quando il lavoro scemava, quelli di fuori venivano licenziati e rimanevamo sempre in quindici, tutti specialisti. Specialisti si, ma sempre mangiando amianto "a sbregabalon”.
Si lavorava in posti molto angusti, avevamo amianto nei capelli, nel naso, dappertutto. Quando uscivamo fuori ci pulivamo con l’aria compressa perché c’era tanta, tantissima polvere. Quindi si inquinava non solo noi ma anche l’altra gente. Allora non c’erano ancora le mense per le ditte private e all’ora di pranzo andavamo a mangiare in un magazzino distesi sull’amianto. Dopo mangiato ci sdraiavamo lì. Era una vita che a raccontarla adesso sembra impossibile. Noi avevamo, sì, il supplemento per il rischio di asbestosi, ma non sempre. A volte avevamo il contratto dei chimici, a volte quello dei manovali, altre quello dei muratori o quello dei meccanici. Le ditte utilizzavano i contratti per loro più convenienti. A volte le ditte si trattenevano il cartellino; questo succedeva per quelli di fuori che poi venivano mandati via. Facevano questo perché assicuravano solo dieci persone senza nominativo. Il primo che si faceva male veniva inserito in questi dieci. Poi, come rientrava, veniva licenziato perché altrimenti avrebbe continuato ad occupare un posto nell’elenco e se si fossero fatti male altri non avrebbero più avuto la copertura. Così la gente veniva sostituita.
Io sono entrato nel 1954. I lavori erano sempre scomodi, specie sulle navi a turbina dove c’erano circa 6000 metri di tubi che dovevano essere rivestiti con spessori da 20 a 80 mm d’amianto. Bisognava tagliare, sagomare, fare tutte le curve. Fino al 1970 ho lavorato sempre con le ditte d’isolazioni termiche, poi ho avuto la "fortuna” (per non dire la scalogna) di entrare in cantiere come fabbro nave. Lavoravo sempre a bordo e, poiché sono piccoletto, sempre nei posti più stretti. Mi sono accorto d’essere ammalato un giorno mentre stavo tagliando "col cannel” e il respiro non mi veniva. All’inizio ho pensato che fosse la fiamma ossidrica a portarmi via il respiro, poi facendo gli scaloni (io ero come un "levro”) mi toccava fermarmi diverse volte perché il cuore mi batteva forte e mi mancava il respiro. Ho preso un giorno di ferie e sono andato a fare una visita medica. Sono andato da Palmieri (primario di cardiologia).
Quando Palmieri ha sentito il lavoro che avevo fatto a contatto con l’amianto mi ha mandato a "fare i raggi”. Due giorni dopo sono andato da lui a prendere la risposta e mi ha detto: "Vada subito a fare la domanda per la pensione, lei ha l’asbestosi!”.
Così nel 1971 ho fatto domanda e mi hanno assegnato 21 punti di invalidità. In realtà quando ho saputo di essere ammalato non ho avuto nessun patema. Non ero preoccupato perché non sapevo il male che poteva arrecarmi questa situazione. Nessuno mi aveva detto che rischiavo la vita. Ho fatto richiesta al cantiere di poter cambiare mansione perché non potevo più ficcarmi nei buchi. Mi hanno messo come guardiafuochi. Quindi lavoravo sempre con l’amianto! Come guardiafuochi non facevo altro che prendere delle tele d’amianto, sistemarle dove venivano tagliate e poi portarle via. Ero, quindi, sempre a bordo vicino ai miei ex compagni di lavoro che facevano le "malte”. I primi a morire sono stati proprio quelli che facevano le malte. Così è andata fino a che non sono andato in pensione nel 1988.
Come è cambiata negli anni la percezione del pericolo da parte dei lavoratori?
Vi sono stati dei miglioramenti. Prima non esistevano aspiratori, poi, man mano hanno messo delle bocche d’aria, c’era più attenzione. Ma per l’amianto no, non sapevamo niente. Abbiamo cominciato a sapere qualcosa nel 1969 tramite altri operai trasfertisti di Genova che ci hanno detto: "Quanti punti avete voi per l’asbestosi?”. Noi siamo caduti dalle nuvole, nessuno ci aveva avvisato, anche se già nel 1965 c’era il testo unico 1124.
Dal 1961 esisteva in cantiere un servizio di sicurezza. Qual era il rapporto tra tale servizio e voi operai delle ditte private?
Per quel che riguarda la mia esperienza non c’era nessun rapporto. L’unica cosa che venivano a dirci era di scopare via il materiale di risulta, nient’altro. Nel 1994 il dott. Brollo ha messo un annuncio sul giornale, dato che aveva conosciuto il presidente nazionale dell’AEA, per formare a Monfalcone una sezione dell’associazione.
Io ho aderito subito perché, oltre ad essere stato sfruttato io, nel frattempo erano morti tutti i miei amici. Su 100‑120 persone con cui ho lavorato siamo rimasti in sette od otto. Così ho deciso di aiutare gli altri facendo appelli sul giornale, volantinaggi per sensibilizzare la popolazione. L’Usl mi ha dato una stanza all’Ospedale di S. Polo dove ho sistemato l’ufficio dell’AEA.
La gente veniva e l’aiutavo per farsi fare delle visite mediche, o per le procedure di riconoscimento di malattia professionale o di indennizzo alle vedove.
Fino a che non è arrivata quella famosa legge 335 che stabiliva che alle vedove non spettava più alcun indennizzo. Per me è un abuso che hanno fatto. La legge diceva che alle vedove non spettava niente per il marito morto perché "fa cumulo”. Però non è vero perché non si tratta di pensione, ma di una rendita e la rendita non fa cumulo. Proprio recentemente, a questo proposito, c’è stato un processo a Pisa dove finalmente ha vinto una vedova.
Fra i soci dell’AEA non ci sono solo isolatori termici, ma lavoratori di diverse categorie. Naturalmente quelli che erano a bordo sono stati più esposti, ma purtroppo in quegli anni l’amianto era come il pane, si trovava dappertutto, anche negli spogliatoi, dove c’erano i tubi d’amianto. In certe officine quando saldavano mettevano sopra una lastra d’amianto perché si raffreddasse piano piano, quindi non si può sostenere che solo chi lo ha manipolato direttamente ha diritto al riconoscimento perché l’amianto era dappertutto.
Gli operai non avevano nessuna coscienza del male che poteva produrre l’amianto. Anche se già da molto tempo dall’America arrivavano notizie che l’amianto era cancerogeno nessuno ci ha mai detto niente, anzi ci dicevano "bevete latte che con il latte lo digerite”.
Digerire l’amianto! Pare impossibile adesso che queste cose siano realmente accadute.
Da parte della commissione interna io mi ricorderò sempre che quando mi sono ammalato mostrai il referto radiologico a un operaio che conoscevano tutti, era una delle persone migliori della commissione. Lui non mi guardò neanche. Si rivolse a un altro sindacalista e disse: "Un altro, sai, di quelli”. Quindi loro sapevano qualcosa, loro avevano il testo unico 1124 che era venuto fuori nel 1965 e che imponeva di pagare un supplemento ai lavoratori esposti all’asbesto.


Nato a San Canzian d’Isonzo nel 1940.
Inizio attività lavorativa 1961. Pensionamento 1991.

Ho iniziato a lavorare con l’amianto nel 1961. Sono entrato in cantiere come "punteggiatore” lavorando a bordo e dopo circa cinque anni sono entrato nel reparto manutenzione dove sono rimasto fino al mio pensionamento nel 1991. Ho adoperato l’amianto per "trinellare” le valvole e per isolare termicamente i portelloni delle caldaie. Le condizioni di lavoro erano terribili. Nessuno sapeva niente. Si lavorava senza nessuna protezione. Nessuno ci ha mai detto, spiegato, fatto sapere che rischi si correvano con questo benedetto amianto. I padroni non ci davano neanche il tempo di lavarci le mani per far la merenda. Solo fumo, fumo, polvere d’amianto, sacchi col cemento e lavorare in locali non arieggiati, senz’aria in sala macchine. Lo divoravi tutto, non si vedeva neanche attraverso la luce per i nuvoloni d’amianto.
In cosa consisteva precisamente la sua attività?
Io smaltavo, facevo l’intonacatore, arrotondavo i tubi con l’amianto e facevo i locali igiene che venivano smaltati con l’amianto e cemento con la cazzuola, e così l’apparato motore, la cambusa, tutto con l’amianto.
Lei, dunque era uno di quelli che facevano le cosiddette "malte”?
Sì, io facevo anche le malte, ma più che altro intonacavo con la cazzuola.
Com’erano le paghe?
Si può dire più o meno come un operaio del cantiere, niente di più, niente di meno.
Quindi non è che uno andava lì perché era attratto da paghe superiori.
No, no! Uno andava lì perché le ditte private quella volta erano come una specie di riserva. Uno andava sulla porta del cantiere, aveva bisogno di lavorare e andava dove lo prendevano.
C’era un indennizzo supplementare per il fatto che voi lavoravate con l’amianto?
No, non c’era nessun supplemento.
Qual era la percezione del pericolo da parte dei lavoratori?
Non si sapeva niente, tantomeno che questa polvere fosse cancerogena. Lo ripeto, se l’avessimo saputo certamente non avremmo lavorato lì.
Quando ha saputo di essere ammalato?
Nel 1990. Io ero un grande lavoratore. Un sabato sono andato a lavorare e mi hanno mandato nei cunicoli con dei tubi d’ossigeno. Io dovevo cambiare i tubi e mi sono accorto di non avere la forza di svitare le quattro viti della flangia. Così mi sono reso conto che qualcosa non andava. Sono andato subito dal mio medico che mi ha mandato a fare una radiografia del torace. Quando ho avuto la risposta mi hanno mandato d’urgenza ad operarmi ai polmoni presso il servizio di chirurgia polmonare di Cattinara. Ero pieno di placche, avevo il mesotelioma. E’ indescrivibile, quando si è abituati a lavorare senza mai avere niente, tutto d’un colpo mi è caduto il mondo addosso...
Lei ha avuto un beneficio per il pensionamento?
No, non ho avuto niente. Sono stato prepensionato come altri 600 nello stesso periodo, ma non per ragioni di salute. Certo le mie condizioni avranno influito, ma non ho goduto di un privilegio specifico.
Quali erano le misure di sicurezza? Esistevano estrattori, ventilazione, avevate delle tute speciali, delle mascherine protettive?
Io non ho mai avuto una mascherina né un aspiratore. Non ho mai avuto niente di niente per tutto il periodo in cui ho lavorato con le ditte private.
Nessuno vi ha mai informato della pericolosità di questo materiale?
Io personalmente non sono mai stato informato e presumo nessun altro dei miei compagni altrimenti la voce si sarebbe diffusa.
Da parte dei capi o della direzione vi è mai stato detto o consigliato di tenere alcuni atteggiamenti per salvaguardare la salute?
Ci davano di mattina mezzo litro di latte e neanche sempre.
Fra i suoi compagni di lavoro, che lei sappia, alcuni hanno contratto malattia professionale?
Si, parecchi. Addirittura qua, nel mio paese, sono morte otto persone di cui due lavoravano con la mia stessa ditta.
Qual è stato l’atteggiamento del sindacato?
In quegli anni il rapporto con i sindacati praticamente non esisteva nelle ditte private. Non abbiamo mai visto un sindacalista. Rispetto all’amianto probabilmente non sapevano niente neanche loro e poi noi delle ditte private eravamo trattati come bestie perché davamo fastidio dappertutto con questo benedetto amianto.
Dovevate, quindi, fronteggiare anche l’insofferenza di altri lavoratori perché la polvere che producevate lavorando dava fastidio a tutti?
Esatto. Noi privatisti, specialmente coloro che lavoravano con l’amianto o la lana di vetro, davamo fastidio a quelli del cantiere. Quando ci vedevano arrivare con i secchi di "malta” erano tutti infastiditi.
Non erano, dunque, solamente le persone che manipolavano direttamente l’amianto a respirare la polvere?
No, erano tutti esposti. C’era un fumo che non ci si vedeva e gli altri operai lavoravano vicino a noi e neppure loro avevano la mascherina.
Fino a quando, secondo la sua esperienza diretta, in cantiere si è lavorato con l’amianto?
Guardi, questo non lo so. Le posso dire questo: nel 1991, dopo essere stato operato e quindi già con la diagnosi di mesotelioma, sono ritornato a lavorare e il mio capo mi ha detto di fare un po’ di pulizia nei magazzini. Io ero ancora fasciato per l’operazione e ho dovuto riempire casse di rotoli d’amianto per le valvole. Io, nelle mie condizioni, avrei potuto anche rifiutarmi, ma se non andavo io ci sarebbe dovuto andare qualcun altro. Del resto questo capo e anche suo figlio sono morti di mesotelioma pure loro.


Nata a Monfalcone nel 1932. Inizio attività lavorativa saltuaria 1944. Inserviente alla mensa dei cantieri navali dal 20 luglio 1967 al 30 aprile 1987.

Io ho 67 anni, ho iniziato a lavorare a dodici anni, a fare lavoretti nei negozi, in sartoria, a vendere pane. Dopo la quinta elementare allora si andava già a lavorare. Poi ho iniziato a lavorare in cantiere con una ditta privata di pulizie, la ditta Tresella. Si faceva la pulizia degli uffici. Sono entrata il 31 marzo 1958 e ho lavorato fino al 24 gennaio 1962. Il 29 gennaio dello stesso anno ho trovato lavoro in cotonificio a Ronchi.
Perché ha lasciato il lavoro alla ditta Tresella?
In cantiere facevo solo quattro ore la sera e guadagnavo poco, in cotonificio, invece, facevo l’orario completo di otto ore. Sono rimasta al cotonificio dal 29 gennaio del 1962 al 15 aprile del 1965. Si facevano i filati, i rotoli da filo. Nel 1965 il cotonificio ha chiuso e si è trasferito a Gorizia, ma io non potevo andare perché avevo la mamma ammalata e dovevo starle dietro. Dal 1965 al 1967 sono rimasta disoccupata perché non era facile trovare lavoro. Il 20 luglio 1967 mi è arrivata finalmente questa occasione di entrare come generica alla mensa dei cantieri con la ditta Vispar che allora aveva l’appalto.
In cosa consisteva il suo lavoro?
Si pulivano le verdure, si lavavano piatti e pentole e si servivano i pasti, poi si pulivano i pavimenti, le sedie e i tavoli. Venivano a mangiare circa tremila operai, si figuri il lavoro. Sono rimasta alla Vispar per vent’anni, fino al 30 aprile 1987, quando sono andata in pensione per raggiunti limiti di età.
Lei ricorda di aver notato, pulendo la mensa, della polvere riferibile all’amianto ?
Eh, altroché! Anche quando entravano, molti operai erano pieni di polvere, tutta appiccicata al "terliz”, la tuta da lavoro, perché, cosa vuole, mica venivano puliti dentro, venivano così com’erano in quell’ora di riposo che avevano. Mi ricordo tanti delle ditte che venivano lì. Sono morti quasi tutti, poveri "muli”: li chiamo "muli” perché non avevano tanti anni. Erano tutti nei sessanta, sono partiti tutti. E loro a mezzogiorno non avevano tempo né per pulirsi, né per lavarsi, venivano lì ancora tutti impolverati. E’ chiaro che poi alla fine la polvere rimaneva sui tavoli, sulle sedie, sul pavimento, dappertutto. Io non so se fosse polvere d’amianto, ma il dottore mi ha detto che questa, probabilmente, è stata la causa della mia malattia.
Lei è andata in pensione nel 1987 e stava bene, non aveva sintomi di alcun tipo, come si è accorta di essere ammalata?
Circa un anno fa, era l’agosto del 1998, mi sono alzata con una grande difficoltà a respirare, fatica a stare in piedi, a fare anche pochi passi.
Lei prima non aveva mai fatto una visita ai polmoni, una radiografia, non aveva mai avuto tosse o affanno o qualche altro problema di salute?
No, mai! Sono sempre stata bene. Mi sono sentita male improvvisamente l’anno scorso. Era un sabato e il mio medico non lavorava. Andare al pronto soccorso mi sembrava di disturbare troppo, così ho aspettato il lunedì. Il medico mi ha visitata e mi ha mandato urgentemente a fare i raggi. Quando gli ho portato il referto lui mi ha detto: "E’ proprio come immaginavo!” e mi ha mandato subito in ospedale dove mi hanno ricoverata al reparto di medicina di Monfalcone e mi hanno diagnosticato un tumore pleurico. Vuole vedere la diagnosi: eccola! "Mesotelioma pleurico maligno che comprende la pleura parietale, diaframmatica e mediastinica”.
Credo non si possa spiegare quello che si prova in momenti del genere. Ti viene da urlare, da urlare dal terrore. Io mi sono resa immediatamente conto della gravità della situazione, anche se i medici cercavano di tranquillizzarmi, mi dicevano che con alcune terapie si può tirare avanti anche anni.
Lei ha subito collegato la sua patologia con la sua attività lavorativa?
No, sono i medici che l’hanno detto: il dott. Pamich, il dott. Pangher, loro sanno che questo tumore si può prendere solo respirando amianto e l’unico posto dove può essere successo è dentro ai cantieri navali. Lì l’amianto era dappertutto.
Una volta che lei ha saputo questo, la probabile causa professionale della sua malattia, che cosa ha fatto? E’ andata da un patronato per far valere i suoi diritti?
Sì, sono andata alla Cisl di via Roma a Monfalcone su consiglio di Pamich e Pangher. Ma questo è successo dopo. Dall’ospedale hanno mandato direttamente le carte all’Inail, io non ho fatto niente all’inizio. L’Inail mi ha chiamata dopo qualche tempo e hanno voluto sapere tutta la mia storia lavorativa, tutte le date e i periodi di lavoro, poi mi hanno chiesto come mi sentivo, i sintomi, ecc. Sono andata a casa e dopo un mese mi è arrivata la risposta dell’Inail in cui la domanda di riconoscimento della malattia professionale veniva respinta. Questa è la risposta che mi è arrivata il 3 dicembre 1998: "Il caso viene definito negativamente per inesistenza dell’esposizione al rischio di contrarre la malattia professionale denunciata. Tutto quanto eventualmente dovuto a titolo di indennità e/o spese le è stato già corrisposto a titolo di acconto. Contro il provvedimento può essere avanzata opposizione a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento.
Se l’opposizione riguarda il giudizio medico‑legale per inabilità temporanea o permanente è necessario allegare idoneo certificato medico.”
Quando mi è arrivata la lettera dell’Inail sono andata dal patronato per fare ricorso. Poi non ho saputo più niente. Al patronato mi hanno detto che conviene aspettare perché forse tra poco verrà fuori una nuova legge sull’amianto che è in discussione al Parlamento e altre cose così. Allora mi sono rivolta al sig. Castelli dell’AEA e ho parlato anche con il Prof. Bianchi e con la Medicina del lavoro. Da quel momento non ho saputo più niente e per la verità non ho fatto più niente, tanto presto morirò e così sarà finita. Nell’agosto dello scorso anno ho fatto l’intervento di decorticazione e ora sto facendo cicli di chemioterapia. Si sta male, si vomita, mi hanno detto che perderò i capelli. Speriamo che serva a qualcosa, almeno a bloccare il tumore per un po’.
Prima di contrarre la malattia aveva mai sentito parlare dell’amianto, dei rischi per la salute?
Sì, certo! Però non mi sono mai interessata più di tanto! Si diceva: "Poveri a chi che ghe toca”. Povera gente che ha lavorato tanto respirando tutta quella polvere. Sa quanti ne conosco che sono ammalati e quanti sono morti. Però era gente che lavorava a bordo, non avrei mai pensato che sarebbe toccato anche a me .
Fra le lavoratrici della mensa lei è l’unica ad aver contratto il mesotelioma?
Che io sappia sì, però proprio l’altro giorno una signora che lavorava con me mi ha detto che le hanno trovato l’asbestosi, l’amianto nei polmoni. Un mese fa è morta una signora di San Piero che ha preso il mesotelioma lavando le tute del marito. Ora la mia vita è cambiata completamente. Si pensa solo a quello, a quanto vivrò, se dovrò soffrire, a come arriverà la fine.


Nato a Pirano nel 1915. Trasferito a Monfalcone il I maggio 1931. Inizio attività lavorativa 1931. Pensionamento 1975.

In cosa consisteva esattamente il suo lavoro?
C’erano due manovali che facevano le malte, le portavano a bordo con i secchi e noi facevamo le coperture dei tubi. Prima si mettevano le coppelle che avevano la forma dei coppi del tetto (credo si chiamassero così per questo) e venivano legate assieme con il filo di ferro fino a coprire perfettamente il tubo. Alle volte bisognava sagomarle, fare le curve. Era tutto amianto solido che noi tagliavamo con il seghetto e si sfregolava tutto. Contro sole si vedevano gli spini che luccicavano. Infine si fissava sopra una rete e sulla rete gli smaltatori ricoprivano tutto con la malta che in qualche ora si solidificava e la copertura era fatta. Quelli che lavoravano con le malte sono morti quasi tutti.
Quali erano le misure di sicurezza? Avevate delle protezioni particolari?
Magari! Niente mascherine, niente guanti, niente di niente.
Ma voi operai avevate la sensazione che fosse un lavoro pericoloso?
Noi non avevamo neanche il tempo di pensare. C’era solo da andare sulla nave, venire giù a mezzogiorno, ricominciare all’una e tornare giù alla sera. Non c’era neanche il tempo di fumare una sigaretta. Quella volta era peggio che a Sing‑Sing. Eravamo controllati dai guardiani. Dovevamo essere già sul lavoro prima delle otto perché se si arrivava qualche minuto dopo ti toglievano mezz’ora.
Se uno doveva andare al gabinetto bisognava chiedere il permesso e i gabinetti avevano la porta che arrivava alle ginocchia e sopra c’era un’altra apertura all’altezza delle spalle per poterci controllare. Se i guardiani scoprivano uno che fumava in gabinetto gli davano la multa, se ti fermavi troppo a lungo ti davano la multa... Era come una galera: all’uscita perquisivano tutti come quando arrestano uno per vedere se ha la pistola!
Vi hanno fatto fare delle visite mediche per il rischio amianto?
No, solo dopo che sono andato in pensione ho fatto la visita per le orecchie, per la sordità, e poi per i polmoni. Mi hanno dato quindici punti di invalidità per broncopatia nel 1976. Nell’‘80 l’Inail mi ha richiamato per un controllo, ma poi mi hanno lasciato in pace, ho sempre i miei 15 punti di invalidità.
Le persone che lavoravano con lei hanno avuto problemi di salute?
Tutti quelli che io ho conosciuto sono morti per l’amianto. A me piaceva lavorare, mi davo da fare e non ci pensavo alla nocività. Adesso, ripensando a quei polveroni che si sollevavano quando si batteva sui tubi mi vengono i brividi. Era come se nevicasse.
Quando lei ha saputo che tanta gente si ammalava o anche moriva a causa dell’amianto, cosa ha pensato?
Niente, non ho fatto mai niente. Non ho fatto neanche qualcosa perché mi riconoscessero l’esposizione.
Mi sono iscritto all’AEA, con Castelli, e loro mi dicono di fare domanda, ma cosa vuole, ormai sono vecchio e ringrazio Dio di essere vissuto fino adesso. "No bazilo più”.

Nato a Ruda nel 1940. Inizio attività lavorativa 17 luglio 1954. Pensionamento 28 febbraio 1992.

Mi chiamo Spanghero Ubaldo, nato a Ruda il 15 settembre 1940. Sono stato assunto alla Fincantieri in qualità di apprendista aggiustatore meccanico il 17 luglio 1954. I primi anni ho lavorato nella zona Ofma, officine di montaggio dove costruivano autobus e carrozze ferroviarie. Nel 1959‑1960 c’è stata una grave crisi di queste officine ed io, essendo nel frattempo passato alla qualifica di operaio, sono stato messo per due anni in cassa integrazione. Nel 1962 sono rientrato come tubista di bordo ai cantieri navali.
E’ stata un’esperienza traumatica. Era come essere all’inferno: il rumore delle lamiere, i fumi di saldatura, i frammenti di acciaio che cadevano da tutte le parti. L’ambiente di lavoro era pauroso, specialmente in sala macchine dove eravamo in 50‑100 operai, uno sopra l’altro nei vari ponteggi. Io dico sempre che la fortuna ci ha aiutato perché in quelle condizioni ci sarebbero potuti essere molti più morti di quelli che ci sono effettivamente stati per infortuni, incidenti vari e mala organizzazione. Lì l’amianto, che io non sapevo nemmeno cosa fosse, veniva utilizzato in quantità enormi.
Abbiamo fatto anche degli scioperi, delle proteste per alternare il lavoro di quelli che spruzzavano l’amianto sulle pareti con noi che si faceva il montaggio dei tubi, perché c’era un fumo, una polvere che non ci si vedeva neanche uno con l’altro. Pur non sapendo del danno che poteva arrecare l’inalazione di polvere di amianto, solamente per poter lavorare in condizioni un po’ più umane, abbiamo chiesto i turni alternati.
Quelli che spruzzavano avevano una semplice mascherina di carta che almeno un po’ li proteggeva, ma noi non avevamo neanche quella.
Per quanto riguarda il problema dell’amianto ricordo che le caldaie erano tutte rivestite da questo impasto di cemento‑amianto, e così i tubi del vapore e dell’acqua calda. Addirittura d’inverno, quando pioveva e faceva freddo, le ditte private usavano la betoniera dentro l’officina tubisti e poi portavano l’impasto con i secchi sulla nave.
Tutto questo veniva fatto tranquillamente dentro l’officina e così tutti quelli che vi lavoravano respiravano la polvere d’amianto, anche se nessuno sapeva che facesse così male.
Sui sommergibili, poi, per la saldatura, la lamiera doveva venire preriscaldata ad una temperatura di 120°, 150°. Venivano usate a questo scopo delle resistenze protette con sacchi di amianto. Quando queste resistenze venivano tolte ne usciva un polverone incredibile.
Quando, poi, facevamo le modifiche ai tubi perché veniva cambiata la destinazione, ad esempio, di una cabina o di un passaggio, noi dovevamo rompere la malta di cemento-amianto con il martello, smontare i tubi, portarli in officina, fare le modifiche e infine rimontarli a bordo. Perciò anche noi questa polvere l’abbiamo respirata e nessuno ci diceva niente. Molti miei compagni di lavoro sono deceduti per asbestosi polmonare e continuano a morire. Io stesso ho l’asbestosi ma, almeno per il momento, sono attivo e non ho grossi problemi.
Alla luce di quanto è successo, lei crede che il problema amianto sia stato correttamente affrontato dalla medicina del lavoro, dalla direzione aziendale e anche dal sindacato oppure ritiene sia stato sottovalutato ?
Certamente è stato sottovalutato perché nessuno si rendeva conto realmente del rischio. Io ho sempre avuto a cuore questo problema e abbiamo obbligato la direzione a mettere sulle navi dei contenitori per raccogliere l’amianto sfuso in pezzi e non buttarlo con le immondizie normali. Abbiamo avuto molte difficoltà a convincere i vigili del fuoco della Fincantieri ad eliminare l’amianto e anche gli stessi operai se dovevano tagliare un pezzo di parete in acciaio con la fiamma ossidrica usavano il sacco d’amianto per non rovinare i cavi elettrici. Gli stessi operai insistevano per continuare ad usarlo, tanto è vero che alcune volte abbiamo dovuto tagliare il lucchetto di qualche cassone per tirar fuori l’amianto e buttarlo via. Qualcuno se lo conservava gelosamente per lavorare meglio. In cantiere, poi, c’era un inceneritore di rifiuti e ricordo di essere andato personalmente a parlare con l’addetto per pregarlo di non bruciare i sacchi contenenti amianto perché altrimenti il calore l’avrebbe polverizzato e reso ancora più respirabile.
La gente di Panzano e dintorni, quando veniva bruciato l’amianto alla Fincantieri rischiava di essere contaminata.
Nel 1965 è stato approvato un Dpr, il testo unico 1124, che prevedeva un supplemento contributivo per i lavoratori esposti all’asbesto. Che lei sappia questa legge è mai stata applicata alla Fincantieri?
Certamente no! L’azienda non ha mai pagato il sovrappremio per l’amianto per il semplice motivo che ha sempre negato, e continua a negare, che l’amianto sia stato adoperato regolarmente dai lavoratori della Fincantieri, proprio per evitare di dover pagare dei soldi. Ancora oggi riconosce che è stato usato solo fino al 1975, ma mentono e sanno di mentire perché l’amianto abbiamo continuato ad usarlo per molti anni ancora.
Il decreto, però, è del 1965.
Io in verità non ne sapevo niente. L’ho saputo solo nel 1975 quando sono entrato nella commissione ambiente. Gli unici che pagavano il sovrappremio erano le ditte private di coibentazione e neanche tutte, ma la Fincantieri, che io sappia, non ha mai pagato per l’amianto, anche se tutti lo sapevano che non solo lo si adoperava abitualmente, ma che tutti erano esposti.
Da quando e fino a quando è stato usato l’amianto in Fincantieri?
Da sempre e come minimo fino all’83-‘84. Certamente fino al 1977 è stato usato a pieno ritmo, poi, gradatamente, è diminuito, però è stato ancora utilizzato a lungo sia sui sommergibili, sia sulle navi in allestimento. Fino al 1983 è stato ancora usato in quantità considerevoli, ma certamente anche oltre perché la ditta Davinson ha dichiarato di aver pagato il premio assicurativo per l’amianto a Monfalcone fino all’ottobre 1986. E se la ditta stessa lo dichiara, non penso che l’abbia pagato non usando l’amianto.
In base alla legge 257 del 1992 sono previsti dei benefici previdenziali per i lavoratori che siano stati esposti all’asbesto. Come è applicata alla Fincantieri questa legge?
Inizialmente l’azienda ha ammesso l’utilizzo sporadico dell’amianto solo fino al 1975. Poi noi abbiamo prodotto documentazioni come quella del 1977 che provava esposizioni con valori superiori alle cinque microfibre per metro cubo in salderia. Abbiamo fatto scioperi e proteste contro la direzione e anche contro l’Inail. Se l’azienda avesse dichiarato dove veniva realmente usato l’amianto, I’Inail sarebbe stata costretta a riconoscere l’esposizione.
Siamo riusciti a far avere il riconoscimento a qualche settore della Fincantieri, come il montaggio di bordo, gli impianti provvisori di bordo, i ponteggiatori, cioè tutte le lavorazioni di bordo, mentre ad esempio l’officina tubisti dove veniva usato l’amianto in grosse quantità o l’officina fabbro nave dove l’amianto veniva tagliato e sollevava polveroni, non sono state classificate come zone esposte, senza contare, oltretutto, che molti lavoratori facevano alternativamente lavori in officina e lavori a bordo. Se, però, il loro centro di appartenenza era l’officina non gli vengono riconosciuti i benefici della legge. C’è la situazione paradossale di alcuni lavoratori che sono riusciti ad andare in pensione con questi benefici, ed altri che, pur lavorando con loro, gomito a gomito, devono continuare a lavorare. Noi cerchiamo di far ottenere il riconoscimento a tutti coloro che ne hanno diritto. Vi sono molti lavoratori a cui è stato riconosciuto dall’Inail il danno da asbesto, addirittura gente con il mesotelioma, ma l’azienda non riconosce l’esposizione all’amianto e così non hanno diritto al ricalcolo previdenziale.
Ci sono contrasti anche con l’Inail che ha riconosciuto ad alcuni l’asbestosi ma gli ha assegnato solo cinque punti, a certuni addirittura zero punti di invalidità. Così si riconosce la malattia, ma non si riconosce il danno, sapendo benissimo che l’asbestosi è una patologia degenerativa e inguaribile.
Abbiamo in piedi molte cause per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori che sono stati esposti all’amianto e non hanno ottenuto ciò che gli spetta per legge. La legge prevede che se uno è stato esposto all’amianto, mettiamo per sei anni, e ha contratto malattia professionale, ha diritto al ricalcolo moltiplicando per un coefficiente di 1.5 il periodo di esposizione, ossia in questo caso avrebbe diritto a tre anni in più di contribuzione. Se, però, uno non ha contratto malattia, o non gli è stata ancora riscontrata, per ottenere i benefici deve dimostrare di aver lavorato con l’amianto per un periodo superiore ai dieci anni.
Qui c’è il grosso contrasto con l’azienda, che ora sostiene che al massimo l’amianto sia stato usato fino al 1979, mentre noi abbiamo la certezza documentata che come minimo è stato usato fino al 1983. L’azienda, però continua a negare l’evidenza e cioè che l’amianto in Fincantieri era praticamente onnipresente.
Oggi vediamo che molti di quelli che lavoravano allora non ci sono più, sono morti per asbestosi. Molti miei compagni di lavoro, anche più giovani di me, sono morti a causa dell’amianto e sono consapevole di quello che anche a me potrebbe succedere.
Io questi problemi li vivo quotidianamente. Tempo fa è venuto a trovarmi un amico, un mio ex compagno di lavoro e mi ha detto: "Vieni, facciamo la cena che vado in pensione, tanto tra poco morirò.” In effetti è morto pochi mesi dopo.


Nato a Treviso nel 1925. Inizio attività lavorativa 1950. Pensionamento 1985

Sono andato in pensione nel 1985 dopo 35 anni di lavoro.
Io ho lavorato 27 anni con l’amianto e altri otto con la sabbia, la polvere di ruggine ed i fumi di pittura. Nel 1970 mi hanno trovato l’asbestosi e mi hanno assegnato trenta punti di invalidità.
La visita l’ho fatta a Udine tramite il patronato. Nei 20 anni precedenti nessuno ci aveva mai visitato e anche nel 1970 è stata una nostra iniziativa, non eravamo obbligati. Qualcuno è andato, altri no. Solo negli ultimi anni la ditta ci mandava una volta l’anno a fare i raggi.
Le condizioni di lavoro erano pesanti per tutti, io, però, stavo un po’ meglio perché ero addetto a smaltare con la malta d’amianto o a fare i rivestimenti. Quelli che facevano le malte stavano peggio e ancor peggio stavano quelli che facevano i cuscini d’amianto e infatti sono morti quasi tutti, ma anche noi ne abbiamo respirato parecchio perché l’amianto quando asciuga vola via e quindi sia noi, sia quelli che ci stavano vicino, ci siamo tutti "ingolfati”. C’erano nuvoloni di polvere e non esistevano aspiratori né maniche di estrazione. L’aria condizionata la mettevano solo quando la nave era finita. Se uno aveva un po’ di buon senso si metteva la mascherina o qualche benda per proteggere la bocca e il naso, ci si doveva arrangiare. Solo negli ultimi anni la ditta ci dava le mascherine e mezzo litro di latte perché erano controllati dall’Inps, ma prima non avevamo niente: né tute, né maschere, né scarpe, né guanti, niente di niente. Si è andati avanti così per molti anni, ma purtroppo non si trovava altro lavoro e queste erano le uniche ditte che assumevano. Uno che aveva famiglia e aveva bisogno di lavorare doveva adattarsi.
C’era un indennizzo supplementare per voi che lavoravate con l’amianto?
No, mai visto nessun supplemento. Avevo solo la rendita Inail di trenta punti e quando sono andato in pensione mi hanno abbonato sei mesi.
Si lavorava 10‑12 ore al giorno sempre respirando schifezze e ora non ho più neanche fiato per parlare. Ma se non trovi altro cosa fai? Dovevi restare lì a ingoiare polvere.