Francesco Ciafaloni, ingegnere minerario, dopo un’esperienza di lavoro all’Eni, è stato redattore presso Boringhieri e poi Einaudi. Attualmente è ricercatore all’Ires Cgil del Piemonte. E’ stato tra i redattori principali dei Quaderni Piacentini e ha fatto parte del comitato di redazione. Ha inoltre diretto la rivista Ex Machina. Tra gli altri ha pubblicato Kant e i pastori. Ovvero: il mondo e il paese (Linea d’Ombra edizioni).
Mantenere viva la speranza in un mondo che non ci piace.
Forse il titolo dovrebbe essere invece un verso di Franco Fortini, che della rivista di cui si parla è stato uno degli ispiratori e dei collaboratori importanti: “Ma il mondo cambia e ti ammazza”.
Ma questa non è una giornata sul passaggio delle generazioni o sulla morte, che ha già portato via alcuni dei migliori di noi, come sempre succede. E’ invece una giornata su quello che abbiamo cercato di fare, su ciò che c’era di buono in ciò che scrivevamo, sui problemi di oggi, su quello che facciamo oggi e che ci sembra il proseguimento di ciò che facevamo allora.
In termini più aulici e più precisi, anziché speranza e mondo che non ci piace, si potrebbe dire pensiero critico.
Le continuità e i cambiamenti
Personalmente non mi sembra di avere cambiato molto ciò che faccio negli ultimi quarant’anni. O meglio, continuo ad avere a che fare con immigrati ed operai, ad occuparmi di prevenzione e di incidenti sul lavoro, a leggere libri -meno di quarant’anni fa, quando facevo il lettore di professione- a cercare di capire quello che succede al mondo e come si potrebbe fare per opporsi alle tendenze peggiori.
Nei fatti sono cambiate molte cose. Allora gli immigrati parlavano veneto o qualche dialetto meridionale, gli operai crescevano in numero e in percentuale ogni anno, la scuola autoritaria e conservatrice sembrava rovesciata, la libertà e l’uguaglianza sembravano, se non raggiungibili, almeno desiderabili.
Oggi gli immigrati vengono da mezzo mondo, gli operai sono sempre di meno, le persone in età di lavoro -dai 15 ai 65 anni- nate in Italia diminuiscono di tre-quattrocentomila l’anno, i settori industriali chiudono -quei pochi che c’erano ancora-, la libertà è sempre più merce per ricchi, l’uguaglianza, o anche solo la giustizia, sembra una parolaccia.
Allora ci sentivamo ancora addosso il mondo contadino, in cui alcuni di noi erano nati, con i cui problemi altri si erano identificati, fino a farne il centro della propria giovinezza.
Oggi che ci fossero i contadini neppure ce lo ricordiamo più oppure abbiamo bisogno -per ricordarcene- di guardare la morte e trasfigurazione di Rocco Scotellaro o leggere Ernesto de Martino.
Allora eravamo quasi al massimo di una espansione della produzione e del consumo dei beni materiali e dei servizi, che ci sembravano la gabbia -più o meno luccicante- in cui il sistema ci rinchiudeva, la cui necessità indotta era il fine e il mezzo della repressione o della tolleranza repressiva.
Oggi è evidente che di beni e di servizi non ce ne saranno abbastanza per tutti. Non solo nelle sterminate periferie del terzo mondo ma anche in questa affollata periferia in cui ci troviamo a vivere.
Allora ci sembrava che ci fosse bisogno di una resistenza, di una contestazione, di una rivolta per rivelare la violenza implicita del sistema; ci sembrava che le giustificazioni difensive o liberali fossero l’ipocrisia che mascherava la violenza dell’imperialismo sempre vivo e vegeto.
Oggi le giustificazioni vengono appena abbozzate e lasciate cadere perché viene esplicitamente affermato il diritto alla guerra preventiva in quanto è nell’interesse della potenza militare dominante.
Allora le istituzioni, tutte, ci sembravano solo prigioni, rovesciando i decenni precedenti in cui “istituzionalizzare” era sembrato il necessario complemento di ogni rivolta, di ogni conquista. Molti di noi usavano eversivo e rivoluzionario come qualificazioni positive, senza troppe precauzioni.
Poi, rapidamente ci siamo ricordati che le istituzioni della democrazia non sono un dato di natura, ma una difficile eredità di cui siamo tutti parte, che anche la nostra volontà è determinata, che l’eterogenesi dei fini è più frequente della realizzazione dei desideri.
Bisogna dire che anche allora non eravamo proprio del tutto sprovveduti e che appena ci siamo trovati -siamo stati costretti dai fatti- a scegliere e precisare, abbiamo scelto e precisato con qual ...[continua]
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