10 aprile 1992
I cani abbaiano nel centro di Sarajevo come se fosse campagna. Le strade sono vuote, spettrali, solo cani. Da questa guerra è difficile che uscirò vivo, anche se non partecipo. Indipendentemente da chi vincerà, se un vincitore ci sarà. Un caos insanguinato sarà- sicuramente. E’ già cominciato. Speravo non fosse possibile, ma è già qui! La realtà! Adesso è in silenzio, e tutto il giorno è stata una sparatoria. La paura si è infilata e assestata dentro di me. Il momento della morte può arrivare anche stasera. In forma di parossistica rabbia e estasi. Mi chiedo se avrò la forza per la dignità.
Rimango a Sarajevo. Ho paura, ma rimango. Ho promesso di rimanere con il nostro progetto fino all’ultimo giorno. So che questo giorno è vicino: una tv indipendente non può sopravvivere in guerra. So che anche le nostre trasmissioni, cui la gente crede più che a qualsiasi altro mezzo di comunicazione, non possono essere conservate. Per questo comincio a scrivere.
Provo a ricordare quando è cominciato. Cominciato cosa? Nessuna parola, nessuna espressione è esattamente corretta. Per me è cominciato tutto nella notte fra il 4 e il 5 aprile quando un giovanotto con la calza sul viso e un fucile in mano si è avvicinato all’auto in cui ero con due miei colleghi. L’indice sul grilletto. “Andiamo in albergo...”, gli dice il mio amico. Il giovanotto alza il Kalashnikov. Altri due, con i fucili, stanno avvicinandosi. Un po’ più in là un poliziotto in uniforme guarda e non si muove. Anche in Croazia la guerra è cominciata con la divisione della polizia. Il mio amico al volante manovra lentamente, è tutto concentrato, ha capito in che situazione siamo. All’improvviso parte fortissimo, salta il viale e si butta contromano verso il centro di Sarajevo. In giro non c’è nessuno ed è sabato! Saltiamo tutti i semafori rossi. Appena raggiunta la casa di mia sorella comincia la sparatoria e l’inferno si accende. Tutto si ripete tre giorni dopo: il centro della città è coperto dal fumo e dal fuoco del bombardamento. Le lingue di fuoco salgono dalle finestre degli edifici che erano l’immagine di Sarajevo. Dal dodicesimo piano di un grattacielo in Kosevsko brdo guardiamo increduli.
“Sono pazzi?” ripetiamo sotto voce.
29 Maggio 1992
Dopo il massacro di ieri in via Vaso Miskin nel centro della città, dove 14 persone sono state uccise, stasera l’apocalisse si completa. Verso le 22 detonazioni mai sentite prima squassano la città: sono razzi Katuscia. Per le esplosioni il grattacielo trema. Tutti gli inquilini sono per le scale all’altezza dei piani centrali. Distrutti, spaventati ma senza panico donne, anziani, bebé, bambini. Nessuno piange, nessuno fa scene isteriche, i bambini perfino giocano.
I sentimenti che mi riempiono sono rabbia e indignazione. Ma chi sono gli uomini che sparano granate sulla città, sui bambini? Ritorno nel mio appartamento al dodicesimo piano da dove vedo una gran parte del centro: tutto è in fiamme, inimmaginabile, un’apocalisse selvaggia. Nel buio della notte c’è un gran fuoco mai visto in vita mia. E’ la fine del mondo e di ogni ragione. Granate e razzi continuano a cadere nel centro. Brucia la città che rappresentava la specificità di questa regione, la sua bellezza, la sua sensibilità, la vitalità, lo spirito, l’ingegno. Non c’è ragione che possa giustificare questa malvagità. Mi sbrigo a scrivere perché non so se sopravvivo alla prossima granata. Non riesco a capire la politica e il mito che vogliono bloccare la corrente vitale della primavera, con le sue ciliegie mature e la felicità umana. Guardo le fiamme che salgono: è la fine di Sarajevo, della dolce e sensibile Bosnia. Dal male nascerà solo male. L’odio diventerà totale come questo buio. Se esco vivo da questo inferno non credo che tornerò mai più. Seduto sul pavimento, le spalle al muro, guardo il tremolio del fuoco sui muri, penso alle mie figlie e cerco di non impazzire.
23 agosto 1992
Esco in un giorno incredibilmente bello strappato alle sparatorie. E’ così bello che è incredibile che qualcuno abbia voglia di uccidere. Gli inquilini del grattacielo accanto alzano le tapparelle e guardan ...[continua]
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