Era la fine di ottobre del 1994, camminavamo sulla Battaglione di Mostar, una strada corta, sopraffatta dalle macerie, e tesa tra il Bulevar e l’hotel Bristol quando cadde la sera e una lampadina isolata al terzo piano di un edificio sbudellato richiamò la nostra attenzione. Non c’era più nessuno in giro, la sera pesava di nebbia e di umido, e l’attesa, che al tramonto si carica di fantasie e di rabbia intorno alla capanna alpina del check point piantata sul confine tra Mostar est e Mostar ovest, si era smorzata.
Richiamati dalla macchia di luce sospesa lassù in alto decidiamo di andare a vedere. Tutto intorno è buio, distruzione e deserto.
Sopra i tetti i comignoli e le antenne, filiformi, ferrigne, sembrano segnare una misteriosa via nel cielo.
Sotto la porta filtra un filo di chiarore. Bussiamo. Nell’appartamento abitavano due anziani coniugi, il colonnello Avdo Silajic e la moglie Mira che ci invitarono a ritornare l’indomani. Le scale erano rotte, scendiamo appoggiandoci l’uno all’altro, misurando ogni passo e quando finalmente riguadagniamo l’aperto ci voltiamo indietro come per verificare che sia ancora lì.
Non era strano che non fosse stata dimenticata prima della guerra, ma indicasse qualcuno che era sempre stato lì, sul fronte, sotto i bombardamenti, sotto le granate, e che ancora ci abitava?
L’indomani fummo accolti in un piccolo soggiorno odoroso di vernice.
Mira aveva preparato il caffé e dei dolcetti. Avdo estrasse una sigaretta da un pacchetto con la carta tutta bianca, senza nessuna indicazione di marca e senza nessun segno, la infilò nel bocchino e accese.
Ci raccontarono della guerra, della paura che li aveva fatti dimagrire di 30 chili, dei soldati che si sparavano e si facevano i dispetti, che non avevano mai frequentato le moschee, proprio come veri “musulmani atei” quali si consideravano, che serbi e croati erano più legati all’Islam dei musulmani perché le loro industrie in Europa non erano più competitive e non potevano fare a meno del mercato arabo.
Avdo. Il primo giorno i croati dissero alla radio che i musulmani si dovevano arrendere. C’erano molti croati in questo palazzo e se ne andarono. Se ne andarono anche i musulmani. Siamo rimasti soltanto noi e una signora slovena. Poi è venuto anche un altro uomo. Io non avevo nessuna voglia di muovermi da qui perché conoscevo gli ustascia fin dalla seconda guerra mondiale. E’ un esercito senza morale, sanno solo ammazzare ma non combattono, e lo stesso vale per i cetnici. Ho fatto quattro anni di guerra mondiale, ero colonnello, e ho combattuto sia contro i cetnici che contro gli ustascia. Sapevo che sono vigliacchi e sapevo anche che i nostri non avevano nessun altro posto dove andare e quindi dovevano combattere sino alla fine. I nostri soldati erano più motivati a rischiare al vita. Non avevano alternativa. E noi lo stesso. Siamo rimasti, perché non avevamo dove andare. Bombardavano dappertutto e anche qui, naturalmente, ma qui non potevano con le armi pesanti. Ho pensato che era meglio restare qui che andare sulla riva sinistra perché di là miravano a distruggere tutto più che qui, dov’era la prima linea del fronte. Inoltre stavo bene tra i nostri soldati, e li sostenevo con consigli di ordine morale e militare.
Mira. Soprattutto morale.
Avdo. Qui almeno avevamo la cantina. Nel grande scantinato sotto il palazzo ci si poteva anche dormire. In qualunque altro posto sarebbe stato peggio per noi, anche psicologicamente. Questa è la nostra casa, anche se nel sistema socialista nessuno si affezionava alla casa, ciascuno era un ospite provvisorio e quando aveva paura se ne andava, mentre per la proprietà privata l’uomo è pronto anche a combattere. In cantina avevamo anche la radio e centinaia di libri. Come soldato leggevo la letteratura marxista, lo dovevo fare, e la conosco, ma durante questa guerra ho letto 5-600 libri, in maggioranza novellistica.
Mira. Ogni tanto mettevamo fuori la testa e quando si poteva correvamo a spegnere gli incendi. A due passi da noi c’è il Bulevar e noi eravamo di fatto compresi nelle prime file dell’esercito bosniaco, e i soldati ci aiutavano, ci portavano acqua e cibo. Era interessante la prima linea. I nostri per provocare si mettevano la kefiah come Arafat o gridavano: “Allah u’ akhbar...” ...[continua]
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