La discussione in vista delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità stenta a partire. E’ probabile che alla fine del prossimo anno, dovendo trarre un bilancio di quell’evento molto annunciato, ma "scarsamente costruito”, più che i vuoti o i silenzi, dovremo chiederci dove noi stiamo andando.
Sia chiaro, non è vero che un anniversario costruito sia di per sé sintomo di una convinzione profonda. A questo proposito è sufficiente richiamare l’attenzione sulla scena che si svolge in Francia nella primavera-estate 1939 in occasione del 150° della Rivoluzione francese [Ory 1992, pp. 166-195]. Una scadenza che vede una mobilitazione diffusa, con il coinvolgimento delle scuole, la costruzione di un clima culturale ed emozionale di grande sontuosità. Una "macchina celebrativa” che non impedisce che meno di un anno dopo -nel giugno 1940- milioni di francesi siano in fuga spasmodica per la vita nelle strade di Francia lungo l’asse Nord Est-Sud Ovest. Un intero popolo che raccoglie le poche cose che ha e si mette in marcia e che in quella fuga comunica molte cose nemmeno intraviste nell’ondata celebrativa dell’anno precedente. Una popolazione che consuma se stessa in quell’andirivieni; in preda allo smarrimento, al panico e alla desolazione; in cerca prima di tutto di un luogo mentale e carismatico in cui riconoscersi; senza più una guida o un punto di riferimento pubblico a cui guardare o da cui ricevere conforto ed esempio.  Una fuga che è per la vita, ma che è anche il rendiconto drammatico e tragico di un decennio di deleghe, di malumori, di rabbia e di scollamento tra governanti e governati. E che è la sconfitta di una generazione che consuma nell’arco di un ventennio un capitale morale e politico rilevante, una generazione di umiliati, come avrebbe poi scritto il romanziere Georges Bernanos [1949, pp. 8-9].
Dunque il problema non è in che misura noi siamo una nazione, ma che cosa implica pensarsi come nazione e, successivamente, in quali segni riconoscere quel sentimento e quali siano i profili del ragionamento che hanno definito l’identità italiana -o più semplicemente il pensarsi italiani negli ultimi 150 anni.

Nella storiografia attuale si deve a Alberto M. Banti [2000; 2004 e 2007] la capacità di promuovere un nuovo interesse intorno a una questione che a lungo era stata abbandonata dall’indagine storica. L’interpretazione proposta da Banti muove intorno a una chiave essenziale: il fatto che l’intero periodo risorgimentale sia espresso da una cultura, meglio da un codice culturale, in cui il romanticismo costituisce l’ingrediente fondamentale e che è fondato su un numero variegato e plurimo di fonti: musicali, letterarie, figurative, linguistiche... In breve che si definisca un costume. Una lettura che considera essenziale il fatto che essere nazione non è conseguente all’abitare un territorio sotto la stessa amministrazione, secondo un profilo proprio dell’illuminismo ma che propone l’essere nazione come vincolo. Una distinzione già esplicitata da Salvemini [1963, pp. 542-560]. Un aspetto che tende a proporre una lettura culturalista del Risorgimento e che per questa via riconferma una interpretazione consolidata da Federico Chabod, secondo cui l’idea di nazione nasce con il romanticismo allorché la nazione cessa di essere solo "sentita” e inizia a essere "voluta [Chabod, 1961, p.45]. Dunque, la nazione è un progetto, che sollecita la fondazione di un "noi”, nel nostro caso di un "fare gli italiani” che contemporaneamente produce le sue immagini a monte dell’evento, ma poi deve consolidarlo a processo avvenuto. Il tema dunque, quando si riflette sul 150°, è la valutazione della riuscita o, eventualmente, degli ostacoli e dei fallimenti nella realizzazione di questo progetto.
Questo aspetto, lo si capisce meglio se si riflette sulle figure apparentemente minori. Per questo vorrei considerare Goffredo Mameli.

Goffredo Mameli a lungo è stato un fantasma nella storia italiana. Mameli aveva molti elementi per diventare un’icona. Muore giovane, ma, soprattutto ha la fisionomia giusta: è bello, biondo, con i capelli lunghi, muore da eroe in uno slancio di disinteresse. Soprattutto è un classico ribelle moderno: per lui partecipare significa non risparmiarsi, consumare tutte le proprie energie. Come per molti altri dopo di lui, per arrivare fino a oggi, ribellarsi ha significato sostenere "sei quello che fai” contrapposto senza possibilità di mediazione a "sei quello che pensi”. Altre im ...[continua]

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