Venerdì 3 febbraio, il giorno della neve, a Roma, a poco più di 78 anni, è morto di infarto Pino Ferraris.
Pino è stato prima un militante e dirigente politico socialista, passato ai socialisti unitari, cioè allo Psiup, dopo la scissione, poi ricercatore all’ufficio studi della Cgil a Roma, poi, dopo essersi laureato da adulto, professore a Camerino, storico del movimento operaio e collaboratore del Centro Basso.
Non è stato mai un uomo di partito, nel senso di uno in carriera. Se lo è stato a Roma, nelle varie incarnazioni della sinistra socialista dopo il fallimento elettorale dello Psiup, io, da Torino, non me ne sono accorto. Non potevo non accorgermi invece della capacità di iniziativa culturale, sindacale e politica del gruppo di delegati che a Pino Ferraris facevano riferimento, del rapporto con i "Quaderni rossi”, della vivacità del piccolo gruppo di militanti biellesi che avevano cominciato, nei primissimi anni 60, parecchio prima del mio approdo a Torino nel ‘66, a far fronte ai mutamenti dei filati e delle macchine, e quindi del lavoro, nell’industria tessile, organizzando un giornale di fabbrica fatto con gli operai e non per gli operai. È questo lavoro di fusione (dialettica, si diceva allora) di cultura, movimento e organizzazione che rappresenta per me la faccia di Pino, in vita, e che vorrei ricordare, in morte, a sua memoria.

Non ho fatto fatica a trovare la riproduzione, del ‘68, a cura di Pino Ferraris, Clemente Ciocchetti e Franco Ramella, del giornaletto (si chiamava, "Potere operaio”) scritto prima dagli operai della Trabaldo Togna e poi della Zegna; l’articolo di Ciocchetti e Ramella, Una rivoluzione tecnologica nel Biellese, sul numero 4 dei "Quaderni rossi”; e quello di Pino, Giornali politici nelle fabbriche del Biellese, sul numero 5. La carta scritta mi ha aiutato, oltre che a non sfumare troppo le parole, a ricordare le storie dei compagni di allora, di Biella, di Ivrea, di Torino, venuti dal sud e dal Veneto, uniti nel movimento per qualche anno e poi andati ciascuno per la sua strada, quando abbandonarono la politica, o la politica li abbandonò: Sergio Gaudenzi, diventato fotografo di un qualche rilievo a Parigi -come Dario Lanzardo a Torino, del resto; Franco Ramella, lo storico del primo sciopero di Valle Strona, della emigrazione biellese nel mondo e di quella meridionale a Torino; Clemente Ciocchetti, ora anche lui morto, diventato artigiano, legatore di libri. Ma suonava anche il violoncello Clemente; suonava, per qualche amico, le sonate di Bach.

Il gruppo di cui Pino era l’ispiratore non voleva fare solo un giornale. Voleva scrivere e riproporre alle fabbriche, non senza difficoltà, testi che derivassero dai problemi sociali, fossero materialmente scritti da chi quei problemi li viveva, fossero utili alle lotte, riflettessero sui risultati. Per far funzionare la redazione non bastava raccogliere scritti di operai e pubblicarli. Bisognava che ci fosse un gruppo redazionale esterno che ponesse domande, a un gruppo interno, raccogliesse le risposte, le discutesse, le pubblicasse. Ogni pezzo pubblicato, nella fase matura dell’iniziativa, alla Zegna, passava attraverso tre riunioni di redazione del gruppo esterno e di quello interno. Ci riuscivano? Almeno ci provavano. Pino, nell’articolo citato sul numero 5 dei "Quaderni rossi” usa il termine "autenticità”. Credo voglia dire che loro facevano sul serio: né imbottire i crani; né mettere il cappello sulle idee degli altri. Se si esauriva l’azione sindacale -quella che si voleva criticare per i suoi limiti- cessava la mobilitazione ed era impossibile mettere insieme gli articoli. Nei termini rigidamente dialettici di allora, Pino scriveva: "La vicenda del rapporto partito-classe non è la storia di un rapporto tra la classe come immediatezza sociale, come massa indifferenziata e il partito come portatore dall’esterno della coscienza rivoluzionaria, ma è un rapporto trinitario. Tra partito… e classe vi è l’organizzazione politica di massa, vi sono gli istituti politici della rivoluzione”. Cosa voleva dire per loro che il loro fine era politico, rivoluzionario? Non è facile dare una risposta; né è lecito cavarsela dicendo che allora tanti dicevano così, anche senza mettere in piedi questo difficile e reale rapporto tra operai e militanti esterni; e per fare un giornale, poi. Certo loro, racconta Pino, erano andati a fondare "Potere operaio” sul monte Rubello, quello di Frà Dolcino. E questo induce nella tentazione di ricacciare ciò che facevano nel ribellismo. Ma loro la storia e la fabbrica non la vedevano per niente in termini mitici. L’articolo di Ciocchetti e Ramella, riletto oggi, regge benissimo, più di quello di Pino. Come regge la dimostrazione, documentata da Franco Ramella, all’inizio del suo lavoro di storico, della totale assenza della Internazionale socialista dalla organizzazione degli scioperi di Valle Strona, più di un secolo fa, per un mutamento tecnologico importante, il passaggio dal telaio a mano a quello meccanico, diverso ma analogo a quello di 60 anni fa. Loro ci tenevano davvero a non essere né burattini né burattinai; e volevano dimostrare che era stato ed era possibile.

Può stupire che militanti politici diversi da loro per scopi, appartenenza, tema, ragionassero e si organizzassero esattamente alla stessa maniera: un gruppo esterno di tecnici e militanti; un gruppo interno, di "esperti grezzi”, il rapporto con tutti i gruppi operai nella stessa situazione. Lo hanno fatto Ivar Oddone, medico, Gianni Marchetto, operaio, Cesare Cosi, operaio, e tutti gli altri, contro la nocività del lavoro e per il controllo dei tempi e della organizzazione. E qualcosa, allora, hanno cambiato davvero.
Non bisogna gettare sul ricordo di Pino e dei suoi compagni l’ombra lugubre della sconfitta. I fini alti -e la libertà, la dignità, del lavoro certo è un fine alto- non si raggiungono mai; non stabilmente; non una volta e per sempre. Gerusalemme è sempre rimandata, come scriveva Vittorio Foa traducendo dall’inglese il titolo di un suo libro importante. Ma il fine alto bisogna averlo; e lavorare duramente per raggiungerlo.
Gianfranco Contini, il filologo romanzo, che non era credente di nessuna religione, ma conosceva la potenza della metafora, in un resoconto su un congresso di uomini di cultura europei, a Ginevra, di 66 anni fa (Dove va la cultura europea?, edizioni Quodlibet, 2011, a cura di Luca Baranelli) scriveva, commentando una affermazione di Carlo Bo: "Non è grave che Cristo non sia nella cultura; è grave che la cultura non sia Cristo”. Credo volesse dire, banalizzando, "che la cultura non si incarni”. I principi bisogna praticarli, le vie bisogna percorrerle. Quel gruppo lì, di biellesi, di torinesi di tutte le stirpi, a praticarli ci ha provato.