La disoccupazione, soprattutto quella giovanile, continua a crescere, soprattutto al sud, anche per gli istruiti. Da questa premessa partiva l’intervista ad Adriana Luciano di due numeri fa, che ha messo in luce soprattutto il mismatch tra lauree scelte dagli studenti e mercato del lavoro, malgrado l’azione positiva di informazione e avviamento del centro per il job placement della Università di Torino di cui Adriana è stata ed è l’animatrice.
In qualche mese la situazione non è cambiata; o, almeno, se ci sono cambiamenti non sono noti. Cerco solo di aggiungere qualche elemento, un po’ casuale per la verità, su lavori che spariscono e lavori che nascono, magari in un posto diverso, e qualche dato di tendenza.

La disoccupazione degli stranieri
Il Dossier Statistico Immigrazione per il 2012 della Caritas Migrantes dedica, come fa da sempre, un capitolo al lavoro; che quest’anno non è per nulla incoraggiante. Malgrado gli stranieri residenti in Italia siano molto più giovani dei cittadini italiani e non siano espulsi dal lavoro per logoramento, sono stati colpiti in pieno dalla crisi dell’edilizia e della piccola impresa industriale e commerciale, in modo molto differenziato per area geografica, come gli italiani. È la prima volta che leggo nel rapporto una nota metodologica sui problemi creati dai ritardi di registrazione dei dati Inail. I ritardi ci sono da sempre, e sono esasperanti. Ma quando le quantità crescono tutti gli anni, la tendenza è univoca, si possono fare affermazioni generali lo stesso. Se la tendenza si inverte, si rischia di sbagliare di grosso, come pare sia accaduto nel Dossier 2011. In sostanza la disoccupazione degli stranieri è considerevolmente più alta di quella degli italiani; la intenzione di assumere è caduta negli ultimi quattro anni per tutte le dimensioni aziendali; di meno per gli stagionali, che sono, infatti, i soli per cui ci sia un decreto flussi. Le conseguenze della disoccupazione per famiglie straniere che non possono sopravvivere consumando i risparmi, che non ci sono, o rifugiandosi nella casa in proprietà, di cui bisogna ancora pagare il mutuo, sono più gravi che per quelle italiane, come il Dossier sottolinea. Le difficoltà economiche, in atto e prevedibili, possono mettere in dubbio la stessa presenza in Italia, come i dati confermano, e frenare i nuovi arrivi.
Dal punto di vista dei lavori bisogna aggiungere la import substitution, cioè il ritorno delle italiane e degli italiani ai lavori di cura e di servizio, già noto, e le conseguenze prevedibili sulla scuola. Meno stranieri vuol dire meno giovani, meno figli, meno iscritti alle elementari e alle medie, meno insegnanti necessari. Vuol dire anche meno vitalità culturale, meno intraprendenza, meno lavoro autonomo. Gli stranieri sono gli unici che continuino a creare più imprese nuove di quante non ne chiudano.

Occupazione e istruzione
Il rapporto Excelsior, pubblicato a novembre 2012, sulle intenzioni di assumere nell’anno che si stava allora chiudendo, si apre con affermazioni sconfortanti. "Dopo alcuni timidi segnali di allentamento della crisi rivelatisi nel 2011, l’economia italiana sembra coinvolta in una nuova fase recessiva dell’attività produttiva... Dopo i buoni risultati del 2011, torna a scendere nel 2012 la quota di imprese che prevede di ricorrere ad assunzioni di personale... In termini assoluti sono poco più di 631.000 le assunzioni che le imprese prevedono di effettuare”. Ma anche le uscite scendono, per cui la riduzione netta va, solo, dal -0,7% del Veneto al -2,2% della Sicilia. Chi ha già un lavoro ha buone probabilità di non perderlo (o di non lasciarlo, perché va in pensione più tardi). Chi non lo ha scarse probabilità di trovarlo. Per il livello di istruzione richiesto, ci sono variazioni molto modeste. La percentuale di assunzioni previste senza titolo di studio resta intorno al 32% (dal 33); quella con titolo di scuola professionale intorno al 12%; quella dei diplomati al 41%; quella dei laureati sale leggermente, dal 12 al 14% (con le differenze già messe in rilievo, per il Piemonte, da Adriana Luciano). Bisogna tener presente che, come si apprende dai dati della Fondazione nordovest, ed anche direttamente dai dati Excelsior per territorio, al Nordest la percentuale dei laureati è un po’ più bassa perché non è l’industria a richiederli.
Non è una scoperta che i laureati trovino lavoro nella ricerca, nell’istruzione, nell’informatica, nelle comunicazioni. Nell’industria e nelle aziende private in generale servono soprattutto nella dirigenza, nel marketing. Se i ricercatori per mille occupati restano quelli commentati da Gian Antonio Stella sul "Corriere della sera” del 20 gennaio 2013 -17 in Finlandia e in Islanda, 4,3 in Italia, al 33° posto su 35 paesi Ocse, se vogliamo cedere alla moda delle classifiche- non è prevedibile un aumento dell’assunzione dei laureati in Italia, anche se scelgono le professioni più richieste. Del resto, se la scuola non assume, se le maestre, le professoresse, le infermiere, devono lavorare almeno 5 anni in più, spostando in avanti il picco già previsto delle assunzioni, se la massima industria italiana sposta la testa a Detroit, e le piccole aziende non possono permettersi una ricerca in proprio, è ovvio che si resta alla sconfortante constatazione che l’Italia ha molti meno laureati degli altri paesi europei, ma non ha bisogno neppure di quelli. Mantiene a insegnare le nonne e non assume le nipoti. Bisognerebbe prendere molto sul serio la proposta di Luciano Gallino dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza, partendo dai settori in cui il rinnovamento, l’allargamento, almeno il mantenimento, non sono un espediente per mascherare la disoccupazione, ma una assoluta, vitale, necessità: gli asili, le scuole materne, le scuole elementari, le secondarie, le professionali, la ricerca pubblica. Da quando avevo poco più di vent’anni, più di mezzo secolo fa, vedo chiudere o disfarsi istituti di ricerca, pubblici e privati, sempre per ragioni economiche di brevissimo periodo. Il debito pubblico non viene da un eccesso di maestre e di ricercatori. Alla fine la miopia si paga.

Lavori che muoiono, lavori che nascono
Per non restare al rimpianto di ciò che ci piacerebbe ci fosse, ma non c’è, e che può nascere solo da una svolta politica in Europa, cito alcuni cambiamenti dei lavori di cui so qualcosa per caso.
In una città cresciuta con l’industria tessile, Biella (il primo sciopero contro la sostituzione di operai non specializzati ai tessitori di mestiere, a Valle Strona, più di un secolo fa), aziende storiche sono passate ai tessuti non tessuti. Si tratta di stoffe in cui la trama e l’ordito ci sono, cioè ci sono fibre perpendicolari le une alle altre; ma non sono intrecciate, non sono tessute, ma saldate termicamente. Dal punto di vista della porosità e della resistenza la stoffa si comporta come un tessuto; dal punto di vista della produzione, non ci sono più telai, neanche i velocissimi telai ad aria, non ci sono più operaie. Una macchina operatrice molto grande e complessa, lunga un centinaio di metri, ingurgita le palline di polistirolo da un lato e sputa dall’altro la stoffa, a una velocità -1.800 metri al minuto- che si è costretti a farsi ripetere per paura di non aver capito. Lì un’altra macchina taglia e impacchetta. Ingurgita stoffa e sputa balle già pronte per la spedizione. Il costo del lavoro per unità di prodotto si esprime più facilmente in per mille che in per cento.
Se ci si ferma alla fase finale, si può solo concludere che un percorso secolare si è finalmente concluso: il tessitore è stato totalmente sostituito dalle macchine; il lavoro è sparito; non c’è più fragore né polvere; non c’è più conflitto; non ci sono più problemi. Ma le cose non stanno solo così. Bisogna porsi molte domande, di cui conosco le risposte solo in minima parte.
È un’ottima cosa che si possano produrre stoffe senza fragore né polvere; come è un’ottima cosa che i montaggi finali a Melfi, a Pomigliano, a Mirafiori, se mai riprenderanno sul serio, abbiano le catene di montaggio ergonomiche. Ma i tessuti veri sono un’altra cosa. Le stoffe per i cappotti, o per le giacche a vento, si fanno con la lana o col Goretex, che è un multistrato molto complesso. Chi produce i tessuti veri? Dove? Chi produce le macchine operatrici che filano e saldano, e dove? Chi produce le macchine utensili per produrre le macchine operatrici, e dove? Chi le progetta? Chi progetta i colori, forse i disegni, dei tessuti non tessuti? Chi mantiene i contatti con le case di moda, o dell’abbigliamento? Perché i tessuti non tessuti si fanno ancora a Biella? Solo perché le vecchie famiglie del tessile stanno lì e non altrove e hanno i contatti con l’abbigliamento e la moda e non, che so io, con i produttori di iPad e simili? Oppure conta la prossimità a Milano?
Ho provato la strada facile per trovare almeno qualche risposta. Ho digitato macchine tessuti non tessuti e ho scoperto che c’è almeno una quindicina di aziende italiane che le produce; più una grande azienda tedesca, la Siemens, che è stata molto importante in Italia, per i telefoni e per molto altro; più un’azienda cinese, naturalmente. Le aziende che sembrano più importanti sono sul Brenta, per il Nordest, e sull’Arno per Prato. Ma è difficile ragionare sui rapporti tra settori perché i tessuti non tessuti vanno dal geotessile -teloni molto grandi, pezze larghe 5 metri, saldate, per contenere discariche, coprire accumuli- al farmaceutico.
Cercare le risposte alle domande che ho cercato di formulare non è solo un vezzo, un tentativo di ricostruire dal basso ciò che gli addetti al settore sanno già; un andare a piedi in cima a una montagna dove tutti arrivano in macchina. Chiedersi perché ciò che si fa qui si fa qui e non altrove è il percorso principale per capire i limiti e la possibilità della difesa del lavoro. Il lavoro può difendersi se è necessario, non sostituibile a volontà. Come il lavoro che produce il biomedicale, o i motori, a Modena. Naturalmente si può sempre rispondere che le cose si fanno qui perché questa è la volontà del Capitale. O la volontà di Dio.
Si può stare però dalla parte di chi crede nella voluntas Dei ordinata non absoluta. I capitalisti devono obbedire a regole, anche se meno dei loro dipendenti. Quelle regole dovremmo capirle.