La strage di 148 studenti dell’Università di Garissa, in Kenia, da parte di militanti islamisti somali di Al Shabab, il 2 aprile scorso, ha suscitato una grande emozione, aggravata dalla selezione degli uccisi in base al credo religioso. Sono stati uccisi cristiani, cattolici e protestanti; risparmiati gli islamici. All’emozione, anche per alcuni dettagli macabri, si è aggiunto lo sconcerto perché la polizia è intervenuta sette ore dopo l’inizio dell’attacco, perché sarebbe coinvolto il figlio di un alto funzionario del Governo keniano; perché il Governo ha minacciato di deportare nel loro paese i somali di un campo profughi al di qua del confine, che ospiterebbe 400.000 persone e, forse, darebbe rifugio agli shabab. Si sono viste in televisione (in particolare alla Bbc) capannucce tutte uguali, alte poco più di un metro, a perdita d’occhio, nella piana polverosa, come all’inizio di "Vai e vivrai” (la storia del bambino spacciato per falascià dalla madre, per farlo accettare in Israele). L’enfasi prevalente dei media è sulla guerra di religione, sul nemico islamista (se non, più semplicemente, islamico) potente, universale e minaccioso, che "muta nome perché muta lato”, ma che certo opera a nostro comune danno.
La realtà, per quel che ne può capire un lettore di libri e giornali, è forse orribile davvero, ma molto più complicata. Soprattutto all’origine di molto orrore, senza risalire alla Guerra d’Etiopia, ci sono proprio le grandi potenze e, in particolare, in Somalia, per ovvi motivi, l’Italia.
Tra due rive
A Torino, chi lavora con gli immigrati, ha incontrato i somali (in effetti soprattutto le somale) una trentina di anni fa, nelle associazioni universalistiche e nei gruppi di ricerca. In un ambiente di immigrati molto connotati politicamente, con storie di resistenza o di espulsione alle spalle, esiliati politici in sostanza, le somale, malgrado, alla fine degli anni Ottanta, si fosse alla vigilia della caduta del Governo di Siad Barre, facevano eccezione, non sembravano avere una posizione politica in senso proprio. Questo rendeva un po’ reticente il loro rapporto con eritrei, ruandesi, maghrebini, ma certo non le metteva in difficoltà con i -pochi- ricercatori italiani del gruppo, che cercavano di mettere in luce la realtà sociale e culturale, i rapporti di lavoro, dei migranti, non le loro opinioni politiche, anche se le ascoltavano volentieri.
La vera sorpresa fu il livello di istruzione delle somale, alto, forse più alto di quello degli altri migranti, malgrado il 94% di analfabetismo femminile delle statistiche correnti. Avevamo cercato delle interpreti, pensando che poche parlassero italiano, che lì non si insegnava più nelle scuole, salvo all’Università nazionale somala. Non ce ne fu bisogno. In sostanza, le somale di Torino, anche quelle che facevano le serve, venivano dal vertice sociale del paese; forse dall’un per mille più alto della società somala.
Il nostro tramite, forse bisognerebbe dire la nostra garante, con il mondo dei somali, fu Starlin Harush, amica di Maria Viarengo/Abebù Alberto (a seconda che la si chiami all’uso italiano o a quello oromò; una, forse la più importante, delle anime del gruppo di ricerca) e di molte somale, eritree, etiopi, di molte donne del Corno d’Africa, della ex-Africa Orientale Italiana. Starlin fu una dei più di venti firmatari della ricerca; ma dire che fu una ricercatrice è insieme troppo e troppo poco. Starlin non fece interviste e non fu intervistata. Permise, promosse, le interviste; e fu una fonte straordinaria, una vera commentatrice in continua, del mondo politico e culturale somalo, degli eventi drammatici che si susseguirono in quegli anni, dei clan e delle loro rivalità, delle necessità di superarle. Lei, come dice il nome, era figlia di Harush, veterinario, referente di una confraternita sufi, esponente importante degli Habr Ghedir, del ceppo Hawiye. Sua sorella Halima era il vero capo della famiglia (oltre che autrice di articoli sull’Unità). Starlin ne era l’Ambasciatore, il Ministro degli esteri, in Italia e in Europa. Da lei abbiamo sentito i resoconti della battaglia di Mogadiscio, durante l’intervento americano e italiano "Restore Hope”, degli scontri a Checkpoint Pasta, della sempre fallita caccia a Mohammed Farah Aidid, un importante signore della guerra degli Habr Ghedir. La spiegazione del fallimento era la stessa che ha dato Evans-Pritchard della impossibilità degli italiani di sottomettere i Senussi di Cirenaica: le lealtà locali, familiari, di gruppo, sono sempre più forti di tutte le altre, anche più forti del denaro e della paura della morte. Descriveva un mondo in cui l’Islam non contava quasi nulla a confronto con la famiglia e coi costumi. Un mondo violento, di liberi armati, pluralistico dal punto di vista religioso. Starlin cercò di spiegarci che i controlli delle grandi potenze sulle armi delle varie fazioni non avevano lo scopo di controllare che non ci fossero armi, ma che le armi consentite alle varie famiglie per autodifesa, le mitragliatrici, le famose tecniche, fossero realmente dove dovevano essere e non in giro a far danno. Disarmare qualcuno in un territorio senza Stato avrebbe voluto dire condannarlo a morte.
Starlin ci lasciò appena tornata da un viaggio all’estero. Venne a salutarci. Disse: "Vedete, ho sempre pensato di appartenere a questo mondo qui oltre che a quello là; di appartenere a tutte e due le rive. Ma non è vero. Mi hanno trattenuto tre giorni senza motivo all’aeroporto di Vienna. Perché? Perché sono una negra! Torno dai miei”. Forse, semplicemente, c’era bisogno di lei, lì. Dopo la morte di Aidid si trasferì a Merka, dove la sua famiglia aveva vissuto per generazioni, dove erano le sue terre. Fece attrezzare un ospedale e promosse per anni, anche con associazioni italiane, un’assistenza universalistica, non limitata a un solo clan; e il disarmo dei clan. La chiamavano la Regina di Merka. Noi ci eravamo limitati a chiamarla cugina anarchica di Nefertiti (lo sapeva di somigliare; e lo sapeva chi le aveva regalato un ciondolo con il più famoso profilo d’Egitto). L’Economist1 fece su di lei un articolo nel 1999 intitolato "The first war lady”, la prima signora della guerra, perché era armata. Lei si schermiva dicendo che aveva solo due o tre tecniche, ma che importante era l’ospedale. Il giornalista osservava che lei rideva molto, soprattutto quando raccontava cose orribili. Posso testimoniare che era vero. La ammazzarono con una raffica di mitra da un Suv, nel 2002, a Nairobi, dove era andata, da osservatrice di una delle infinite trattative per formare un governo somalo, dopo aver "umilmente” (diceva in una lettera) rifiutato di rappresentare la sua famiglia. Il Guardian2 le dedicò un necrologio (vedi link). Forse rifiutare la protezione della famiglia in Somalia, e in tanti altri posti, non è una buona idea, se si ha paura di morire.
Shabab
Il necrologio del Guardian, dopo molti riconoscimenti, ricordava che Starlin, che non era sposata (e perciò, diceva lei orgogliosamente, non era proprietà di nessuno e non portava il velo) aveva però un fidanzato, l’accademico francese (Cnrs) Roland Marchal. In rete ho trovato facilmente, tra molti altri, un suo lungo articolo sull’origine degli shabab3, sulle loro idee, sul reclutamento, sul finanziamento, sui modi tenuti per governare e punire. L’articolo non è certo elogiativo, anche se sostiene, citando a memoria, che "gli shabab non sono le persone peggiori del mondo, mentre alcuni somali lo sono”. Una lettura completa è sconcertante perché il numero dei gruppi islamisti, in varia misura violenti, sembra, a prima vista, maggiore di quello delle fazioni anarchiche (o neonaziste, per non rischiare associazioni positive). Alcune tesi di fondo sembrano però ben dimostrate e dovrebbero far riflettere: la radicalizzazione islamista ha riguardato il fondo della società, i senza famiglia, i profughi, i morti di fame; la radicalizzazione non ha reso violenti gruppi pacifici ma ha reso, in un qualche senso, religiosi gruppi violenti; le idee, le tesi religiose, sono arrivate dai centri teologici della vicina penisola arabica, forse i finanziamenti dalla infinita ricchezza delle monarchie petrolifere, ma l’organizzazione è locale; il successo degli shabab dipende anche dalla distruzione, nei decenni, di altre potenziali classi dirigenti, perché islamiche (come le corti islamiche, che erano vecchi notabili), perché sgradite. Caso per caso, lo sviluppo degli estremisti e degli shabab è direttamente connesso a singole operazioni militari straniere, da "Restore Hope” degli americani all’invasione etiopica, e keniana. Prima o poi dovremmo smettere di sostenere i wahabiti buoni, non solo perché si reggono sugli schiavi, ma perché finanziano i wahabiti cattivi. Dovremmo provare a prendere sul serio quelli che vorrebbero costruire la pace.
Fonti:
1. www.theguardian.com/news/2002/nov/04/guardianobituaries.jamesastill
2. www.economist.com/node/234839
3. www.sciencespo.fr/ceri/sites/sciencespo.fr.ceri/files/art_RM2.pdf