Non è il caso di ricordare ancora che alcuni dei paesi di arrivo sono tra i pochi al mondo ad avere la popolazione residente in caduta, un vuoto demografico, importante in media, drammatico per alcune aree, come la Germania orientale, l’Italia meridionale, i Paesi Baltici. Sono i migranti, che vogliono costruirsi una società aperta, a rappresentare la speranza, culturale, politica, oltre che demografica, dell’Europa. È invece il caso di sottolineare che non si tratta solo di accogliere o non accogliere e di come accogliere. I morti che vediamo -il corpo del bambino sulla sabbia con la faccia nell’acqua, poi preso in braccio in un atto di pietà, i corpi che galleggiano, le sagome dentro le navi affondate- sono una parte insignificante delle centinaia di migliaia, dei milioni di morti che non vediamo: bruciati, smembrati, sepolti, nelle loro case, nelle loro città, nelle loro capanne. Si tratta di guerre locali che ormai interessano tutto l’arco sudorientale dei confini dell’Europa, da pochi chilometri a centinaia di chilometri al di là di essi, fino al cuore dell’Asia e dell’Africa. In Asia si va dalla guerra civile pervasiva in Israele (non è più giusto dire Israele/Palestina, anche se all’Onu ci sono due bandiere: c’è un solo Stato che ha il monopolio della forza, che dovrebbe essere lo Stato di tutti i residenti), alle guerre multinazionali in Siria e in Iraq, allo Yemen, all’Afghanistan, al Pakistan, fino ai confini della Cina. In Africa dalla Libia, alla Tunisia, all’Egitto, represso ma non pacificato, alla Somalia, al Kenya, alla Nigeria, al Camerun, al Ciad. Spesso sono guerre civili identitarie, religiose, tra fazioni locali, ma gli aerei che bombardano, i droni, i satelliti, i corpi speciali, i servizi segreti, i soldi, le macchine, le armi, sono degli Stati più potenti del mondo, nella maggior parte dei casi occidentali, talora anche europei. Si usa dire, per giustificare il rifiuto dei migranti: aiutiamoli a casa loro. Forse dovremmo, per cominciare, smettere di ammazzarli a casa loro, come facciamo, con alterna fortuna, da qualche secolo.
Le guerre, i massacri
Non si tratta di ripetere la rituale condanna dell’imperialismo europeo e americano, dei suoi genocidi, della sua violenza. Gli europei e gli americani di oggi, in parte discendenti dei colonizzati di ieri, dei sopravvissuti ai genocidi, degli schiavi mai interamente affrancati, non possono disfare ciò che è stato fatto. Sono però responsabili dell’uso che continuano a fare della loro soverchiante potenza. Dovremmo conoscere, ricordare, studiare il passato e l’attuale struttura di potere, gli attuali rapporti di produzione del mondo. Congo, di David van Reybrouk, tradotto da Feltrinelli, è un libro terribile, non solo perché ci racconta la storia dello Stato Libero del Congo, cioè di un paese conquistato e trasformato in proprietà privata di un sovrano (libero è un aggettivo bellissimo ma notoriamente ambiguo). Questo pensiamo di saperlo tutti. La storia di Stanley e Livingstone la conosciamo, più o meno. Cuore di tenebra lo abbiamo letto. Congo è un libro terribile perché, al di là degli omicidi politici (anche Lumumba ci è noto), delle dittature, dei massacri, mostra la terribile continuità del dominio dei ricchi e potenti, permanente e proiettato nel futuro. Anche oggi il mondo è libero in un senso non molto diverso da quello di allora. La proprietà e il potere dei ricchi sono di nuovo più forti degli Stati. I ricchi pretendono di dirimere le loro controversie tra loro, con arbitri da loro nominati, al di sopra delle nostre teste e delle nostre presunte democrazie.
L’Arabia Saudita è uno Stato patrimoniale, molto più ricco, più importante, più accettato di quanto non lo fosse il Congo. Le grandi aziende, gli eserciti, i sistemi industriali che lo armano, se ne servono e lo difendono, sono più potenti del Belgio di un secolo fa. La Cina, che invade commercialmente il Congo e l’Africa, che compra la terra in Etiopia, non è più tenera ...[continua]
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