Sulla Regione e il fascismo
… Della Regione si è Parlato in tutti i tempi, e non già per creare qualche cosa di artificioso, ma in relazione alla necessità di migliorare, modificandola, la costituzione politica, amministrativa, dello Stato italiano, la quale, se non sembrava fosse la costituzione ideale 60 anni fa, tanto meno sembra -almeno a noi- che possa essere la costituzione da mantenere e da stabilizzare oggi, dopo il fascismo. Il problema fu sentito anche da Mazzini il quale, dopo il 1860 ed anche prima, si ribellò contro il sistema accentratore piemontese che si voleva imporre, e s’impose infatti, a tutta l’Italia, e ne vide fin da allora tutte le conseguenze. «Non è questa l’Italia che io sognavo» -egli disse- e pensò alla Regione e al Comune; anzi, al Comune prima della Regione.
[…] il problema della Regione diventò vivo, vivissimo, e fu agitato subito dopo l’avvento del fascismo: allora si capì veramente che cosa poteva rappresentare per la libertà nella vita politica di uno Stato un ordinamento a base regionale. Si vide quello di cui non s’è accorto, nemmeno oggi, l’onorevole Nitti: cosa rappresenti cioè Roma nella vita politica italiana, Roma, la capitale dello Stato, la capitale in cui sono concentrati tutti gli uffici e tutti i poteri e dove bastò che Mussolini arrivasse con le sue camicie nere. C’è stata la marcia su Roma, onorevoli colleghi, non su Palermo o su Napoli o su altre città, nelle quali non avrebbe avuto conseguenze politiche. La marcia su Roma invece, sì, poteva averle e le ebbe, appunto perché, quando c’è l’accentramento statale come c’era e c’è in Italia, è molto facile mettere la mano sulle leve di comando e assoggettare tutto il Paese.
È un vecchio avvertimento della democrazia ed è una vecchia esperienza. Quando in un solo punto stanno concentrati tutti i poteri e tutte le forze è assai facile -e lo avvertì un giorno Cattaneo- a chi riesce a mettere le mani sul potere stabilire la dittatura.
Ed infatti l’antifascismo si orientò istintivamente verso la soluzione regionale; e vi si orientò valutandola sotto l’aspetto di una soluzione di democrazia e di libertà nello Stato. Nessuno fra di noi, che ne facemmo argomento della nostra battaglia, pensò alla Regione di per se stessa, come ad un organismo separato e indipendente dalla vita della Nazione. La vedemmo invece, proprio nel periodo del fascismo, come una soluzione democratica. E alla Regione non si pensava di arrivare, come si pensa di arrivare oggi, per una concessione dall’alto: si pensava di arrivarci, invece, attraverso le autonomie comunali e con un sistema di collegamento tra comune e comune, che facesse della Regione non già un organismo per sé stante, ma un mezzo, una specie di ponte di passaggio fra le autonomie locali e l’autorità dello Stato.
Quest’idea della Regione, intesa non già come un organismo indipendente e separato da tutti gli altri ma come un organo di collegamento, di trasferimento della sovranità dal basso verso l’alto, fu compresa e accettata da tutti. Io ricordo, avendo stampato un libro in quel tempo, che «Critica Sociale» diede, almeno da parte di qualcuno dei suoi collaboratori, ampio riconoscimento a questa concezione nuova e democratica della struttura dello Stato; e ricordo altresì che quelle mie tesi furono apertamente sostenute anche da un altro giornale socialista che era allora diretto, oltre che dal Rosselli, dall’onorevole Nenni, «Il Quarto Stato», e molto esplicitamente.
Anche dopo, durante il fuoruscitismo, il programma di agitazione e di lotta che s’intendeva svolgere contro il fascismo e contro la dittatura fu impostato da tutti partiti -dico da tutti i partiti- sul terreno delle autonomie. Dirò di più: spaventatevi pure, fu impostato sul terreno del federalismo. Persino dai comunisti, come ha ricordato del resto l’onorevole Lussu!
Sul regionalismo, inteso come problema di sovranità che si diffonde dal basso verso l’alto, si manifestarono concordi pure altri uomini politici di varia provenienza: potrei citare il Gobetti, che aderì completamente alle nostre idee; potrei ricordarvi Guido Dorso, rievocato e celebrato anche oggi, che sulla base della esigenza autonomista e anticentralista, impostò quella che egli chiamò la rivoluzione meridionale. [...]
Se il fascismo fosse caduto per una rivoluzione, per una insurrezione ci ...[continua]
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