"I soldati israeliani che hanno ucciso palestinesi disarmati non sono spuntati dal nulla per la prima volta tre settimane fa. Né le giustificazioni dell’esercito sono iniziate solo allora. Siete voi che non leggete, non ricordate o non credete”.
È l’inizio di un’articolo su "Haaretz” del 16 aprile 2018, di Amira Hass, giornalista ebrea israeliana, di famiglia rumeno-bosniaca, che vive a Ramallah e spesso scrive da lì, dopo una delle manifestazioni alla frontiera, chiamate indebitamente "scontri”, o addirittura "guerriglia”, su "La Stampa” e altri giornali italiani. Come sappiamo, le manifestazioni sono state bersagliate con proiettili veri dai militari israeliani, con decine di morti e centinaia, nel complesso migliaia, di feriti. Anche in una sola delle prime giornate, il numero dei morti e feriti eguaglia quello dell’eccidio di Bava Beccaris, di cui cantiamo ancora: "Furon mille i caduti innocenti/sotto il fuoco di armati Caini”. Dopo aver letto della strage, Gaetano Bresci, che era emigrato in America, si procurò un revolver e tornò in Italia, a Monza, a uccidere il Re che aveva premiato il generale assassino.
L’articolo di Amira Hass, leggibile per intero sul sito Zeitun, prosegue:
"La vergogna è importante, è un peccato che arrivi così tardi... Quello che rende possibile questa tardiva apparenza di vergogna è la tecnologia che ha trasformato ogni persona con uno smartphone in un fotografo e ogni applicazione delle reti sociali in uno schermo gigante, portando in ogni casa prove fotografiche imbarazzanti”. Per molti giornali italiani, per quasi tutti gli italiani, le immagini non sembrano essere state sufficienti a condannare le uccisioni; a provarne vergogna”.

Il Diario
Ci si può chiedere: chi è Amira Hass? Da dove viene la sua capacità di indignarsi, da dove viene la sua esigenza di giustizia, il suo rifiuto dell’oppressione, l’accettazione dei rischi e dell’isolamento? Qual è la storia sua e quella della sua famiglia?
Il Diario di Bergen-Belsen, 1944-1945 di Hanna Lévy-Hass, preceduto da Note su mia madre, e seguito da una Postfazione di Amira Hass, a cura di Cristiana Cavagna, Carlo Tagliacozzo e Amedeo Rossi, risponde in parte alla domanda.
"Hanna Lévy-Hass, nata a Sarajevo il 18 marzo 1913, morta a Gerusalemme il 10 giugno 2001… era la figlia più piccola di una famiglia di ebrei sefarditi, aveva tre fratelli e quattro sorelle… La lingua che si parlava in casa era il ladino-spagnolo del XV secolo mescolato all’ebraico antico. Hanna comprendeva il ladino ma parlava serbo-croato. Studiò a Belgrado, dove giunse con sua madre e una sorella all’inizio degli anni Trenta. Borse di studio statali… le permisero di studiare… Un compagno di classe di un suo fratello, di vent’anni maggiore di lei, Gavrilo Princip, assassinò l’erede al trono austriaco il 28 giugno 1914. Un mese dopo l’Impero austroungarico dichiarò guerra alla Serbia…
Con la fine della guerra e la sconfitta austro-tedesca, la Bosnia divenne parte del Regno di Jugoslavia. Un motto di spirito comune afferma che gli unici ‘jugoslavi’ erano gli ebrei: non i bosniaci, né i serbi, né i croati. Gli ebrei erano a proprio agio nella nuova federazione, un insieme di identità religiose ed etniche sotto lo stesso regime...
Mia madre considerava la Jugoslavia come sua patria, come proprie le sue canzoni e il suo paesaggio. Un suo fratello maggiore, Michael, era un noto attivista sionista, mentre nulla era più lontano dai suoi pensieri del trasferirsi nella lontana terra di Palestina, né prima del 1945 né nell’estate del 1945, quando tornò da Bergen-Belsen… Ma a poco a poco si rese conto che si trovava davanti a un vuoto enorme, consistente non solo nel lutto suo personale e collettivo, ma anche nel rifiuto della gente di riconoscere l’unicità della tragedia degli ebrei europei… I suoi sentimenti e le sue esperienze come jugoslava, come ebrea e come comunista… e l’assenza di riconoscimento della sua sofferenza personale e collettiva fecero nascere in lei il seme dell’irrequietezza che si sarebbe manifestata prima nella sua emigrazione in Israele e poi nelle sue diverse ‘fughe’ (come lei stessa le definiva) da Israele per svariati periodi di tempo… ‘Non sono sicura di potermi definire comunista’, disse due o tre anni prima di morire (da molto tempo non aderiva più al partito ‘comunista’). Oggi capisco che intendeva riferirsi alla rigidità quasi religiosa, all’assenza di dubbi, alla fede messianica in una dottrina del ‘lieto fi ...[continua]

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