Andrea inizia il suo dialogo segnalando e mostrando un libro di Hirschman da tener presente, anche se non dei più noti: Development Projects Observed (1967), in italiano I progetti di sviluppo, che analizza dieci progetti finanziati dalla Banca Mondiale in varie parti del mondo tra cui il Mezzogiorno italiano. Dice Andrea:
Hirschman fa propria una proposizione del filosofo Whitehead: "la delucidazione dell’esperienza immediata è l’unica giustificazione di ogni pensiero, e il punto di partenza del pensiero è l’osservazione analitica delle componenti di quella esperienza”. La realtà è un processo, un insieme connesso. È impossibile discernere completamente tra oggetto e soggetto. L’esperienza precede e condiziona la coscienza, non viceversa.
Mi è capitato di aver scritto su Hirschman nel 1983, per l’introduzione a Ascesa e declino dell’economia dello sviluppo e altri saggi, in cui avevo tentato di fare un’operazione, in parte criticata dallo stesso Hirschman, che consisteva nel cercare di capire la relazione esistente tra il pensiero di Hirschman e quello degli economisti pre-mainstreaming o pre-neoclassici. A distanza di anni mi sono trovato a riprendere in mano le cose che avevo scritto per un convegno in Turchia e mi sono emerse con evidenza molte altre cose che non avevo visto prima. Ad esempio il fatto che Hirschman si colloca in un filone di pensiero che è addirittura precedente e più ampio di quello degli economisti classici, un filone che prende le mosse da Goethe, Hegel, Marx e poi si ramifica in due direzioni: il pragmatismo americano e il pensiero di Sraffa e Gramsci. Questo filone è quello della filosofia dell’azione.
La prospettiva di Hirschman sottolinea l’importanza ai fini dello sviluppo di ciò che un paese fa e può fare e contesta la prospettiva che si concentra invece su ciò che un paese è in termini di dotazioni. Non è la coscienza, la ragione che produce l’azione, ma, al contrario, prima viene l’esperienza che condiziona lo schema mentale. La realtà si muove in un processo che si sviluppa nel tempo, per cui occorre partire dall’idea del processo, non dall’idea di una dotazione, di agenti dati, di tecnologie date che determinano un equilibrio. Non bisogna osservare la realtà a partire da un precostituito schema mentale causale, ma compiere un’osservazione analitica, esaminare le circostanze che possono far scaturire un passaggio verso nuove condizioni, attivare un meccanismo di sviluppo.
Esistono tre tipi di argomentazione:
- deduzione: da principi generali o premesse si procede a uno svolgimento logico (Cartesio);
- induzione: a partire da una ipotesi si cercano fatti che la confermano;
- abduzione: si immaginano i fatti a partire da una manifestazione del reale.
L’abduzione secondo me è il metodo che segue Hirschman. Un esempio la può spiegare. Darwin in Madagascar trova un’orchidea con uno sperone di 20 cm e al fondo il nettare. Si riproducono grazie a un insetto, ma quale insetto è in grado di arrivare fino in fondo? Darwin non vede insetti in grado di farlo, e abduce che doveva esistere un insetto con una proboscide di almeno 25 cm per superare lo sperone. Vent’anni dopo, quando Darwin è già morto, l’insetto viene effettivamente trovato. Non è un caso di induzione, perché il fatto Darwin non lo ha trovato, ma di abduzione: il fatto è immaginato a partire da una manifestazione.
In Hirschman l’opzione per il procedimento di abduzione attinge probabilmente anche all’antropologia, che si caratterizza per lo sforzo di guardare a un’altra cultura allentando la presa delle categorie della propria. Come sappiamo, il metodo impiegato in antropologia a questo fine è quello dell’osservazione partecipante: l’osservazione è centrale. Un’altra influenza degli antropologi, in particolare Malinowsky, su Hirschman, è rintracciabile nella nozione di "meccanismi di induzione” o "meccanismi che danno il passo”. In questo caso si può stabilire un rapporto con la funzione che gli antropologi attribuiscono ai riti.
Questo procedimento, che poi è stato teorizzato da Peirce, rivaluta moltissimo la "buona” osservazione. È chiaro che l’osservazione è accompagnata da un bagaglio cognitivo, ma non necessariamente nell’osservare devo raccordarmi a una teoria precostituita. Questo è un atteggiamento positivo, molto presente in Hirschman e soprattutto in Development Projects Observed: quello di chi cerca di capire a che cosa si trova di fronte.
Qual è il vantaggio di questo modo di porsi? Prima di tutto, il fatto di non partire da una relazione causale, da circostanze, forze causali note. La spiegazione razionale arriva alla relazione causale, non parte da essa; prima, c’è la descrizione del fenomeno.
L’economia premoderna (classica) prima si concentra sul fatto, poi dietro al fatto individua una pluralità di cause. Inoltre pone attenzione a tutti gli effetti di feedback, collaterali, che hanno effetti di ritorno sulle variabili rilevanti. Anche Nathan Rosenberg sottolinea che nell’economia pre-neoclassica c’era un’attenzione agli effetti collaterali che poi si è persa. Development Projects Observed va proprio alla ricerca degli effetti collaterali, delle reazioni a catena: effetti spuri nello schema neoclassico ma rilevanti per teorie non neoclassiche. Critica ad esempio la distinzione tra microeconomia (lo studio del comportamento degli agenti all’interno del singolo mercato) e macroeconomia (lo studio del funzionamento dei sistemi complessi), che è del tutto fittizia, perché gli effetti e le reazioni del funzionamento dei singoli mercati sull’impianto economico generale sono enormi, non isolabili entro la logica del ceteris paribus.
Viene bene allora introdurre la distinzione che fa Gramsci tra classificazione metodica (quella per cui decido io l’aspetto su cui voglio concentrarmi operando un’astrazione, procedimento che abusa del ceteris paribus) e classificazione organica (la realtà è vista come connessa, la classificazione isola provvisoriamente un pezzo della realtà, ma non dimentica di essere un’astrazione).
Gli indicatori che usa la Commissione Europea per la valutazione dei progetti sono chiaramente il segno che questo ragionamento è ignorato. Sono proposti indicatori isolati che vengono dall’approccio dell’analisi costi-benefici (si parla di azioni e risultati, non di costi e benefici, ma lo schema logico è quello). Manca una matrice produttiva con tutte le connessioni fondamentali. Non ci si preoccupa di valutare le filiere, vedere come sono organizzate. Gli strumenti di valutazione andrebbero rivisti alla luce dei suggerimenti contenuti in Development Projects Observed: ad esempio, l’immersione nel particolare come elemento possibile, non certo, per cogliere qualcosa del generale, perché la realtà è interconnessa.
Ci sono caratteristiche strutturali che segnano il percorso dei progetti: competenze, prerogative amministrative o organizzative, etc. È un elemento su cui appuntare l’attenzione, perché queste caratteristiche sono rilevanti. Una volta individuate, si vede qual è la carenza fondamentale, la strozzatura che impedisce il funzionamento del progetto. La strozzatura non è solo tecnologica, può essere anche istituzionale o etnica, razziale... Ogni progetto ha nodi in grado, se non superati, di bloccare tutto. È cruciale tenere conto dell’aspetto temporale e dell’esistenza di più campi rilevanti, non concentrarsi su uno solo. In questo senso, i progetti di sviluppo sono nuclei di azione che, svolgendosi, rendono il percorso di sviluppo diverso da come uno si sarebbe immaginato sulla base di ciò che il paese è. Come detto prima, i progetti che un paese realizza contano, perché quello che un paese fa è più importante di quello che è: un’affermazione forte!
Ci vorrà sì una selezione, ma ciò che conta è che il meccanismo non è solo meccanicistico-causale. Soprattutto diventano fondamentali: l’osservazione e la descrizione (il luogo, il contesto, le filiere); il rifiuto di progetti scritti senza riferimenti alle realtà che si studiano; il rifiuto di errori categoriali che isolano gli elementi descritti (come per esempio, quando si parla di aree interne, la distinzione tra aree interne e città). Per quello è importante avere come opzione di base lo studio delle connessioni.
Ma isolarlo non significa costruire delle categorie a compartimenti stagni. Su questo è fondamentale il libro Sorting things out di Susan Leigh Star, che sottolinea l’importanza di fare buone classificazioni. Un’altra lettura fondamentale è quella di Elias, Che cos’è la sociologia?, con la sua descrizione di un’abitudine negativa a classificare in termini di elementi contrapposti (ad esempio "Stato” e "società civile”), quando in realtà la classificazione corretta si concentra sui collegamenti, sulle reti, non sull’opposizione. Il rischio viceversa è di continuare a trattarli come opposti e costruire politiche che finiscono per rafforzare l’opposizione anziché cercare relazioni.
Il tema centrale non è come classificare, ma come usare bene la classificazione, che è solo il punto di avvio della descrizione: i ricercatori e le burocrazie non sono attrezzati a una lettura di questo tipo. Occorre rompere le opposizioni categoriali, guardare in dettaglio e cogliere la rete. È per esempio paradigmatica la rottura di Sebastiano Brusco della separazione categoriale di piccole imprese e grandi imprese: ha mostrato che tra grandi e piccole imprese c’è una rete di rapporti, e che il fatto rilevante era quello.
Il problema è che le classificazioni vanno applicate allo stesso modo in diversi contesti (se parliamo di Europa, in Irlanda come in Germania) e allora i criteri si standardizzano. Ma se la realtà è diversa, le classificazioni devono essere diverse. Non stupisce che l’Europa stia perdendo terreno rispetto ai developmental states, ossia i paesi che non rinunciano all’interventismo statale (paesi asiatici, ma adesso anche l’Africa), che fanno analisi di filiera e individuano -e intervengono su- i punti deboli. Vedi ad esempio sull’Africa uno studio importante [forse delle Nazioni Unite] con analisi delle filiere sia sulle materie prime sia sulle manifatture, con identificazione dei punti deboli su cui intervenire.
L’approccio di Hirschman si può far risalire al Faust di Goethe: "In principio era l’azione” (non il Verbo). Goethe è teorico della morfologia -partire da quello che c’è- versus Newton teorico delle forze. Altro riferimento è Wittgenstein: "Non pensare, ma osserva!” (Ricerche filosofiche, 1,66).
Hirschman ha un antecedente negli anni Trenta: una discussione sulla pianificazione tra Robbins-Mises-Hayek campioni del liberismo, da un lato, e Dobb e Lange dall’altro sul tema della pianificazione economica (siamo all’indomani del consolidamento sovietico nell’ex-Impero zarista) e dell’ambizione di controllare tutto dal centro. Mises lo considera impossibile, perché non ci sono indicatori su cui basare gli interventi (gli unici indicatori possibili sono i prezzi in quanto indice di scarsità, ma in un’economia extra-mercato i prezzi non hanno questa funzione); Hayek e Robbins affermano la impossibilità di calcolare gli esiti degli interventi, con Hayek che aggiunge anche la questione del problema informativo: dove si hanno a livello centrale così tante informazioni per riuscire a decidere con efficacia? C’è una conoscenza distribuita che va intercettata, mentre lo Stato dal centro non sa nulla.
Lange risponde disegnando un sistema in cui un’economia può essere sia di mercato che pianificata, con il centro che lancia segnali, input (ad esempio il piano dei servizi), e la periferia che massimizza gli obiettivi privati sulla base di questi segnali.
Dobb ammette che non ci sono indici di scarsità in assenza di mercato, ma si possono egualmente scegliere le leve della accumulazione; in questo lo Stato ha un vantaggio rispetto al mercato, perché il mercato valutando i rischi scarta alcuni investimenti. Lo Stato invece può permettersi una visione di lungo termine che il privato non ha (lo sviluppo, l’assorbimento dei disoccupati…). L’occhio centralizzato è indipendente dallo short-terminism.
Hirschman ha accolto in qualche modo alcuni aspetti della critica di Hayek, ma dando una soluzione diversa: è anche lui contrario a uno Stato onnipotente, ma come Dobb considera le decisioni di investimento fondamentali. Lo Stato ha il compito di guidare tali decisioni, perché sono la chiave dello sviluppo. In che senso Hirschman segue Hayek? (Dalla biografia di Adelman sappiamo che Hirschman annota intensamente Hayek.) Perché è contro una pianificazione centralizzata. Al tempo stesso, Hirschman vede che il mercato non utilizza tutte le possibilità a causa del rischio legato all’incertezza. Lo Stato deve essere il garante della rottura dell’incertezza, guidando le decisioni di investimento.
Per esempio si può muovere una critica al Dipartimento per le Politiche di Sviluppo: nella sua visione lo Stato non svolge questa funzione di guida, ma mette in opera una specie di "portale delle idee”, sembra che applichi la forma mentis del concorso universitario. Lo Stato crea un quadro, una cornice, in cui si svolgono "tornei”.
C’è da discutere sul significato di coordinamento. Gli ammonimenti anticentralistici di Hirschman riguardano solo in parte le capacità informative e intellettuali. La sua idea è piuttosto che un intervento deve avere sì una prospettiva centralizzata ma anche una strumentazione decentrata; accoglie quindi la prima parte del ragionamento di Hayek, quello sulla difficoltà di raccogliere a livello centrale abbastanza informazioni per guidare l’economia anche a livello decentrato, ma non ne segue le conclusioni in termini di Stato minimo.
Bisogna concentrarsi sull’effetto delle politiche sulle decisioni di sviluppo, non sull’output, tenendo conto delle connessioni o altre decisioni che potrebbero seguirne. L’intervento deve essere volto a cogliere e sfruttare le connessioni cruciali, rimuovere le strozzature. Non necessariamente l’occhio centralizzato è lontano dall’oggetto dell’intervento: è una prospettiva. Il suo scopo è individuare i punti di attacco in una data configurazione.
Una volta capito che cosa bisogna fare, la scelta di come fare e l’azione, sono poi locali, decentrate. È importante l’attenzione per gli effetti successivi, per quello che si genera da una decisione, poi le possibili connessioni con altre decisioni che potrebbero seguire. Questa idea è stata oggetto di discussioni feroci di Hirschman con la Banca Mondiale, che insisteva invece sugli indicatori di risultato, la misurazione degli output nella logica dell’analisi costi-benefici, senza considerare gli effetti successivi.
Su questi temi, vedi Hidalgo e Hausmann (2009) The Building Blocks of Economic Complexity. Anche Rosenberg in uno splendido saggio del 1969 si occupa degli effetti collaterali: The Direction of Technological Change: Inducement Mechanisms and Focusing Devices.
In un recente volume di Mariana Mazzucato, Lo stato innovatore (2014) è contenuta una rivalutazione dell’impresa pubblica e del sostegno pubblico di cui hanno goduto le imprese private di successo. Di nuovo è smascherata la opposizione fasulla tra Stato e mercato; compito del ricercatore è individuare le relazioni effettive tra i due soggetti. Questo è un modo anche di riconoscere l’importanza dell’impresa privata, è una lettura non ideologica. Il contributo si lega a quanto si diceva prima: il ruolo dello Stato nel muovere le leve dell’accumulazione e svolgere un ruolo di guida.
Tornando a Hirschman, c’è un altro tema da evidenziare: la sua idea di sviluppo come trasformazione dello spazio dei prodotti, come risultato della diversificazione e complementarietà dei prodotti. È una critica diretta all’incremento della produttività come fattore unico di sviluppo: la spinta all’economia in realtà non viene dalla produttività, ma da diversificazione e complementarietà (un concetto che recupera il tema delle connessioni).
Due premesse. La prima: non si può ragionare solo sulla base del Pil, perché in questo modo non si vedono le opportunità, non si vedono le nuove ramificazioni e i nuovi prodotti. La seconda: i prezzi relativi non sono un indicatore di scarsità quando i mercati non funzionano bene (soprattutto in paesi in via di sviluppo, ma anche in quelli sviluppati), cosicché non è detto che le decisioni basate su di essi siano corrette. Lo sviluppo deriva allora non dalla combinazione efficace di fattori, ma, dice Hirschman, dalla "capacità di richiamare o arruolare capacità nascoste, disperse o utilizzate male”. È un tema di coordinamento, ma in un quadro che non è fisso, tale per cui basta definire al principio e una volta per tutte le regole del gioco, ma dinamico, per cui ha senso andare alla ricerca di risorse "da arruolare”.
I processi decisionali non sono dominati dalla scarsità, bensì dalla confusione; le decisioni sono sequenziali, non prese una volta per tutte, richiedono un continuo problem solving, la capacità di risolvere i problemi mano a mano che si manifestano; non è possibile individuarli tutti dal principio. Se la principale strozzatura è data dalla incapacità di prendere decisioni al fine di sfruttare le potenzialità esistenti, si devono allora trovare meccanismi che facciano scattare decisioni alternative, le quali a loro volta non sono certezze ma possibilità. Non c’è determinismo. È una teoria dello sviluppo con forze deboli, non meccanicistica; alcune decisioni sono più cogenti, ma l’esito non è mai scontato.
Hirschman parla di strategia nel senso di sequenza di decisioni, di società vista come processo, di sviluppo come qualcosa che si svolge ed esperienza che si accumula. Lo sviluppo è un percorso in un contesto di incertezza, di inadeguatezza a prendere decisioni. Ma in ogni situazione si può individuare l’elemento che blocca le decisioni, e provare a intervenire.
Nello studio sull’Africa si sono raccolte le opinioni degli agenti sui fattori di blocco: è una strategia di ricerca utile, permette di cogliere quali sono gli elementi che incidono. Questo non annulla la necessità della prospettiva centralizzata di cui si è parlato: ci deve essere un agente esterno in grado di sapere se una data produzione ha futuro o no, cosa che capisci se conosci il quadro d’insieme. Come esempio si può ricordare il Citer, centro servizi reali di Carpi: Loredana Ligabue che lo dirigeva aveva questo ruolo, di vedere più lontano delle piccole imprese del distretto. (Poi l’esperienza si è chiusa per i conflitti che a un certo punto si sono scatenati, oltre che per il cambiamento delle condizioni di contesto.)
Per Hirschman lo sviluppo viene dal coordinamento di decisioni sequenziali in condizioni di incertezza. In questo sono cruciali quelli che lui definisce "agenti collanti”, cioè le connessioni: decisioni di investimento sollecitate dalle caratteristiche di un prodotto. La politica di sviluppo si interroga su cosa blocca l’innesco delle connessioni, fa una analisi specifica su questo.
Secondo Hirschman, innanzitutto andando a vedere dove la trasmissione si blocca. Non tutte le situazioni richiedono lo stesso tipo di intervento e lo stesso tipo di Stato interventista. Oggi vediamo che alcuni Stati, ad esempio in Asia, hanno accumulato competenze su questo, che altri Stati non hanno o non hanno più. Dal libro di Mazzucato abbiamo evidenza che il tipo di Stato attrezzato in Occidente per fare questo, sfrutta un impianto militare importante, con capacità di pianificazione e osservazione più alti.
Una politica di sviluppo che Hirschman discute è quella della sostituzione delle importazioni. Questa è una politica che si potrebbe fare nel Sud Italia, ma di cui nessuno parla. Eppure è un indirizzo di politica industriale che per esempio gli stessi Stati Uniti stanno perseguendo, con azioni volte a riportare all’interno dei segmenti produttivi che erano usciti.
In questa discussione c’è di mezzo l’ideologia: la sostituzione delle importazioni viene presentata come sinonimo di protezionismo, e allora nel momento in cui il discorso slitta sul protezionismo, il tema si fa ideologicamente sensibile.
Hirschman non pensa in questi termini, pensa invece che l’importazione di un prodotto sia il segnale dell’esistenza di un mercato: qualcosa è stato comprato. Da qui, lui dice, è possibile partire per produrre quel prodotto all’interno, e farlo in un modo tale che sia possibile non solo soddisfare la domanda interna ma esportarlo. Lo schema è in sostanza: prendere un prodotto importato, imparare a produrlo, produrlo un po’ meglio, e alla fine esportarlo. Si tratta di un processo di apprendimento, e il modo in cui si impara è il problem solving.
È il modello che hanno seguito, e stanno tuttora seguendo, i paesi asiatici a più alto tasso di sviluppo -Corea, Giappone e Cina- ad esempio nel campo delle Ict; un processo che porta a ramificare sempre nuove filiere, nuovi prodotti e nuove qualità. Ed è lo stesso modello che ha seguito l’Italia negli anni del boom, 1959-62: sostituzione delle importazioni e crescita dell’export. Siamo sempre nell’orizzonte della filosofia dell’azione: è il fare che crea la coscienza. Possiamo citare anche il learning by doing di Kenneth Arrow (1962).
Sono due aspetti legati, è sempre cruciale l’analisi di cosa gli agenti sono in grado di fare. Il punto di partenza è la filiera di un prodotto noto: è possibile innovare? Cosa gli agenti sono in grado di fare? Le due opzioni che si hanno di fronte sono: diversificazione (si differenzia all’interno di una categoria di prodotto, per es. si producono due modelli di auto, la Panda e la Punto), e complementarietà (si differenzia tra categorie, cioè si produce un nuovo tipo di prodotto).
I dati raccolti a scala globale mostrano che i Paesi, mano a mano che salgono lungo la scala del reddito, si spostano sempre più verso un maggior peso della diversificazione. Più che l’immissione sul mercato di nuovi prodotti, si ha crescente immissione di nuovi modelli e varianti qualitative degli stessi prodotti. Diventa sempre più importante la differenziazione di qualità all’interno delle categorie di prodotto esistenti: per ogni categoria viene creata una grande varietà di prodotti tra loro diversi per un particolare profilo, aspetto, prestazione. La varietà qualitativa è sempre più alta. Questo ragionamento ha una rispondenza negli stessi scritti di Adam Smith, il quale affermava che un paese va valutato sulla base della varietà dei suoi prodotti, che genera benessere nella società.
Cosa deriva dalla prevalenza della diversificazione? Che c’è una forte competizione all’interno dei diversi segmenti di prezzo. La competizione principale non è tra prodotti ad alto prezzo o a basso prezzo, ma all’interno di ciascuna di queste fasce, perché la differenziazione è interna ai segmenti, c’è un continuo upgrading, un continuo rinnovamento della qualità. Una politica consapevole di questo cerca di vincere la competizione sulla qualità, non sul prezzo; spinge per sfruttare la tendenza alla diversificazione.
La complementarietà gioca sul fatto che una macchina prodotta per un certo tipo d’uso può essere impiegata per fare altre cose. Oppure si rende possibile usare assieme dei prodotti esistenti per ottenerne degli altri.
È voluto, ci sono dietro spinte di mercato per far sì che si allarghi il mercato delle tecnologie e dei prodotti Ict. Da tempo (dalla Strategia di Lisbona in poi) l’Europa si racconta che è rimasta indietro perché non ha introdotto abbastanza Ict o ha fatto poca ricerca e sviluppo, e ha impostato le sue politiche di investimento tutte sul potenziamento della ricerca e dell’innovazione tecnologica. Ma non è questo il motivo per cui è rimasta indietro. Hanno invece pesato politiche dissennate.
Nel fare l’analisi delle filiere una cosa interessante che si vede, è che ci sono grappoli di prodotti da cui possono uscire altri prodotti. Più un paese aumenta il numero e la complessità dei prodotti che produce, maggiore è la chance di sviluppo. Ho scritto un articolo con Annamaria Simonazzi di comparazione tra i paesi del sistema Germania-Europa orientale e del Sud Europa, che ha messo in evidenza come comparativamente nel Sud si producano poche cose, e semplici. Il divario ha anche questo profilo. Più cose si producono, più aumenta la probabilità di produrne altre.
Un’ultima cosa mi preme rimarcare: Hirschman era non solo critico verso l’ortodossia, ma anche verso se stesso. Parla di "autosovversione”, che sta poi per autocritica. Nel suo primo libro National Power and the Structure of Foreign Trade del 1945 (tradotto in italiano, peraltro solo in parte, come Potenza nazionale e commercio estero) si concentra sulla influenza nazista sui paesi dell’Europa orientale.
Hirschman mostra come essa fosse dovuta non alla natura diabolica del regime, ma alla capacità di avvantaggiarsi dei meccanismi ordinari secondo i quali funziona il commercio internazionale. Il potere economico della Germania era molto più grande di quello dei paesi piccoli, cosicché la semplice minaccia di interrompere gli scambi metteva questi ultimi alla mercé del nazismo (l’interscambio col paese piccolo è una piccola quota dell’interscambio complessivo del paese grande, ma il rapporto di forza si inverte per il paese piccolo che è invece in posizione di dipendenza dal paese grande). Un rapporto molto simile a quello che oggi esiste tra la Russia e l’Ucraina e le altre repubbliche ex-sovietiche.
Nel 1981 Hirschman torna sul libro, criticandone non la tesi in sé, ma il fatto di essersi fermato troppo presto: non essersi cioè posto la domanda ulteriore sul grado di stabilità di questo rapporto di dipendenza, avere ignorato la possibile esistenza di un meccanismo dialettico capace di attenuare l’asimmetria originaria, non avere visto la controtendenza che invece esiste. Se l’asimmetria commerciale favorisce il paese grande, l’asimmetria politica favorisce il paese piccolo, perché il paese piccolo presta la massima attenzione al rapporto di dipendenza che lo lega al paese grande e tenta di ridurlo, mentre il paese grande dedica scarsa attenzione al rapporto col paese piccolo. In sostanza il paese dipendente si impegna a sfuggire all’influenza, più di quanto l’altro si impegni a mantenerla.
Hirschman dice: mi sono fermato troppo presto. C’è una massima di Kafka che esprime un concetto simile: "tutti gli errori umani sono dovuti all’impazienza”. Hirschman si rimprovera di essere stato impaziente a chiudere il ragionamento, e non avere visto altre cose che invece c’erano. Hirschman è consapevole che ogni punto raggiunto nel darsi conto della realtà è un punto provvisorio. Ricorda una frase di Flaubert che accenna a "la furia di voler concludere”. E c’è anche da ricordare l’importante influenza che ha avuto su Hirschman Eugenio Colorni, filosofo della scienza, che scrive "ogni teoria seleziona il proprio punto cieco”. Hirschman prende da Colorni (di cui diventa cognato) anche gli stimoli orientati a mettere in guardia contro l’antropomorfismo, ossia la tendenza a proiettare nella realtà gli intendimenti e gli obiettivi dell’osservatore.
Hirschman usa spesso la dialettica: usare i punti negativi per volgerli in positivo, leggere le strozzature come possibilità (la loro rimozione libera energie). Cerca di dare spazio al possibilismo, un punto di vista generalmente poco considerato perché si osserva la realtà, il già avvenuto, molto meno quello che è possibile come effetto di tendenze e controtendenze.
Questa prospettiva per Hirschman implica guardare alla dinamica del processo di sviluppo su piccola scala. Definisce questa impostazione micro-marxismo: l’analisi della costellazione di connessioni che descrivono lo sviluppo o spiegano il sottosviluppo. La riduzione della scala significa guardare al locale, non alle grandi cosmogonie, per capire la realtà; partire dall’esistente e interrogarsi sulle sequenze possibili.
Il possibilismo di Hirschman gli consente un riferimento a Lenin (1920): "nessuna situazione è senza sbocco” [cfr. Ascesa e declino, p. 146]. Lenin a sua volta attinge a Hegel e alla sua visione della realtà complicata, con molti punti di vista, connessioni e mediazioni. Se nessuna situazione è senza sbocco, allora è razionale procedere per abduzione, mettere in atto un’osservazione spregiudicata per vedere quali sono i possibili modi di sviluppo del reale. È pertinente anche il riferimento a Gramsci, Ordine nuovo, traduzione di un articolo di Lenin: osservare un oggetto nelle sue connessioni e mediazioni, contro rigidità che generano errori.
L’approccio di Hirschman che come abbiamo detto può essere fatto derivare da Goethe, ha secondo me importanti punti di contatto con l’attuale teoria della complessità, attenta all’incertezza, alle ramificazioni, ai processi di aggiustamento.
Bologna, 31 ottobre 2014
Per chiarire e approfondire: A Ginzburg, L’attualità di un dissenziente: l’idea di sviluppo in Albert O. Hirschman, in "Moneta e Credito”, vol. 67, n. 266: 205-26.
http://ojs.uniroma1.it/index.php/monetaecredito/article/view/12322