Lo stesso governo si sente traballante per la congiuntura attuale e si aprono scenari imprevedibili per il futuro politico prossimo del Marocco.
Viaggiando lungo la costa e attorno alla vasta metropoli diffusa tra El Jadida e Kenitra, passando per gli enormi quartieri di Casablanca o di Rabat, quello che salta all’occhio è la rapidità per non dire voracità con cui la terra è costretta a cedere il passo al cemento. Foreste grigie presto imbiancate riempono spazi immensi lungo tutta la costa Atlantica del Marocco utile. La stessa Tangeri a nord scende dallo Stretto e s’allarga ben oltre l’aeroporto. Un destino comune a tutto il Paese: l’urbanizzazione pare selvaggia. Umberto Pasti, dal suo Paradiso perduto in Rohuna, poco a sud di Assilah e di Tangeri, scrive allarmato: "Loro, i contadini e i pastori, i poveri, non avranno accesso al nuovo Marocco dello sviluppo, costruito a immagine e somiglianza dei borghesi. Il loro modo di vivere verrà cancellato, e non potranno inventarne un altro. Aggirandomi nelle nuove periferie di Tangeri, mi rendo conto che tutti gli abitanti dei casermoni ancora senza fogne vengono da villaggi come il nostro. Molta gente di Rohuna ha comperato piccoli appartamenti in quartieri come questi: ci vivono le donne e i bambini, mentre gli uomini continuano, chissà per quanto ancora, a lavorare i campi. Nel frattempo gli islamisti al governo hanno mandato nei borghi più sperduti nuovi imam, che predicano una fede intransigente. I miei vicini, con le Nike nuove fiammanti, si fanno sempre più religiosi” (da Perduto in Paradiso, Bompiani Firenze 2018).
Del degrado sociale in Marocco non siamo spaventati solo noi romantici viaggiatori legati a un’idea forse edulcorata della povertà. Ho incontrato in questi giorni a Torino alcuni amici marocchini che avevano anni fa fatto la scelta del ritorno al Blad, al Paese: mi hanno stupito raccontandomi di come non riescano ad ambientarsi in un mondo che non solo non riconoscono più, ma mal sopportano, visto il livello di relazioni interpersonali svilite dal denaro e dall’opportunismo dilagante. Un caro amico che s’è fatto almeno vent’anni di lavoro ‘forzato’ in Italia lo ritrovo ora qui tutta l’estate: ha lasciato la sua bella palazzina di Mohammedia, la famiglia intera al mare, per godersi qui, nella povera Torino, le amicizie più confortanti, quell’accoglienza e vita sociale più delicata che non ha più saputo ritrovare al Blad.
Sono ritornato dal Marocco direttamente a Torino il 15 maggio, appena prima che cominciasse il Ramadan. In aereo con me c’erano uomini elegantissimi in abiti tradizionali: leggo poi sulla Stampa che si trattava di imam mandati dal governo marocchino per incontrare e vivere l’esperienza religiosa del mese santo nelle comunità islamiche piemontesi. I quindici imam tra cui una teologa donna sono stati assegnati alle "moschee” della Confederazione Islamica del Piemonte, quelle cioè legate al governo marocchino, o meglio dire al re del Marocco, come la Mohammed VI di via Genova a Torino sud e altre poche sale di preghiera in città (corso Regina Margherita, via Cottolengo, via Botticelli, via Baretti…). Scopro poi qualche giorno dopo in piena manifestazione "Moschee aperte”, un’iniziativa encomiabile del Comune di Torino che ha visto la partecipazione di ben quattordici associazioni e sale di preghiera in città, che ben pochi di quegli imam che avevano viaggiato in aereo con me si trovavano nelle moschee torinesi. I miei amici della Moschea della Pace fanno infatti riferimento sì a un partito governativo e alle associazioni affini, ma non desiderano il controllo monarchico sulle loro attività. Come neppure lo desidera ovviamente la più conosciuta moschea Taiba di via Chivasso, che a un ...[continua]
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