La guerra in Bosnia-Erzegovina e il dramma di Sarajevo non sono finiti, anche se si cerca di dimostrarci che il paradiso regna laggiù, annunciando, a riprova del cinismo, partite di calcio, due ore di “apertura” del ponte fra le “due” Sarajevo e la messa in opera di un tram che non va in nessun luogo. La città resta quel che è da due anni: una prigione dove non si può entrare e da dove non si può uscire, un campo per 300.000 abitanti che non sanno quel che vi è da mangiare, non possono muoversi come uomini liberi, né comunicare con l’esterno, né aver elettricità o acqua corrente in casa, né inviare o ricevere lettere. Il peggio è che chi è uscito dalla città credendo che fosse solo per qualche settimana -il tempo che questo si fermi- non ha potuto più farvi ritorno. Da allora, e senza speranza che la città ritorni come prima, essi errano per il mondo, i bambini senza scuola e senza padre, le madri senza documenti e senza denaro, senza contatti con quelli che son rimasti per proteggere lo Stato e la casa.
Infatti, Sarajevo sembra un campo di concentramento dove, come in tutti i campi conosciuti della Seconda Guerra Mondiale, si trova una squadra di calcio, un’orchestra sinfonica, un teatro. Beninteso, gli spettacoli sono organizzati soprattutto per il pubblico che viene da fuori, per i giornalisti, i rappresentanti delle organizzazioni umanitarie seduti nelle prime file che così ammirano “la forza, il coraggio e la dignità” degli attori. Il fatto che i campi di concentramento di quell’altra guerra non fossero bombardati, non ha affatto ridotto la tragedia dei loro prigionieri. Quanto alla situazione di Sarajevo, la fine dei bombardamenti ha aumentato il dramma: in effetti, si diffonde l’idea che la fine delle distruzioni ha messo fine alla guerra, che la pace è arrivata e che tutto è come prima. Durante la “vera” guerra, quando la città era inondata di granate, noi sapevamo che era la guerra, che ogni tipo di miserie deve accompagnare la guerra, sapevamo perché non c’era più acqua o elettricità. Psicologicamente, si trattava di conseguenze “logiche” delle bombe e delle stragi. Che fare oggi? Come vivere con questa tesi della guerra finita e della vita normale, restando tuttavia prigionieri, separati dalla famiglia e dagli amici, della oscurità e affamati, senza lavoro e senza futuro? Il mondo non ci sta forse dicendo che dobbiamo considerarci felici di essere vivi, di accettare la miseria e la degradazione generale come condizione durevole e come promessa di avvenire?
E’ su questo punto che poggia il principale “malinteso” fra Sarajevo e il resto del mondo, fra la vera città con tutte le sue libertà e il suo umanesimo, da un lato, e i crudeli calcoli dei politici del mondo, dall’altro. Chi non ha mai compreso che le bombe non erano il peggiore dei mali di Sarajevo -che la sofferenza interiore sorgeva dagli attacchi contro l’umanità di questa città e di ciascuno dei suoi abitanti- poteva, in effetti, credere scioccamente, che il tram è la misura della nostra libertà -e non l’aereo o semplicemente la bicicletta, che ci permetterebbero di raggiungere il “mondo esterno”. Il nostro universo, nello spazio di una linea di tram, non è mai stato occupato. Questo universo ci è sempre restato accessibile, anche senza tram. Ma Sarajevo non è mai stata troppo modesta su questo punto, questa città ha sempre voluto andare più lontano e più in alto. Tale è, in fin dei conti, la differenza fra chi ha sempre costruito dei ponti, lo sguardo rivolto v ...[continua]
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