Alla vigilia della vittoria di Berlusconi, nel 1994, tu avevi già preconizzato l’avanzare di un grande sconvolgimento. E’ possibile oggi fare un bilancio?
Partirei da un racconto antropologico e sociale dei grandi processi di cambiamento. Nell’interpretazione della politica noi spesso, sbagliando, siamo portati a guardare la punta della piramide, quello che avviene a breve, siamo stati tutti appesi al 14 dicembre come se fosse "la scadenza”. In realtà la questione che tu mi poni è pre-politica e solo in seconda battuta riguarda la politica.
Volendo allora fare un bilancio degli ultimi 16 anni, la prima domanda che si impone riguarda se questo processo sia arrivato a conclusione. Per rispondere mi affido a un ossimoro che a me piace molto, che è quello della necessità di "ricordare il futuro”, nel senso che se vogliamo cominciare a pensare a ciò che ci aspetta, a ciò che verrà, forse è il caso di partire da ciò che è stato, da quella che, parafrasando Polanyi, definirei "la piccola trasformazione italiana”.
In questi ultimi 20 anni si sono avvicendati in maniera accelerata (la velocità è il carattere del tempo), tre grandi "cicli braudeliani”, dal punto di vista del mutamento delle forme del produrre, che sono stati: in primo luogo, il passaggio alla punta alta e finale del fordismo, della grande fabbrica, dell’operaio massa. Successivamente, il secondo ciclo che abbiamo attraversato è quello che io chiamo del "capitalismo molecolare”, "del post fordismo italico”, questa grande proliferazione della piccola e media impresa che ha invaso tutto il territorio, dalla città al territorio, dalla città al contado; quel capitalismo molecolare, che si è diffuso soprattutto in una parte consistente del paese, quel grande quadrilatero che va da Torino a Trieste e arriva fino ad Ancona, lambisce la Toscana e torna su.
Nel nuovo secolo siamo infine arrivati a un terzo ciclo, su cui non abbiamo ancora fatto sufficienti riflessioni, che è quello che io chiamo del "capitalismo delle reti”, intendendo quei processi produttivi che innervano la dimensione territoriale e l’agganciano al globale: la finanza, la logistica, le autostrade, le infrastrutture, l’alta velocità, l’università con i suoi saperi e i suoi collegamenti, le autonomie funzionali, le camere di commercio, i grandi centri... in generale l’economia dei servizi.
Evidentemente i cicli non sono mai tagliabili a fette, rimane parte della cultura e dell’impianto fordista, rimane parte della cultura del capitalismo molecolare, e rimane il ciclo del capitalismo delle reti. Il capitalismo delle reti oggi come oggi è egemone rispetto al resto.
Quindi in questi vent’anni non è vero che il paese sia rimasto fermo...
Anzi, il paese è molto cambiato. Se si analizza il mutamento della questione sociale, che rimanda alle forme dei lavori, dei soggetti, ci si rende subito conto che anche qui le trasformazioni sono state profonde: la classe operaia, che era tutta concentrata dentro la dimensione della grande fabbrica, si è fatta coriandoli, per usare un’espressione di De Rita, si è dispersa, che non vuol dire che è scomparsa.
Ma non ci sono solo gli operai. L’altra grande domanda è infatti: "Che fine hanno fatto i ceti medi?”. Quella dimensione privilegiata che stava dentro le corporazioni liberali, gli avvocati, gli architetti, è stata anch’essa coinvolta da questi processi.
Volendo trarre delle prime deduzioni, non ancora politiche, si può cominciare a sostenere che in questi vent’anni un primo grande processo è che, oltre a mettere al lavoro la dimensione del corpo alla catena di montaggio, nella fabbrica, con il capitalismo delle reti e della conoscenza è stata "messa al lavoro” la nostra nuda vita, cioè il nostro comunicare, il nostro pensare, il nostro memorizzare, la nostra creatività.
Lungo questo percorso si sono affievoliti alcuni paradigmi interpretativi, come la dialettica tra capitale-lavoro con lo Stato nel mezzo. I rappresentanti del mondo del lavoro, i rappresentanti del mondo del capitale e lo Stato in mezzo come grande elemento di "mediazione”. Questo era il vero paradigma del Novecento, e devo dire che il tardo Novecento questi paradigmi li ha dispiegati fino in fondo, in tu ...[continua]
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