Tu sostieni che le Valli valdesi sono state e restano una metafora, nel senso che rimandano a qualcos’altro oltre a quello che sono geograficamente. Puoi raccontare?
Sono definite "Valli valdesi” le valli Chisone, Pellice e Germanasca che si trovano a cinquanta chilometri da Torino, e che prendono il nome dai rispettivi torrenti. Dal punto di vista economico sono simili ad altre vallate alpine. Nel mondo protestante, soprattutto italiano, sono comunemente dette "le Valli”. C’è chi lo dice con affetto, chi con nostalgia, chi con serietà, chi con indifferenza. A dire il vero, tutti questi sentimenti possono anche coesistere in una stessa persona nel corso della vita. Quello che io sostengo è che dalle "Valli” non si può prescindere, perché non sono solo un territorio geografico, sono appunto una metafora che richiama un’identità.
Ovviamente nel corso del tempo la percezione delle valli valdesi è cambiata, specie a partire dagli anni Sessanta del Novecento, quando lo spopolamento alpino, il boom economico e la secolarizzazione hanno annebbiato la vista sulle identità locali, oggi tanto celebrate, ma poco approfondite.
Mi piace ricordare che i valdesi, al rientro dall’esilio svizzero (1690) piantarono il castagno, detto anche "l’albero del pane”. In qualche modo si trattava di una sorta di dono per i figli, perché il castagno è un albero che produce sempre per la generazione successiva a quella che ha piantato la radice. Si tratta, dunque, di un simbolo della fiducia nel futuro di una comunità riunita, e del segno di una precisa strategia di ricostruzione ambientale.
Le Valli divennero così la terra elettiva di una piccola società agricola che si identificò con la chiesa di Calvino. Possiamo, dunque, comprendere la potenza simbolica di un ritorno alla terra elaborato contemporaneamente sul piano teologico e sul piano materiale. Questo processo di attrazione verso la terra fu poi rafforzato dalla politica sabauda che fino al 1848 impedì ai valdesi l’uscita dal fondovalle.
Le Valli, dunque, furono "costruite” da tre elementi: l’appartenenza religiosa, la discriminazione politica e la stanzialità su un’area geografica.
Dopo il 1848, anno dell’emancipazione valdese, le Valli diventarono anche un progetto consapevole di conservazione dell’identità.
La classe dirigente valdese iniziò ciò che si osserva presso molti popoli o gruppi compatti: "l’istituzionalizzazione della memoria”, con opere di divulgazione storica e luoghi di rievocazione, sia nel paesaggio che nei musei. In questo senso si può dire che "la storia scrisse la geografia”: nomi di eventi, battaglie, e fatti emblematici arricchirono la toponomastica delle Valli, senza bisogno di grandiosi monumenti. Così le Valli divennero un libro di storia aperto. Questo piccolo mondo divenne un centro di gravità narrativa che lasciava trasparire un diario genealogico pesante, dal modo di fare al modo di pensare.
Ovviamente questa non è l’unica traccia identitaria. Voglio dire che la secolarizzazione è passata anche dalle Valli: esistono altri circuiti culturali importanti che le definiscono (ambientalisti, sportivi o linguisti) e che ne mettono in luce altre specificità.
Ciononostante io credo che le Valli continuino a rappresentare uno spazio visibile del protestantesimo italiano e che, come tale, vadano valorizzate, nella consapevolezza che una terra, nell’immaginario sociale, conta di più di un ordine del giorno o di un progetto diaconale. Una terra fotografa ciò che Roland Barthes definisce il punctum, quel qualcosa che punge, che solletica, che attrae o repelle, soprattutto che costringe a farci domande, anche quelle che non desideriamo e ci irritano.
Gli abitanti come sentono questa identità?
Gli abitanti sono valdesi e cattolici. Sarebbe interessante confrontare le loro reciproche visioni oggi. L’identità in fondo non è qualcosa di immobile: i suoi confini sono sem ...[continua]
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