Vorremmo parlare dello stato di salute del sindacato, anche nel contesto europeo, e delle sfide che ha davanti.
Partirei da una questione, che ha sempre creato confusione, specie nel nostro paese. L’idea di fondo è che il sindacato è innanzitutto un’istituzione del capitalismo. Quindi è un pilastro che tiene in piedi il capitalismo, non la leva per il suo abbattimento. Questo è un punto fondamentale, ben chiaro a Marx e a Lenin per primi, cioè che il sindacato era altra cosa dal movimento rivoluzionario, anzi il più delle volte ne è uno dei principali fattori di stabilizzazione.
Se ci mettiamo in questa prospettiva è più facile comprendere le ragioni del successo o dell’insuccesso del sindacalismo, e i problemi che ci sono. Partiamo da una prima questione: in qualche misura il sindacato, una volta che viene riconosciuto e una volta che è diventato forte, questa forza la deve trasformare in responsabilità. Questo nesso forza-responsabilità non sempre è stato compreso dai movimenti sindacali. Banalmente, il sindacato, nel corso della sua ascesa nella conquista di orari di lavoro, salari, sicurezza sul posto di lavoro, welfare, a un certo punto incontra un tetto. Non si può continuare all’infinito a chiedere di più e ancora di più. A quel punto ha due alternative, o diventa rivoluzionario o assume la responsabilità della gestione del "sistema”, non ci sono altre alternative o terze vie.
Di conseguenza molti sindacati, specie nordeuropei, hanno accettato questa sfida e almeno per un certo periodo la cosa ha funzionato, attraverso il cosiddetto compromesso keinesiano, vale a dire uno scambio esplicito tanto nella teoria quanto nella pratica: io sindacato mi assumo la responsabilità di cogestire il sistema, quindi limito le mie rivendicazioni, aiuto il capitalismo a funzionare e in cambio ne ho una lunghissima serie di benefici ben percepiti da tutti, organizzativi per il sindacato, e di vario tipo per i lavoratori.
Nei paesi nordici, questo passaggio è stato più semplice perché, essendo più piccoli, la coincidenza tra interesse dei lavoratori e interesse dei capitalisti era più evidente: un aumento di salario eccessivo avrebbe messo fuorigioco l’azienda che poteva vivere solo a condizione di esportare già sessanta anni fa. Quello che oggi noi scopriamo come limite all’aumento di salari, il vincolo esterno, loro l’hanno vissuto fin da subito, tra le due guerre. In un paese di ridotte dimensioni è evidente a tutti che tu non puoi chiedere di più altrimenti tutta l’economia va fuori mercato.
Questo è un modello (chiamato "neo-corporativo”) che ha funzionato tanto per i lavoratori, diventati classe media benestante, quanto per i sindacati, che a tutti gli effetti sono passati da "movimento a istituzione”.
Che cosa ne hanno ricavato i sindacati di quei paesi? La possibilità di svolgere una serie di attività che definisco da "quasi agenzia statale”. Per cui gestiscono e consegnano ai lavoratori l’indennità di disoccupazione (modello Ghent), gestiscono la ricollocazione da posto di lavoro a posto di lavoro, la formazione e la riqualificazione professionale, e così via. Cosa ne guadagnano i lavoratori? Salari e welfare nettamente superiori a qualsiasi altro paese al mondo. Almeno a prima vista si tratta di un gioco a somma positiva per tutti, per gli imprenditori, per i sindacati, per i lavoratori.
Ripeto, le condizioni di questo modello sono rare: piccoli paesi in cui sia più evidente l’interesse comune alla cooperazione; interlocutori politici stabili e "amici”, vale a dire governi affidabili con cui fare patti di lunghissimo periodo; sindacati unici, cioè monopolisti della rappresentanza, perché se ho qualcun altro che mi dice che sono venduto al padrone è finita, e al lavoratore conviene provare a seguire il sindacato più rivendicativo nella speranza di portare a casa qualcosa i più.
C’è una variante di questo modello in Germania, ma anche in Austria; parliamo di un modello che può prevedere la sistematica rinuncia allo sciopero, compensata dalla presenza nei "comitati ...[continua]
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