Nel 2015 a Trieste, grazie a una rete di soggetti che comprende il Dipartimento di Salute Mentale, la International Mental Health Collaborating Network (Imhcn), la cooperativa sociale Germano e l’Associazione San Martino al Campo, è sorta una iniziativa di "Recovery Learning Community” centrata intorno a una Recovery House. Questa comunità offre l’opportunità agli utenti dei servizi di salute mentale, alle loro famiglie e agli operatori di sperimentare nuove forme di collaborazione, prendendo in considerazione le proprie storie di vita e avviando insieme processi di guarigione. Sugli stessi temi si possono leggere interviste a Silva Bon, Izabel Marin e Roberto Mezzina sul n. 205 (2013), all’Associazione "180amici Puglia” sul n. 219 (2015), a Marit Borg sul n. 231 (2016).

Cos’è una "recovery house”?
Roberta. La prima recovery house è nata in Scozia, nella Isle of Lewis, su iniziativa di Ron Coleman, pioniere del movimento degli "uditori di voci”. È un po’ lui il fautore di quest’idea di creare un luogo dove poter cominciare un processo diverso. Ci sono state altre esperienze minori in Inghilterra e Australia; pure a Faenza c’è stato un breve progetto sperimentale sempre con la collaborazione di Ron.
La recovery house di Trieste, nata due anni fa, è a oggi il progetto più longevo; inoltre è l’unica fatta all’interno di un sistema complesso, assieme alle istituzioni locali, in particolare al dipartimento di salute mentale. Cos’è che fa di un luogo una recovery house? Non è facile rispondere. Per noi la recovery house non è semplicemente una casa, un luogo dove delle persone possono intraprendere un percorso nuovo, è anche e soprattutto una comunità di persone, di cittadini che si incontrano e apprendono gli uni dagli altri.
L’altro tratto distintivo è il cambio di paradigma nei confronti di malattia o disagio. La domanda che ci guida non è: "cosa c’è di sbagliato in te?”, bensì "che cosa è successo, chi sei?”. Si tratta proprio di un cambiamento culturale; non è riabilitazione in senso stretto, non è trattamento, non è clinica, è stare accanto all’esperienza della persona.
Izabel. Nella salute mentale Trieste è sicuramente all’avanguardia, le persone sono al centro, e tuttavia è molto difficile modificare gli schemi che informano i modi di fare, di relazionarsi, di stare assieme, all’interno della cornice della psichiatria. Per questo abbiamo fortemente voluto accettare questa sfida, dandoci dei compiti, il primo dei quali è cercare di decostruire i ruoli di educatori, operatori, utenti.
Per fare questo abbiamo adottato i principi del movimento degli utenti o ex utenti internazionali. Lo slogan che ha ispirato questa esperienza è: "niente su di me senza di me”, una regola che abbiamo cercato innanzitutto di comprendere appieno anche nei suoi risvolti pratici, quotidiani. Ecco, uno dei capisaldi è appunto questa cosa di non decidere per l’altro.
Come referente del Dipartimento di salute mentale, io faccio un po’ da interfaccia fra i servizi e questo progetto, che è caratterizzato anche da una relazione molto stretta con il privato sociale, in particolare con la cooperativa Germano. Possiamo dire che la recovery house è fatta dagli ospiti, dagli operatori, dai professionisti, dai volontari, ma anche dai genitori; poi ci sono Roberta Casadio e Paul Baker, consulenti di una rete internazionale, che ci accompagnano fin dall’inizio in quest’impresa.
Paul. Trieste è un nodo molto importante della rete di collaborazione internazionale per la salute mentale. Negli ultimi due anni abbiamo posto l’accento su come dar vita a un modo più democratico di collaborare con le persone che sono seguite dai servizi, con i familiari e i "pari”; il mio ruolo, assieme a Roberta, è stato quello di facilitare un processo di apprendimento comune per lavorare assieme in modo diverso.
Michele S. Io sono un "esperto per esperienza”. Sono in cura dal ‘93, quindi sono una vecchia conoscenza del servizio, con anche dei periodi in cui sono stato abbastanza bene. Un paio d’anni fa ho seguito un corso, fatto in collaborazione con l’azienda sanitaria e il dipartimento di salute mentale, sulle tecniche di "peer support” nell’inclusione socio-lavorativa. Ho cominciato a lavorare qui facendo un paio d’ore la settimana come volontario; ora ho un contratto part-time della durata di un anno. Il suppor ...[continua]

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