Possiamo cominciare dalla tua esperienza personale di "organizzatore di comunità”...
Sono cresciuto a West Garfield Park, un quartiere di Chicago simile a migliaia di altri vicinati americani, quindi conosco bene i vantaggi e gli svantaggi di vivere in un simile contesto. Poteva essere un ambiente terribilmente claustrofobico, dove il "diverso” veniva emarginato o maltrattato.
Ricordo ancora quando, nel 1966, un amico afro-americano di un’altra scuola mi aveva invitato a una partita dei Chicago Bears. Si presentò con il padre e lo zio per portarmi con loro. Mia madre li invitò a prendere un caffè e una fetta di torta. Mio padre era nervoso: non avevamo mai avuto ospiti di colore, ma fu un padrone di casa cordiale. Quella notte bruciarono una croce nel prato davanti a casa.
All’epoca però c’erano le chiese, le sale sindacali, il bowling, i parchi, dove le persone discutevano e litigavano, negoziavano e collaboravano, pregavano e giocavano.
Ovviamente non sono un nostalgico dei "bei vecchi tempi” e tuttavia mi chiedo se con la fine di quei contesti non abbiamo perso anche quella densa rete di relazioni. L’abitudine a mettere insieme la gente, comprese le persone che non ci piacevano o a cui noi non piacevamo, in posti fisici è una competenza. Richiede pazienza, coraggio e una visione ampia. Costringe la gente a mettersi d’accordo su quali azioni intraprendere…
Il mio impegno è cominciato quando ero molto giovane. Il movimento per i diritti civili arrivò a Chicago mentre frequentavo il liceo... Era un movimento forte, una vera macchina politica; essere testimone di quell’esperienza fu qualcosa che mi aprì gli occhi, ero davvero affascinato, impressionato dal coraggio di quelle persone. Ero invece meno impressionato dal movimento politico studentesco dell’epoca, li trovavo molto elitari, sprezzanti verso la classe operaia, ed essendo quella la mia origine...
Dopo il college, ho lavorato come college instructor, per un paio d’anni, poi ho iniziato a guardarmi intorno per vedere se l’organizing potesse diventare un lavoro, se fosse qualcosa che si poteva fare in modo stabile e non solo episodicamente, qua e là. Ho iniziato a lavorare in un piccolo gruppo a Chicago, che mi ha portato a un altro gruppo e poi a un altro ancora fino a che sono arrivato alla Industrial Area Foundation (Iaf), la fondazione creata nel ’40 da Saul Alinsky, che è considerato un po’ il pioniere del "community organizing”.
Io non ho mai incontrato Alinsky; sono entrato nell’organizzazione 3-4 anni dopo la sua morte. All’epoca c’era Ed Chamber a capo della fondazione. Il loro era stato un connubio perfetto: Alinsky aveva una straordinaria capacità di articolare concetti e teorie, di inventare approcci originali all’organizzazione, che ai tempi erano davvero inusuali, non convenzionali, però non era molto interessato al lavoro quotidiano della struttura. Ed Chambers era quasi l’opposto: non era un grande oratore, non era un buon promotore, ma era davvero un grandissimo organizzatore.
Cosa significa "community organizing”?
Devo dire che io uso poco questo termine. Preferisco il termine organizing, o citizen organizing. Trovo la formula "community organizing” riduttiva perché in realtà organizziamo città, regioni, cerchiamo di avere un impatto nei luoghi in cui viviamo.
Comunque, il cosiddetto community organizing fondamentalmente punta a creare coalizioni civiche attorno a interessi condivisi, a dare potere ai cittadini attraverso il rafforzamento delle relazioni tra le persone.
Dicevi che la prima tappa è individuare e addestrare dei leader.
È così. Quando veniamo invitati in una comunità, per prima cosa facciamo centinaia di incontri individuali, proprio per trovare dei leader, o dei leader potenziali; ogni comunità ha i suoi leader, che spesso non sono quelli ufficiali, quelli riconosciuti dall’establishment. Ecco, noi nelle comunità, ma anche nelle città, cerchiamo persone profondamente radicate nel loro quartiere, magari poco visibili, perché fuori dai giri che contano, ma ...[continua]
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