Padre Bruno Chenu, redattore capo del quotidiano cattolico francese la Croix, ha curato la pubblicazione in Francia degli scritti dei sette monaci trappisti del monastero di Tibhirine in Algeria, sequestrati e assassinati dai terroristi del Gia nella primavera dello scorso anno. Il libro, Sept vies pour Dieu et l’Algérie, è stato appena tradotto in italiano, con l’aggiunta di alcuni testi non presenti nell’edizione francese, da Piemme con il titolo Più forti dell’odio.

Nella storia del monastero di Tibhirine, una svolta fu rappresentata dall’ arrivo di Frère Christian de Chergé…
Sì, fino agli anni Settanta, Tibhirine è stato un monastero tradizionale che si limitava ad assicurare una presenza cristiana nella regione dell’Atlante. Pur essendo l’unico monastero trappista al mondo situato in terra musulmana, non aveva mai coltivato un progetto nei confronti dell’islam. Le cose cambiarono solo con l’arrivo di Frère Christian. Questi aveva fatto il noviziato nel monastero di Aiguebelle nel 1969, era stato inviato in Algeria una prima volta nel 1970, successivamente, per due anni, aveva studiato arabo e islamismo a Roma per poi ritornare definitivamente in Algeria nel giugno del 1974. A partire da quel momento, fece tutto il possibile affinché la comunità assumesse un’attitudine di dialogo con il mondo musulmano. Prendendo atto che gli algerini, lo si voglia o no, sono musulmani, scriveva: "Noi siamo oranti in mezzo ad altri oranti". E si adoperò progressivamente affinché il monastero venisse aperto a tutti, offrendo accoglienza anche a credenti musulmani. Cercò, infatti, di creare un gruppo di incontro interreligioso fra musulmani e cristiani. Il primo incontro avvenne fra alcuni membri delegati dalla comunità ed alcuni esponenti di una comunità sufi di Médéa. Da questo incontro, nacque il Ribat es-Salâm, ossia Vincolo di Pace, un gruppo interreligioso che si riuniva due volte l’anno, sceglieva un tema, ne discuteva, pregava insieme. Tra l’altro, il Ribat avrebbe dovuto riunirsi proprio il giorno successivo al rapimento. La notte del rapimento, tra il 26 e il 27 marzo 1996, nella foresteria del monastero si trovavano alcuni membri di questo gruppo, che però non vennero scoperti dai terroristi del Gia. Le ultime riflessioni di Frère Christian, trovate nel suo ufficio dopo il rapimento, riguardavano proprio l’incontro del Ribat: stava preparando, infatti, alcuni testi di vescovi dell’Algeria, di Monsignor Sabah, del Cardinale Arinze.
La comunità sosteneva questo: "La nostra presenza in Algeria è semplicemente una presenza all’interno di una comunità umana e di una comunità religiosa musulmana. Questo rapporto con una comunità umana e musulmana deve realizzare le due dimensioni fondamentali della vita benedettina: ora et labora". La preghiera e il lavoro. Per quanto riguarda la dimensione della preghiera, risulta significativo l’episodio della moschea. Gli abitanti della zona volevano, infatti, costruire una moschea, ma non avevano abbastanza denaro per farlo. La comunità offrì, allora, una stanza del monastero per farne una sala di preghiera musulmana, una sorta di moschea provvisoria. Così, nella cinta del monastero di Tibhirine risuonavano le due chiamate alla preghiera, quella cristiana e quella musulmana: la campana risuonava insieme alla voce del muezzin. (La campana del monastero di Tibhirine era l’unica campana cristiana che risuonasse ancora in Algeria).
Questo fatto, per i monaci, era molto significativo. Frère Christian sottolineava che così si realizzava una comunione spirituale: un solo Dio, una sola comunione dei santi. Questo tema era molto caro a Christian: gli dispiaceva, infatti, che nel Canone liturgico non vi fosse l’invocazione ai santi dell’Antico Testamento, che sono dei santi ebrei. Certo, si invocano anche santi ebrei, ma questi sono stati cristianizzati in qualche modo, mentre le grandi figure come Abramo e Mosè non vengono invocate. Christian riteneva necessaria un’apertura ai testimoni delle altre religioni.
Per quanto riguarda la regola del lavoro, bisognerebbe raccontare tutta la storia della proprietà agricola del monastero. Proprietario di più di 300 ettari alla fine della guerra d’indipendenza, il monastero aveva regalato alla popolazione locale quasi tutto, tenendo per sé 12 ettari, di cui 6 coltivabili e 6 non coltivabili; per i 6 ettari coltivabili, i monaci si erano associati con alcune persone del villaggio: in pratica, lavoravano insieme e i frutti del lavoro ...[continua]

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