Sergio Givone insegna Estetica presso l’Università di Firenze.

Lei ha conosciuto Gianni Carchia negli anni della vostra formazione, a Torino. Cosa ama ricordare di lui di quel periodo?
Ho conosciuto Gianni Carchia a Torino, all’università. Per la verità io stavo finendo e lui cominciava. Era il ’66, ’67, credo, c’erano quattro anni di differenza fra di noi, e questo ha fatto sì che, almeno sulle prime, fossimo lontani, relativamente lontani. Poi, più è passato il tempo, e sempre meno questo ha significato qualche cosa.
Ricordo che a far scattare la nostra amicizia è stata la scoperta di un tratto del carattere comune a entrambi: una tendenza a calamitare i mattoidi, gli stralunati, gli eccentrici. Si dice che Torino sia una città magica, metafisica, ma non è così: Torino è attraversata da un ramo di follia e di eccentricità molto forte, che si ritrova nelle persone apparentemente più miti, più tranquille, più comuni. Magari uno scrive delle poesie visionarie e fa l’impiegato, oppure uno ha una passione per un certo cinema d’avanguardia ed è uno studente modello. Vai al cinema, ti si avvicina uno, incominci a parlare, dici: "Ma io non la conosco...” , però è uno un po’ fuori di testa, geniale... Ecco, a un certo punto abbiamo scoperto di avere come amici comuni persone di quel tipo. A Torino li chiamano i "fulastri”, che, fra l’altro, è una bellissima espressione che si trova anche in François Villon e che il dialetto torinese ha conservato. Credo di ricordare proprio il giorno in cui io e Gianni ci siamo detti: "Ma come, anche tu?”.
E’ nata così la nostra amicizia, che poi è durata tutta la vita.
Quali erano i vostri referenti filosofici comuni, e quali le vostre divergenze, in quegli anni?
Partimmo da posizioni che forse oggi non appaiono più così lontane, ma che allora lo erano. Ci accomunava la scelta di guardare più al mondo tedesco che non al mondo francese e italiano, e questa era già una piccola anomalia: allora a Torino c’era il neo-illuminismo, si scoprivano le scienze umane, c’erano Abbagnano e Bobbio, la Rivista di filosofia, e insieme c’era anche un’attenzione al mondo francese, sia al mondo del tardo esistenzialismo che a quello dell’esistenzialismo volto in antropologia filosofica e in strutturalismo; penso all’ultimo Sartre, e poi a Foucault, Deleuze, eccetera.
Era un’attenzione, quella al mondo francese, che accomunava la cultura italiana in genere, ma in special modo quella torinese. Pensiamo solo che nella storia della filosofia torinese e anche della filosofia italiana autori come De Maistre non si sa bene come collocarli perché De Maistre era un torinese, un funzionario savoiardo che scriveva in francese; o pensiamo a Gioberti che non dialogava tanto con i filosofi di Napoli o di Firenze, ma guardava oltralpe; questa attenzione alla Francia a Torino si è sempre sentita in modo particolarmente forte.
Ecco, noi guardavamo piuttosto alla Germania, solo che guardavamo in due direzioni diverse: io a Heidelberg, lui a Francoforte; io al romanticismo, e quindi poi all’ermeneutica, lui al pensiero critico negativo. Qui riconosco anche le nostre divergenze: io avevo l’idea, che poi ho sempre più mitigato, che si dovesse partire dall’alto, cioè dalle forme a priori di comprensione della realtà che sono custodite nella poesia, nel mito, nella religione. La realtà mi pareva di per sé insignificante, e guardavo quasi con sospetto alle scienze umane, come se facessero velo a una realtà che bisognava illuminare ex alto: la poesia la pensavo come la custode della possibilità di comprendere la realtà a partire della tradizione, dalle immagini rivelatrici, da questo suo rapporto con l’origine; la poesia, quindi, che sosta presso l’origine, l’origine in senso plotiniano, di illuminazione della realtà; quindi guardavo ai romantici, all’ermeneutica come propaggine del romanticismo, guardavo a Heidelberg.
Gianni riteneva, invece, che bisognasse partire dal basso, e non per niente lui si era iscritto a filosofia dopo aver studiato antropologia: per lui la realtà poteva, anzi doveva, svelare un volto altro, quello che immediatamente non appare, ma questo è possibile nella misura in cui si aderisce alla realtà, la si studia criticamente nei suoi snodi più minuti, quotidiani, più reali.
Di quegli anni ricordo un episodio che mi aveva molto colpito: Gianni aveva fatto un’esperienza meravigliosa nel deserto alla ricerca di ciò che si dà soltanto aderendo alla realtà; e cos’è più reale d ...[continua]

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