Io sono diventata di ruolo nell’83-84, nella scuola media inferiore. Ho fatto questa scelta, nonostante mi fosse stato poi offerto il posto anche alle superiori, perché in quegli anni era molto forte il discorso del lavoro come impegno sociale. E la scuola media era quella che offriva più opportunità di investimenti in questo senso. La scuola superiore ha già un’utenza un po’ “scremata” sotto certi aspetti; invece nella scuola media il fatto di essere a contatto con ragazzini dagli 11 ai 14 anni, quindi in pieno inizio adolescenza, è una responsabilità educativa molto grande. Allora eravamo mossi da questo ideale di riuscire a modificare certe situazioni; forse c’era la presunzione di pensare di incidere nella loro vita, soprattutto di quelli più sfortunati.
La scuola dove insegno vent’anni fa si stava confrontando con il fenomeno dell’immigrazione dal sud, con grosse problematiche, di criminalità e non solo. Io ho avuto studenti col padre in galera per omicidio, con ragazzine da salvare dalla strada, perché a 12 potevano già essere avviate alla prostituzione.
All’origine c’era quindi questo aspetto privato, di impegno personale e anche di aspettative. Negli anni, poi, mi sono resa conto che riesci a incidere su pochi, che la percentuale dei ragazzini che riescono a uscire da una situazione familiare critica è molto bassa. E questo ti demoralizza, perché è una sconfitta, aggravata dal fatto che nella scuola media c’è anche un investimento affettivo molto forte.
Io ho sempre trovato difficile definire bene il mio ruolo. Sono vent’anni che insegno e devo ancora imparare a tenere questo equilibrio tra il ruolo anche “autorevole”, che comunque gli studenti si aspettano, e la comprensione, l’empatia, che sono irrinunciabili se si vuole creare un ambiente sereno, che agevoli l’apprendimento.
Questo lo vedo proprio come pratica quotidiana: se nella classe lavori in modo rilassato, tranquillo, anche facendoli giocare, loro apprendono; se invece cerchi di imporre certe cose, è finita.
In una prima media ho due ragazzine “a rischio”, ossia con situazioni, anche familiari, problematiche, che frequentano ragazzi più grandi, di giri legati alla microcriminalità. Parlo di ragazze che a 11 anni sono più esperte della vita di me! Comunque qualche mese fa sono venute da me: “Possiamo parlarle, lei è quella che ci è più cara…” e così mi hanno sciorinato una serie di problemi e io ero lì che pensavo: oddio, e adesso cosa dico?!
Dall’altra parte fa anche piacere, perché pensi all’affetto di queste ragazzine che sono due “toste”. E infatti anche i miei colleghi mi hanno detto: “Meno male che hanno qualcuno con cui possono confidarsi”. L’importante è che abbiano una valvola di sfogo.
Questo però è anche impegnativo, perché tu poi non sei una psicologa, non sei preparata. E però se poi in classe ti dicono: “oh, meno male c’è lei”, “Com’è passata in fretta l’ora!”, ecco sono tutte cose che ti danno soddisfazione.
Forse dipende anche dalla storia personale. Per me, non avendo avuto figli, non essendo mamma, è chiaro che avere l’affetto da parte dei ragazzini è molto bello, gratificante. Per le stesse ragioni, vedere che non sei simpatica, percepire che non è scattata quella relazione affettiva, ti fa star male. Almeno io ci sto male. Non sopporterei di essere come quelle insegnanti che sono rispettate perché temute, per cui entri in classe e tutti zitti… ecco, a me non farebbe dormire la notte quest’idea.
Poi è chiaro che non sempre si riesce, perché la relazione con gli allievi dipende molto dal primo impatto. Il primo giorno di scuola io continuo ad avere un po’ paura, perché poi loro sono ipercritici, guardano come sei vestita, pettinata, tutto. E quindi dipende molto da come ti vedono e ti vivono all’inizio, se come quella che cerca di inquadrarli e basta, oppure quella con cui possono stare bene e fare delle cose.
Dopo aver insegnato alle superiori un po’ in giro per Torino, nell’84 sono arrivata a Venaria dove sono rimasta fino a oggi. Mi sono subito trovata bene in questa realtà perché c’erano degli insegnanti in gamba, preparati, con una preside di quelle storiche, pasionarie. Quando entri in un gruppo di insegnanti che si vogliono bene, sono amici, concordano sul modo di impostare la didattica, è chiaro che anche i ragazzini sentono che c’è un gruppo compatto. Infatti spesso dicono: “Ah, ma voi siete amici” ...[continua]
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