La crisi del continente africano è palese: decenni di cooperazione hanno fornito risultati alterni, quando non direttamente controproducenti. L’Africa ha forse imboccato una strada senza uscita?
Nel caso dell’Africa, interpretare gli avvenimenti storici facendo riferimento ad un fattore unico è assolutamente inadeguato. Sarebbe inutile cercare una chiave di interpretazione della tragedia africana che si riferisca soltanto, ad esempio, all’andamento del mercato internazionale. Non c’è dubbio che anche l’economia c’entra, nel senso che siamo passati da una situazione di sfruttamento ad una di pura esclusione. Credo che su questo valga la pena soffermarsi: anche per chi dal punto di vista etico e politico ritiene di dover lottare perché questa tragedia africana trovi una via d’uscita e un riscatto, sarebbe bene riflettere senza voler combattere “l’ultima guerra”. Tale guerra è ormai superata, come gran parte del discorso sullo sfruttamento.
Non dico che non sia più valido il discorso classico della letteratura e della militanza terzomondista, ma sarebbe un errore focalizzarsi su di esso perdendo di vista quella che è invece la vera tragedia dell’Africa di oggi: l’esclusione. Questo però è solo un aspetto del problema: la spiegazione esogena è ovviamente importante, poiché chi ha più potere ha più responsabilità e quindi è giusto che si dica qual è la responsabilità dei paesi sviluppati, degli organismi finanziari internazionali. Ma pensare che questo ci permetta di ignorare i fattori endogeni sarebbe un errore gravissimo. La seconda grande tragedia, infatti, sono gli stessi dirigenti africani. Qui ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. E parlare di dirigenti significa parlare di dirigenti non democratici, dirigenti che hanno interpretato il potere come occasione di saccheggio, per favorire il proprio clan o la propria etnia, rendendo impossibile un progetto comune. Questo è evidente per chiunque conosca l’Africa. La combinazione tra queste due tragedie, l’esclusione da una parte, più la mancata crescita di una leadership locale minimamente decente dall’altra, è il vero dramma dell’Africa di oggi.
In tutto questo, quanto c’entra il fenomeno della conflittualità tra etnie? Il conflitto etnico è una conseguenza della crisi o ne è invece all’origine?
Io su questo sono molto, molto radicale: non è vero che le guerre siano causate dalle differenze etniche, ma le differenze etniche sono causate dalle guerre. Credo questo si possa dimostrare, nel senso che dai Balcani all’Africa quello che vediamo è l’alternarsi di lunghi periodi di convivenza e brevi periodi di lotta. Ora, dire che i brevi periodi di lotta siano più naturali di quelli di convivenza, mentre il resto è un’illusione ottica e la verità sta nella lotta, è evidentemente il riflesso di un pregiudizio ideologico.
L’etnia è un costrutto, un artefatto. Leggevo recentemente un libro scritto proprio da un africano sul razzismo: lo stesso razzismo è una costruzione politica. Perché in realtà i dati “scientifici”, cioè antropologici e genetici innanzitutto, sono assolutamente indimostrabili e irrilevanti. Basti pensare come l’80% dei “neri” americani non sono neri per niente, sono mulatti. Questo rivela una visione della négritude come qualcosa che contamina, come un virus. Se uno ha quel tanto di virus, è fatta... I discorsi sulla “purezza” etnica sono spesso molto simili.
La polarizzazione etnica è spesso all’origine di conflitti violenti. Come esperto di prevenzione dei conflitti, quale ruolo vede lei per le istituzioni democratiche? Possono veramente contribuire a risolvere le situazioni di conflitto?
Tali concetti devono essere usati con prudenza: “handle with care.” Dobbiamo staccarci sia da un certo tipo di relativismo sia dall’eurocentrismo, o forse a questo punto bisognerebbe dire “atlantico-centrismo”. Cioè senza essere relativisti, non dobbiamo proiettare in modo meccanico le nostre istituzioni. Credo che la sost ...[continua]
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