Da tempo in Francia si dibatte sulla crisi del modello repubblicano nel processo di integrazione degli immigrati. Accanto a una petizione di principio, quella dell’universalismo, restano infatti gravi discriminazioni sul piano sociale e culturale.
Io personalmente non credo che ci sia una crisi del modello repubblicano francese che, a mio avviso, resta più che mai valido.
Ribaltando la questione direi infatti che oggi il problema non è affatto quello di rinunciarvi, bensì, al contrario, di applicarlo.
La Francia è stata una potenza coloniale per quasi 150 anni e in sei o sette generazioni ha colonizzato più di 800 milioni di persone. In Africa del Nord, in Africa nera, in Asia. Bene, sarebbe davvero incredibile se questa colonizzazione massiccia non avesse avuto effetti sulla società francese. Oggi in Europa ci sono tra i 10 e i 15 milioni di persone di origine araba. E’ una parte dell’eredità della colonizzazione.
Il modello repubblicano sancisce uguali diritti e doveri per tutti i cittadini, e in generale per tutti coloro che vivono nel Paese. Tra parentesi, io non sono per una distinzione dogmatica tra chi ha la cittadinanza francese e chi non ce l’ha, anche se c’è una differenza. Sono per esempio per il diritto di voto agli immigrati, siano o no francesi, almeno nelle elezioni locali. Dopotutto, vivono da noi, lavorano, pagano delle tasse, la previdenza sociale (più di quanto ne usufruiscano, tra l’altro).
Allora, da un lato è innegabile che siamo nel mezzo di un processo volto a un’uguaglianza repubblicana, non ancora compiuto. Dall’altro però non vanno trascurati i cambiamenti avvenuti. Oggi, per esempio, in Francia non ci sono quasi più bidonvilles. Negli anni ’60, in quasi tutte le città della Francia c’erano delle immense bidonvilles, che significa che c’erano decine e decine di migliaia di operai immigrati che vivevano in baracche di lamiera, senza elettricità, senz’acqua. I problemi della scolarizzazione erano enormi, la sanità non ne parliamo… Ecco, tutto questo appartiene al passato. Per questo dico che non siamo più una società coloniale, ma post-coloniale.
Cosa significa che viviamo in una società post-coloniale?
Io ricordo, da adolescente, durante e subito dopo la Guerra d’Algeria, che gli immigrati camminavano rasentando i muri, abbassando la testa; la loro presenza quasi non si avvertiva, anche perché raramente venivano in città, restavano nelle banlieues. Questo è finito. Oggi i giovani arabi, i giovani neri, pur con tutti i problemi, camminano a testa alta. Se andate all’ospedale, vedrete dei medici arabi o neri; se andate in un ufficio legale, vi imbatterete forse in un avvocato arabo; se andate in un’impresa, vedrete degli ingegneri arabi o neri. Anche nelle redazioni dei giornali ci sono molti giornalisti arabi. Cioè i mestieri che erano di fatto “proibiti” per i giovani di origine araba fino a 10 o 15 anni fa, si sono pian piano aperti. Dico questo semplicemente per ribadire che gli indigènes hanno torto quando confondono società coloniale e società post-coloniale. Noi siamo una società post-coloniale.
Detto questo, la maggioranza dei giovani di origine araba, dei giovani dell’immigrazione, sono ancora ghettizzati, perlopiù nelle banlieues o comunque in quartieri trascurati dalle municipalità, dai servizi pubblici, dalle forze politiche, compresa la sinistra. E questa è già una grave forma di discriminazione. La media di disoccupazione dei giovani tra i 18 e i 30 anni in Francia è del 25%; nei 750 quartieri censiti come difficili, è del 50%. Se andate a vedere i figli degli italiani diventati francesi, o dei portoghesi, o degli spagnoli, dei polacchi, o degli ebrei dell’Europa centrale arrivati negli anni ’30, non avete questo fenomeno di distorsione. Questo prova che c’è una specificità post-coloniale. Quindi è innegabile l’esistenza di una peculiarità legata all’immigrazione proveniente dai paesi che abbiamo colonizzato. Come dicevo, essenzialmente arabi, ma anche dell’Africa nera.
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