Che in Se questo è un uomo si alternino diversi pronomi personali è noto. Sergio Luzzatto (Primo Levi e i suoi compagni. Tra storia e letteratura, Donzelli) si concentra sul “noi”, sul “voi”, e, soprattutto, sull’ “io”. Del martellante uso dell’impersonale (“si pensi”, “si osservi”), non si cura. Della voce di Dio (“Se fossi Dio…”), non parliamone. Lo interessa il fluttuante “noi collettivo”, entro cui Levi si collocherebbe, contraddicendosi. Soprattutto gli interessa impossessarsi dell’“io giudicante”, per sostituirsi a lui.
A dispetto delle dichiarazioni di apprezzamento, elogi troppo ripetuti per essere sinceri, Luzzatto s’inchina a Levi salvo poi farlo a pezzi, al fine di minarne la credibilità. Sia chiaro: la scoperta della reale identità dei compagni di prigionia è perfetta. Non si può che lodare la straordinaria capacità del ricercatore. Ne emergono però soltanto referti negativi. Di Mendi, il rabbino modernista, Luzzatto dimostra che nel dopoguerra diventerà ladro di libri preziosi. Elias termina la sua esistenza fra cliniche psichiatriche e rancori. Sodomita avvezzo a vendere il suo corpo, Henri. Dei personaggi positivi, Steinlauf, i Gattegno, Wanda Maestro? Niente. Non degni di indagini altrettanto meticolose,
Una ricerca perfetta, ma inutile. Non avevamo bisogno di questo libro per sapere che verità e finzione confliggono in Levi. Samuel e Steinberg, nelle rispettive memorie, ci hanno già detto di non essersi riconosciuti nei rispettivi personaggi. Il primo, Pikolo, nemmeno ricordava il canto di Ulisse. Cesare, personaggio de La tregua, arrivò vicino a portare Levi in tribunale, senza rendersi conto che, nella creazione del personaggio, i sonetti romaneschi del Belli sono più importanti della sua carta d’identità.
Benché evocata nel titolo la letteratura in questo libro è assente. Elias sarà immortale per l’eco de La casa dei morti di Dostoevskj. Per Henri: la fonte biblica del serpente di Genesi? Parliamo di giochi intertestuali che la critica conosce e pratica da tempo. Filippo Benfante ha dimostrato quanto importante sia Elias in una pagina dell’Orologio di Carlo Levi. Paola Valabrega (Rebus Primo Levi, Le Château, 2024) ha chiarito come lo scambio di schede che riguarda René ispira i più riusciti racconti leviani (Procacciatori di affari), il finale di Carbonio, la poesia “Il superstite”.
La letteratura, richiamata nel titolo, non si vede. Levi, contesta Luzzatto, avrebbe fatto meglio a risparmiarsi la frase secondo cui Elias in Lager era “uomo felice”. Ignora che poche pagine prima, Leopardi alla mano, ci è spiegato cosa significhi in Lager la coppia di parole “felicità-infelicità”. Ricercare chi sia stato davvero Elias (o Henri o René) è fatica sprecata. Per Luzzatto il gioco non è mai tra il vero e il verosimile, tra poesia e non poesia, ma tra il vero e il malizioso. Accusa lo scrittore di “inventare le citazioni” (p. 142), poi assume lui la voce di Elias per presentarci Levi come un “damerino presuntuoso”, “petulante ebreo italiano”, fino all’orribile e davvero imperdonabile “figlio di puttana” (pp. 31-32). Quando non può fare a meno di ricorrere a fonti che non siano archivistiche, prende cantonate clamorose: a proposito di Kuhn insiste su una fonte che esiste solo nella sua fantasia (Cartesio?). Per non dire dell’assurdo, anche questo malizioso, duello fra Beppo il greco (“la ragione di Atene”) contro l’ebreo ortodosso (“la follia di Gerusalemme”).
La violenza dei carnefici, dice Luzzatto, “ha stinto sulle vittime della Shoah e le ha sporcate, le ha degradate”. Il problema, certo, esiste e tutti sappiamo quanto ragionarci su serva a capire la genesi della categoria di “zona grigia.” Levi ha però anche lasciato detto a noi posteri che “se la condizione di offeso non esclude la colpa, non si conosce tribunale umano a cui delegarne la misura”. Quel tribunale umano ossessiona invece Luzzatto, al punto di essere così ambizioso da candidarsi a presiederlo.
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