Lo scorso 18 giugno, presso la Biblioteca Gino Bianco, si è tenuto il quinto incontro del ciclo di “seminari conviviali” intitolato “Libri fondamentali”. Abbiamo invitato Alberto Cavaglion a parlare di “Luigi Meneghello e la questione dell’antifascismo espiativo”. Il testo che segue è la trascrizione editata del suo intervento.

Parliamo oggi di un libro, I piccoli maestri, che, con Una questione privata di Fenoglio, si contende il primato come uno dei libri più belli sulla Resistenza italiana. Non ha avuto però all’inizio la diffusione e la circolazione degli altri, come ad esempio Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino. Vorrei qui oggi evidenziare l’anomalia di uno scrittore che si è presto, come diceva lui, “dispatriato”. Meneghello, nell’immediato dopoguerra, constatato che le speranze dell’esperienza partigiana stavano lentamente frantumandosi, ha seguito un iter universitario che lo ha portato a insegnare in una università inglese, non tra le più note, dove ha avuto la fortuna di incontrare un altro italiano, anzi veneziano, dispatriato, Giulio Lepschki, diventato poi il curatore testamentario e l’editore delle sue opere maggiori: il Meridiano, bellissimo, raccoglie insieme a I piccoli maestri una produzione vastissima. Protagonisti della Resistenza italiana che sono dispatriati materialmente, nel senso che sono andati in esilio nell’Italia del Dopoguerra, ve ne sono stati parecchi: dispatriati però anche in interiore homine sono stati storici come Franco Venturi o critici letterari come Carlo Dionisotti. Il primo nel lungo soggiorno a Mosca, il secondo si rifugiò nella letteratura italiana del Cinquecento e poi di fatto dispatriò anche lui verso l’Inghilterra.
Dopo giovanili studi in seminario, Meneghello ha avuto un passaggio dentro il fascismo non secondario, non diverso da quello di Bassani. Grande fortuna per lui è stata di incontrare un maestro, non a scuola (come fu Pietro Chiodi per Fenoglio) perché Antonio Giuriolo dalla scuola fascista si era allontanato per ragioni politiche, ma quello che lui dice molti anni dopo in memoria di Antonio Giuriolo vale per tanti, le sue parole meritano di essere lette testualmente: “Credo che di maestri di simile tempra ce ne siano stati in ogni parte d’Italia pochi bensì, ma non pochissimi. Dietro a ogni gruppo di studenti partigiani o resistenti si sente (qualche volta si sa) che ce n’è stato uno; e penso che sarebbe importante studiarli, ricostruire bene la loro cultura, riconoscere le loro scelte, l’origine e la tempra del loro non-conformismo, rintracciare la storia delle loro libere scuole e gli effetti della loro influenza […]. Sono convinto invece che c’è proprio qui la chiave per capire come avviene realmente la trasmissione della cultura”. Il finale della citazione guarda lontano: maestri di questa natura servono a capire le situazioni emergenziali, ma anche la “trasmissione della cultura” ovunque.
Il libro è un grande manifesto di antiretorica, proprio perché discende dalla lezione di questo maestro antiretorico. Giuriolo veniva da esperienze pacifiste, era stato allievo di Aldo Capitini in Toscana, conosceva la non-violenza e nel libro viene definito come un apostolo; il cenacolo degli allievi di questo maestro come un qualche cosa che assomiglia al mondo sommerso dei primi cristiani. Il laico e agnostico Meneghello ricava -vedremo degli esempi- spunti dal vocabolario della tradizione del primo cristianesimo, trae nutrimento dai libri che materialmente Giuriolo mette in mano a un gruppetto di giovani inesperti e impolitici o apolitici. Sono i libri che avevano segnato il modernismo, soprattutto francese e tedesco che avevano combattuto una dura battaglia (perdendola) contro i vertici delle gerarchie ecclesiastiche, fino a esserne esclusi nel 1907 con la enciclica Pascendi. I due modelli evocati sono Renan e Strauss. Strauss è meno noto ma la fortuna di Renan nel mondo modernista novecentesco è impressionante, eppure nessuno ha badato all’influenza che la critica storica esercita, travasandosi in un’esperienza di guerra: per questo dico che il libro di Meneghello è un libro attuale, ci fa capire che un pacifismo assoluto di fronte all’occupazione di uno straniero non può mai funzionare. Anche la tradizione della non-violenza deve, in determinate condizioni, fare i conti con il problema della violenza come anche dentro una lotta armata, come sarà la resistenza nel Vicentino in modo particolare, Giuriolo a un certo punto lascerà; è “il” protagonista del libro fino alla metà, poi si allontana, va verso Bologna, verso altre parti e morirà in combattimento ma lontano dalla formazione che ha contribuito a costruire. Se ne va come una figura che sembra uscita da una narrazione evangelica, ma pone ai giovani il problema della guerra giusta, dell’uso della violenza in un conflitto che ha queste caratteristiche.
Il libro ha una lunga gestazione e lascia dietro di sé una scia di altri scritti: esce nel ’63, è stato più volte ripensato. Meneghello era uno scrittore ossessivo che ha ricamato su queste pagine per una vita intera fino ad arrivare a un’edizione pressoché definitiva che è quella raccolta nei Meridiani, ma non ha mai cessato di ragionare su questo concetto che è quello su cui oggi io vorrei soffermare la vostra attenzione.
Nel libro il maestro si sdoppia più volte. Giuriolo è Toni, Antonio e il comandante, indossa tante vesti diverse, ma è un interlocutore unico per tutti, per il protagonista del libro in modo particolare. A un certo punto del libro Meneghello confida con non poca vergogna di aver scritto sul giornale della gioventù fascista alcuni articoli di forte coloritura fascista, ma soprattutto un necrologio molto ideologizzato del filosofo francese Henri Bergson e dice a Toni con molto candore che quello che ha scritto gli pesa sulla coscienza. Antonio nel libro parla a monosillabi, parla con il suo modo di vestire, il suo modo di camminare; indossava un vecchio maglione, sembrava un escursionista, si dice a un certo punto,  un alpino, capitato lì per caso, però sa spiegare e sa farsi capire. Al giovane Meneghello, alla vergogna da lui provata per quegli articoli giovanili spiega con i fatti, con i comportamenti come sia possibile redimersi: “Oggi si vede bene che volevamo soprattutto punirci, la parte ascetica, selvaggia, della nostra esperienza significa soltanto questo, ci pareva confusamente che per ciò che era accaduto in Italia qualcuno dovesse almeno soffrire, in certi momenti sembrava un esercizio personale di mortificazione, in altri un compito civico, era come se noi dovessimo portare sulle spalle il peso dell’Italia e dei suoi guai, e del resto anche letteralmente io non ho mai portato e trasportato tanto in vita mia, farine, esplosivi, pignatte, mazzi di bombe incendiarie, munizioni, era un cumulo grottesco, in cima a tutto c’erano le pentole soprannumerarie, la corda, gli ombrelli ripiegati dei paracadute, sotto il grande strato dei sacchi dei viveri, sotto ancora lo zaino rigonfio pieno di calze e di palle e sotto lo zaino io”.
Un’immagine meravigliosa. Più tardi, poche righe sotto, Meneghello dirà la parola giusta, era il nostro “un antifascismo espiativo”, espiativo, aggettivo meraviglioso che non c’è in nessun’altra memoria resistenziale dell’Italia del Dopoguerra, in autori che avevano cose ben più gravi da espiare, altro che un necrologio di un Henri Bergson in camicia nera. Molti anni dopo, dispatriato in Inghilterra, troverà un più raffinato gioco di parole per definire il rito espiatorio: exercise in exorcism. Meneghello meglio di tutti i suoi coetanei entrati nella Resistenza, dopo aver sostenuto la guerra dell’Asse ancora nell’autunno del 1942, trova la forza di dire con tanta chiarezza, con tanta lucidità e lungimiranza che c’era qualche cosa da espiare e che la Resistenza ha nel suo farsi un elemento di autoflagellazione che sarebbe errato attribuire alla formazione cattolica del protagonista. Si tratta di una scelta etica, consapevole, che matura grazie alla lezione di un maestro affascinante. Non si trova facilmente in altri percorsi di “scelte” resistenziali altrettanta onestà e limpidezza. Nemmeno nel capitolo sulla “scelta” del libro di Claudio Pavone io sono stato capace di trovare l’energia che promana dall’antifascismo “espiativo”.
La questione della scelta espiativa mostra bene la difficoltà di quei momenti, il disorientamento generale, la scivolosità di ogni decisione. Consiglio in proposito un libro molto bello che anche in questi ultimi mesi di guerre, di contrasti, di ideologie contrapposte, di lacerazioni, di scelte difficili da operare per tutti noi,, mi è capitato tra le mani in traduzione italiana. Il libro in Francia è noto da molti anni: l’autore è Pierre Bayard, il titolo molto efficace: Sarei stato carnefice o ribelle? (Sellerio). Che sia passato inosservato tra quegli storici della Resistenza che non vogliono concedere attenuanti a chi ha fatto la scelta sbagliata non meraviglia. Bayard gioca da psicologo, non è uno storico, non è un antropologo, è un esperto di comunicazione, soprattutto di problemi di insegnamento e ragiona, come Pavone (ma con minori prevenzioni ideologiche), sulla categoria della scelta, o, meglio, di ogni scelta in condizioni estreme. La domanda è questa: come reagiamo di fronte a una scelta radicale, come si fa a scegliere la parte giusta dove andare quando si è costretti dalla lezione delle cose? Bayard parte dall’esperimento di Milgram, molto noto anche agli psicologi, che ha generato una ricca bibliografia, e ci invita a riflettere sul capolavoro di Louis Malle, Cognome e nome: Lacombe Lucien, una storia di resistenza francese in cui si racconta di un giovane che, all’indomani della capitolazione della Francia, si trova di fronte allo stesso bivio in cui si troveranno Meneghello e gli altri discepoli di Giuriolo. Sapeva Lucien che nel suo villaggio vi era stata una spaccatura, c’erano quelli che si erano uniti alla resistenza e quelli che avevano scelto la via della collaborazione con il nazismo. Lui è tentato, tutti i suoi amici stavano andando coi partigiani, prende la bicicletta e decide di farlo anche lui, ma durante il tragitto fora una ruota e viene aiutato da due tedeschi, che non conoscono naturalmente le sue intenzioni e lui, un po’ perché grato per il soccorso, un po’ perchè del tutto inesperto e impolitico, così come lo erano tutti i diciottenni, dicianovenni e ventenni italiani all’8 settembre, da potenziale ribelle diventa carnefice e commetterà delle azioni orribili. Bayard parte da questo esempio cinematografico per cercare di capire che cosa ci porta, in condizioni estreme, a fare una scelta, soprattutto in un momento in cui una scelta consapevole è molto difficile se non si ha la buona sorte di trovare un Maestro salvifico. Bayard dice che la prima motivazione dovrebbe essere il disaccordo ideologico con quanto sta accadendo, ma se tu non hai consapevolezza politica come puoi scegliere di essere in disaccordo con quello che fa Petain, o con la Repubblica sociale dopo l’8 settembre?
Quello che è importante nel ragionamento di Bayard è un passo che la cultura italiana ha impiegato tantissimo a fare: smettere di giudicare quella scelta difficilissima alla luce del post, del senno del poi. La grandezza di questo libro sta nel fatto che Meneghello, pur nel ’63, racconta e parla di sé, di lui in prima persona e del dialogo che ha con Giuriolo, come se rivivesse quei giorni, quella difficoltà di capire subendo con sofferenza l’esito di un “corso accelerato di antifascismo” che non conduce alla disumanità (Giuriolo prende un’arma e sa sparare, però è anche la persona che al prigioniero tedesco che aveva freddo regala il suo maglione e passa la notte con lui sapendo che il giorno successivo sarà fucilato).
Poi c’è un terzo nome che va ricordato -anzi un diario- per descrivere l’enigma dell’ora, la difficoltà della “scelta” e insieme l’importanza di avere un maestro.
Falco Marin, il figlio del grande poeta gradese Biagio Marin, ci ha lasciato un diario della sua giovinezza e della sua esperienza di guerra nei paesi balcanici (l’ultima ed. è La traccia sul mare. Diario e lettere 1936-1943, Scheiwiller, 1966). Il destino fu crudele per lui. Falco fu colpito da un colpo nemico il giorno in cui cadeva Mussolini, esattamente il 25 luglio 1943. Di questo diario ci è rimasta una formidabile recensione di Salvemini, uomo libero che giudicava l’esperienza umana senza paraocchi ideologici. Salvemini scrive che noi non sappiamo quale sarebbe stata la scelta di Falco se non fosse caduto quel giorno. Avrebbe potuto combattere di qui o di là con la stessa libertà del suo animo. Da molti anni sto cercando di far ristampare il diario di questo giovane intelligente e vivace, ma non si riesce, nemmeno vicino a Grado dove la memoria del padre persiste.  
Oggi noi disponiamo degli articoli scritti da Meneghello nella seconda metà degli anni Trenta, alcuni anche imbarazzanti, ancora alla vigilia del ‘37-’38; non arriva a firmare cose a favore del razzismo, però sfiora di striscio anche la montante campagna che prelude alle leggi razziali. Nulla di moralistico nel riconoscerlo finalmente, ma a patto di servirsi di queste premesse per circoscrivere meglio l’esperienza dell’antifascismo “espiativo”.
A sorpresa il libro ha una serie di riferimenti e di letture che sono curiose e inaspettate. Per esempio, Giuriolo aveva naturalmente la competenza e le conoscenze per tramandare la lezione dei classici maestri dell’antifascismo, però quando arriva lui e deve spiegare perché sia giusto combattere qualcosa cambia. Vi leggo un altro pezzo perché capiate questa ambivalenza: “Io e Nello stavamo ad ascoltarli. Così dev’essere stato per i primi cristiani quando gli arrivava un apostolo in casa. Antonio non era solo un uomo autorevole, dieci anni più vecchio di noi: era un anello della catena apostolica, quasi un uomo santo. Senza di lui non avevamo veramente senso, eravamo solo un gruppo di studenti alla macchia, scrupolosi e malcontenti, con lui diventavamo tutta un’altra cosa. Per quest’uomo, passava la sola tradizione alla quale si poteva, senza arrossire, dare il nome di italiana. Antonio era un italiano in un senso in cui nessun altro nostro conoscente lo era; stando vicino a lui ci sentivamo entrare anche noi in questa tradizione. Sapevamo appena ripetere qualche nome come Salvemini, Gobetti, Rosselli, Gramsci, ma la virtù della cosa ci investiva. Eravamo catecumeni, apprendisti italiani. In fondo era proprio per questo che eravamo in giro per le montagne, facevamo i fuorilegge per Rosselli, Salvemini, Gobetti, Gramsci, per Toni Giuriolo. Ora tutto appariva semplice e chiaro. Sospiravamo di soddisfazione perché era arrivato Toni, e anche nelle rocce, nel bosco, pareva che se ne vedesse un segnale”.
A un certo punto spunta addirittura Omodeo insieme a Renan: sono i libri che Giuriolo evidentemente donava o prestava; Renan ha scritto una famosissima vita di Gesù, Omodeo ha scritto uno dei più bei libri sulle origini del cristianesimo, lo scontro è tra due culture, potremmo dire: “Anche come studi eravamo ben distribuiti, uno lettere, due medicina, uno legge, due le industriali, uno matematica, uno filosofia. Eravamo in nove, contando anche Rodino che era di Vicenza, ma non so bene come stesse con gli studi, del resto entro qualche settimana a pochi passi da me glieli troncarono. L’ho detto che c’entra il nove, coi tre stranieri (il russo si chiamava Vasili), eravamo in dodici”. Cioè come gli apostoli di Gesù. “Antonio, che era antimilitarista, non sentiva molto la guerra come problema tecnico; era del tutto indifferente al tipo di scoppi e di spari e a ogni rigido programma, non perché volesse affidarsi al caso ma perché credeva che ciò che veramente importa è l’atteggiamento della gente, il resto viene dopo”.
E poco oltre: “Ancora alle nostre domande, piccoli colpi o grosse azioni dimostrative, arroccarsi o ambulare, specializzarsi o espandersi, per Antonio non erano dilemmi ma possibilità astratte”.
Siccome siamo qua a Forlì credo sia giusto rendere onore a una pagina di Mazzini che c’è ne I piccoli maestri citata per esteso, l’unica citazione larga, diciamo una paginata di istruzioni per l’uso, cioè come si organizza la guerra per bande, un piccolo manuale sul buon uso della resistenza armata. Altro dettaglio, stravagante se posto accanto al manualetto mazziniano: una benedizione. “Benedetta la nostra Tebaide dove cercavamo l’acqua negli anfratti della roccia e il corvo ci portava la polenta e la margarina”. Ma dove viene mai questo corvo e perché la polenta? Possiamo capire la polenta e la margarina, il cibo quotidiano dei partigiani ma il corvo? La prima mia ipotesi era che vi fosse addirittura complice il ricordo dei libri della biblioteca di Toni, forse il ricordo del Libro dei Re, dove c’è il profeta Elia che ordina ai corvi per ordine del Signore di portare agli anacoreti in preghiera pane e carne. Poi mi è venuto in mente il Beato Angelico, grazie a una elementare esperienza che chiunque può fare su internet, nel sito della Galleria degli Uffizi, un podcast per i bambini, dove Tebaide, capolavoro dell’Angelico, è stato abbassato ad altezza di bambini, una piccola graphic novel diremmo noi oggi, dove si vedono gli anacoreti della Tebaide e si ascolta una studentessa di storia dell’arte fiorentina spiegare ai bambini, cella dopo cella, meglio, anfratto dopo anfratto, che cosa accade. Guardando con pazienza in uno di questi anfratti si vedono due monaci che stanno pregando e un corvo dal becco aguzzo che cala giù nutrimento per loro, un tozzo di pane, non polenta e margarina come ovvio. Si ricordi che in uno di questi anfratti a testa in giù per riprendersi il parabellum lasciato lì durante uno dei rastrellamenti, Meneghello scende con la Simonetta dopo il 25 aprile. Così inizia il libro, con una scena semicomica e l’innamoramento nella malga con la fanciulla che lo segue come una cucciola (“Aveva i capelli un po’ arruffati, era senza rossetto… il malgaro ci diede latte nella ciotola di legno e lo bevemmo a turno”).
Su questi aspetti figurativi del libro mi sono soffermato in un mio saggio da poco uscito (Il corvo, la polenta e la margarina. Antonio Giuriolo nei Piccoli maestri, Ronzani editore, 2024).
Questo percorso, per affrontarlo, richiede il rifiuto di ogni dogmatismo. Come tutti i maestri socratici, di scritto Giuriolo non ha lasciato nulla, apprendiamo che era un maestro che insegnava con i fatti e con i libri, anche distanti dalla storia contemporanea. Questi fenomeni di osmosi meritano forse di essere valorizzati come esempi di un sistema di pensiero anticonformista. Se si riflette per esempio al caso-Mazzini: come pochi altri Meneghello è stato capace di sottrarre l’eredità mazziniana alle profanazioni che Gentile aveva avviato nei primi anni Venti, senza dire dei consensi dentro la Repubblica sociale. Sulla scia dei Rosselli, Meneghello mira a salvaguardare la memoria risorgimentale. Di Mazzini viene riportata una pagina intera, cosa che non accade con nessun’altra fonte. Una pagina meravigliosa che ci restituisce il senso della lotta partigiana. Inserita ne I piccoli maestri quella pagina assume un valore supplementare. E anche di grande attualità. La insistente lettura ideologica ha finito con lo snaturare la purezza di una scelta difficile. Difficile perché espiativa.  
Ciò che si è visto nell’ultimo 25 aprile -l’ultimo tristissimo 25 aprile 2024- è ancora la conseguenza del fatto che Meneghello non ha fatto scuola. Se Giuriolo e i piccoli maestri avessero fatto scuola non continueremmo a trovarci di fronte a un uso pubblico di parte di quei fatti.
Un solo esempio, lo traggo dall’attualità. Non sarà sfuggita, nella sera del 25 aprile appena trascorso, in una piazza piena di ascoltatori attenti (quasi adoranti), l’intervista di Marco Damilano ad Alessandro Barbero. Intervista che aveva molti pregi, ma quel che ha colpito è stato ascoltare Barbero, senza che nessuno dissentisse, pronunciare una cosa del tutto ovvia, quasi banale e cioè l’invito rivolto a tutti noi perché si faccia un passo in avanti, sorvolando sulle questioni “private” (Barbero faceva allusione alla sua stessa esperienza di nipote di un nonno fascista ucciso dai partigiani) per non perdere di vista e anzi ribadire con forza la supremazia delle ragioni della storia, il prevalere della storia su quelle ragioni private che appartengono alla vita dei singoli.
Ascoltare queste frasi espresse finalmente in modo chiaro e distinto fa piacere e c’è da sperare che l’opinione pubblica ascolti da Barbero quello che altri prima di lui hanno detto senza essere ascoltati.
Il che non può non procurare un filo di malinconia pensando a quanto lento sia stato, nella storiografia come nell’opinione pubblica e nella scuola, il prendere coscienza di una verità tanto elementare, premessa indispensabile per il futuro della memoria resistenziale e di una crescita collettiva. Questo lentissimo processo di avvicinamento a una nuova linea di confine, nell’uso pubblico della Resistenza, si scorge, ma si fatica a scorgerne la centralità, perché l’analisi storica spesso ancora risulta schiacciata dai giudizi politici di ciascuno di noi.