Non tutti i mali vengono per nuocere: affrontare il tema da questa angolatura può aiutare a uscire dal trito refrain sull’antisemitismo. Il caso della preghiera dell’Imam in università presenta maggiori fattori di rischio del pericolo di un effettivo ritorno dell’antisemitismo, di cui non si cessa di discutere. Scomodare la categoria dell’antisemitismo significa confondere l’effetto con la causa. La questione va ricondotta alla libertà di fede che deve essere riconosciuta a quella moltitudine di cittadini che ritengono che una messa, una preghiera di un Imam, la lezione di un Rav siano molto più importanti di Parigi. Destra e sinistra nell’Italia di oggi non comprendono l’urgenza di una legge-quadro sulla libertà religiosa. Gli ebrei hanno diritti tutelati che i musulmani non hanno perché con loro non è stata firmata ancora un’Intesa. Sembriamo distratti da altri pensieri e ne stiamo già pagando le conseguenze. Il problema non è soltanto quello, peraltro grave, della libertà di opinione che nelle università dovrebbe essere garantita a tutti (e dunque non si capisce perché nelle sedi delle università occupate orrida sarebbe la fine di uno studente che chiedesse di dare la parola al familiare di un ostaggio rapito il 7 ottobre). Intorno a questi dilemmi della libertà di fede regna una grande confusione, le luci della ribalta sono riservate a chi delle messe, delle preghiere e delle lezioni dei Rav e dell’Imam importa poco, pensando tutti soltanto al tornaconto politico.
Può piacere o dispiacere (a me dispiace: avrei preferito una scelta separatista cavouriana), ma in Italia nella Costituzione, gli articoli 7 e 8 hanno confermato la logica pattizia affermatasi subito dopo la effimera parentesi del Libera Chiesa in Libero Stato storica (magari la destra odierna ritornasse a quei fondamenti della destra storica). Il Concordato e poi le leggi sui culti ammessi hanno definitivamente rinsaldato l’idea che lo Stato debba stringere accordi con le confessioni religiose. Evangelici ed ebrei hanno già siglato un’Intesa. Prima o poi dovrà farlo anche l’Islam. Senza l’esistenza di questo accordo tutto rimane nel campo dell’opinabile. Il diritto ha imboccato una strada che prevede l’accettazione da parte di maggioranza e minoranze di un patto, affinché sia concesso a ciascuno il suo. Diritti e doveri. Indietro non si può tornare. Che cosa sarebbe successo se fosse stata scelta la strada alternativa del separatismo non ci è dato sapere. Su questa linea di principio a chi vuole il riconoscimento di diritti legittimi conviene rimanere, se non vuole finire nel caos dell’indistinto, nel baratro della confusione fra religione e politica e così darla vinta agli anticlericali, ai mangiapreti, agli antisemiti, ai finti liberi pensatori alla Odifreddi, alla loro dissacratoria propaganda di chi disprezza ogni preghiera. Circoscrivere i limiti dell’antisemitismo come dell’islamofobia senza estendere prima a tutti sul piano giuridico la libertà religiosa è rischioso. Fare concessioni fuori dal contesto giuridico, in nome di una legittima compassione verso le sofferenze dei palestinesi serve a nulla; anzi, a me sembra un comportamento che rientra nella tanto vituperata categoria degli “italiani brava gente” (proprio gli storici dell’antisemitismo ci hanno insegnato che tanto buoni gli italiani non sempre dimostrano di essere con i più deboli). Pensare a una scorciatoia perché c’è Gaza e i palestinesi soffrono così tanto significa imboccare una strada pericolosa, che non li aiuta. La libertà religiosa ha una sua storia, si tratta di studiarla, perché spalanca le porte anche alla libertà di parola. Il diritto ecclesiastico, che tutti si guardano bene dal riesaminare, andrebbe affrontato con rigore nelle università e le garanzie dei pochi rispetto allo strapotere dei molti viene certo prima della storia dell’antisemitismo e delle leggi razziali, che fino ...[continua]
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