Possiamo partire dal "compromesso socialdemocratico”? Che cos’è?
Il compromesso socialdemocratico è stato un connubio di principi democratici e partecipativi con il mercato, che lasciava alle imprese il compito di creare occupazione e innovazione, ma al contempo ne disciplinava il comportamento. Da questo punto di vista, le imprese erano concepite come una sorta di bene pubblico soggette a uno scrutinio pubblico nel quale lo Stato aveva una funzione di direzione, supplenza, ausilio. Quindi le imprese non sono le artefici incontrastate di decisioni che portano al benessere sociale. In più lo Stato ha il compito di assicurare che quel benessere sia accettabilmente distribuito. Certo, quel compromesso era favorito da una situazione internazionale che creava condizioni favorevoli -i salari crescevano, la produttività cresceva e i benefici si distribuivano, la domanda interna veniva sorretta da questi rimandi e quella esterna da analoghi processi che avvenivano in parallelo negli altri paesi- ma l’importante è che avesse internamente una sua coerenza in termini di democrazia economica dove per democrazia economica dobbiamo intendere la protezione dai rischi sociali, il disciplinamento dei conflitti di interesse, la capacità di mantenere un’occupazione sempre elevata e di proteggere il sistema da crisi produttive, la capacità di controllo dei cittadini sulle scelte private che influenzano l’ambiente di ciascuno, la permeabilità dello Stato alle istanze popolari assicurata attraverso i partiti di massa.
In definitiva, il compromesso socialdemocratico è stata una concezione a tutto tondo, dove capitalismo e democrazia si sposavano in un connubio abbastanza soddisfacente.
Questo connubio felice a poco a poco è andato in crisi. Perché?
Innanzitutto per alcuni eccessi: eccessi di spesa, forse, un certo appesantimento burocratico, forse una presenza molto estesa dello Stato (la famosa protezione dalla culla alla morte), contro i quali, enfatizzandoli molto, si è poi scagliata la critica neoliberale, che vedeva i cittadini privati della libertà di scelte, la struttura dello Stato irrigidita, spese che risultavano in tassazione. La società si era molto più aperta per creare stati che non vedevano le proprie fortune legate a quelle collettive. Ormai un’élite dominante era stata resa molto più forte, più sicura del proprio ruolo sociale, grazie all’indebolimento delle controparti sindacali dovuta all’apertura internazionale e all’inflazione. Reclamava soprattutto che si riducesse la tassazione. E che si riportasse l’inflazione (imputata ai sindacati) sotto controllo. La tecnologia ha aiutato molto consentendo lo spezzettamento delle unità produttive (cioè, il "decentramento”, prima all’interno e poi internazionale). Consideriamo che una società più omogenea determina coalizioni più omogenee, gruppi sociali più definiti, identità molto più forti. Quindi è stato difficile per la sinistra, sia tenere un argine difensivo, sia produrre una controffensiva vera e propria sul piano culturale e sul piano delle proposte.
Quando poi c’è stata la liberalizzazione completa dei movimenti di capitale, che hanno reso il mercato mondiale un tutto unico, il potere dello Stato è diminuito moltissimo, ciascun paese è stato soggetto a uno scrutinio della finanza internazionale e anche le opzioni di politica economica si sono ristrette molto; se aggiungiamo la crisi fiscale che ha toccato quasi tutti i paesi, capiamo ancora di più come si determinino condizioni molto sfavorevoli alla sinistra, che lentamente hanno fatto mettere da parte politiche interventiste, di spesa, ma non solo, anche di interferenza nelle scelte private. Così è dilagata un’altra concezione del mondo che aveva ovvi connotati ideologici, ma che inizialmente è apparsa come un insieme di precetti quasi neutri per riconquistare un dinamismo dell’economia (che aveva perso nel frattempo il motore domanda interna-domanda internazionale). Il capitalismo, se vogliamo usare questa c ...[continua]
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