Dall’espressionismo convulso di Clemente Rèbora al classicismo contemplativo di Vincenzo Cardarelli. Un tempo storico lacerato da conflitti drammatici, nel primo caso. Un bisogno di distanza dalla storia e dai suoi eventi, nel secondo caso. Rèbora oscilla, non riconciliato, fra istanze opposte, fra astrazioni e fisicità che la ragione non trova modo di far convivere, ma che in realtà convivono. Cardarelli fissa un punto fermo dell’esperienza al di là del tempo, dove il tempo si essenzializza in figure chiaramente percepibili e quietamente pensabili.
Accostare e confrontare questi due poeti è come trasferirsi di colpo in due dimensioni incommensurabili, reciprocamente aliene della poesia italiana. Rèbora esprime e vive come nessun altro la violenza dei conflitti di primo Novecento che culminano nella Grande guerra. Cardarelli cerca subito un aldiqua e un aldilà del conflitto, ricompone un’unità armonica fra tempi e spazi, vita e coscienza, esperienza e stile. Quando li si legge non si può che pensare alla diversità non solo culturale e morale, ma perfino percettiva fra l’Italia lombarda di Rèbora e l’Italia centrale di Cardarelli. Da un lato l’Italia che ha prodotto Caravaggio e Manzoni, dall’altro l’Italia di Raffaello e di Leopardi, anche se entrambe ridotte a misure scorciate, laterali, marginali. La storia culturale italiana è ormai fuori rispetto all’Europa, in posizione secondaria e derivata. La stessa poesia italiana vive relegata ai margini e accetta onestamente la perdita della sua influenza pubblica, il crepuscolo della sua presenza nella dialettica culturale e politica. Acquistando autenticità e per essere fedeli a se stessi, i nostri poeti abbassano la voce, circoscrivono e focalizzano la propria situazione, si eclissano, evadono, si nascondono, tacciono, rinunciano all’ambizione di costruire l’edificio di una propria "opera”.
L’esperienza e l’ideologia futurista restano un’esplosione spettacolare, inconsulta e velleitaria. L’esperienza "crepuscolare” segna invece un punto di non ritorno: il congedo, la dissociazione fra poesia e storia. Fino ai decenni 1945-’65, fra senso della sconfitta e nuovo impegno civile e politico, la poesia italiana è una poesia che si è arresa all’impotenza comunicativa e all’irrilevanza sociale. Prima di Montale, che comincia a essere centrale negli anni Trenta, con l’eccezione di Saba, che riemerge nel 1945 come la maggiore alternativa antiermetica e antinovecentista, è proprio fra il drammatico espressionismo di Rèbora e il neoclassicismo contemplativo di Cardarelli che si percepisce meglio il passaggio di situazione. Nessuno dei due è del tutto catalogabile in termini di "corrente” o di "scuola”. Rèbora non ha niente a che fare né con i crepuscolari né con i futuristi, Cardarelli è sostanzialmente estraneo all’ermetismo, lo costeggia in parallelo ma a distanza, scavalca la tradizione modernista del Simbolismo e punta direttamente a Leopardi, dandone un’interpretazione umanisticamente riduttiva, in cui lo stile prevale sulla filosofia, l’attenzione alla forma assorbe la coscienza morale e letterariamente ne diffida. Mentre in Rèbora è la coscienza morale a diffidare dello stile, lo maltratta e lo sottopone a tensioni inusitate che forzano e stravolgono sia il lessico che i nessi sintattici e metrici in nome di verità dirompenti che entrano nel testo con una violenza e un’urgenza selvagge.
In termini di storia culturale, Rèbora esemplifica come nessun altro il moralismo e l’intellettualismo politico degli anni Dieci caratterizzati dalla "Voce” (1908-’16) e traumaticamente segnati dalla guerra. Cardarelli è il più tipico rappresentante del "richiamo all’ordine” degli anni Venti e di una rivista come "La Ronda” (1919-’22). Due climi opposti come il buio e la luce, il freddo e il tepore, l’inverno e l’estate. Anche solo in termini appunto "climatici”, di figure tematiche e di tono, il contrasto non potrebbe essere più lampante. Ecco Rèbora:

O pioggia dei cieli distrutti
che per le strade e gli alberi e i cortili
livida sciacqui uguale,
tu sola intoni per tutti!
Intoni il gran funerale
dei sogni e della luce
nell’ora c’ha trattenuto il respiro:
bùssano i timpani cupi,
strìsciano i sistri lisci,
mentre occupa l’accordo tutti i suoni;
intoni il vario contrasto
della carne e del cuore
fra passi neri che han gocciole e fango:
scivola il vortice umano,
vibra chiuso il lavoro,
mentre s’incava respinta l’ebbrezza.
Ma tu, ragio ...[continua]

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