Uno dei principali obiettivi polemici del suo ultimo libro è l’idea di governare la storia, di rivoluzionarla, cioè uno dei tratti centrali del pensiero di gran parte della sinistra…
Certamente l’idea di rivoluzione è stata un mito che, nell’Occidente moderno, è diventato una teoria. La rivoluzione americana, per esempio, in realtà fu una guerra di liberazione da un dominio coloniale; mentre la rivoluzione francese, in cui l’aspetto mitologico era abbastanza forte, è veramente stata il tentativo di rifondare un’intera società a partire dalle radici, dai fondamenti. Non a caso ha cambiato anche il calendario. Questa idea di cambiamento totale si è poi trasmessa a gran parte dell’800 ed è entrata nel marxismo. Non ci si può nascondere che il giovane Marx si forma sognando la possibilità di trovare -lui giovane filosofo tedesco, erede di una tradizione di pensiero straordinariamente sofisticata, ma anche politicamente impotente- la “combinazione chimica” che potesse rovesciare il mondo. In questa riformulazione convergevano la Francia -con la sua cultura illuministica, il suo estremismo intellettuale, la sua capacità di infiammare la società civile e di prendere in mano il bandolo politico degli eventi-, ma anche quella scienza della modernità che era l’economia politica, grande costruzione degli inglesi. Questa combinazione si è trasmessa a tutto il marxismo del ‘900, a tutti i progetti rivoluzionari, ai partiti comunisti, diventando un tratto straordinariamente importante che ha percorso, fino al 1968, la politica moderna. Ma l’idea di rivoluzione implica una certa particolare filosofia della storia, tant’è vero che anche alcuni marxisti un po’ eterodossi, come Sebastiano Timpanaro, che si dichiarava marxista-leopardista, trovano che nel marxismo ci sia un eccesso di storicismo, cioè l’idea secondo cui tutta la realtà è storia. Timpanaro sottolineava invece che a fianco della storia va messa nel conto anche quella natura di cui si rendeva conto benissimo Leopardi, e cioè un fondo di non modificabilità. Noi non siamo esseri totalmente storici, siamo anche esseri naturali, soggetti a un tipo di leggi e di necessità che non sono accessibili alla volontà umana di trasformazione. Questi dubbi e queste obiezioni, comunque, non hanno modificato la natura del marxismo, in cui, come dicevo, lo storicismo funge da cornice generale all’interno della quale il marxismo stesso esiste e prende forma. A sua volta, poi, questa idea della storia ne contiene un’altra, cioè l’idea di progresso. Come l’economia, il progresso sarebbe qualcosa che deve sempre crescere, ma questa è un’idea infantile, se si vuole mostruosa: cosa può mai essere qualcosa che non fa altro che crescere?
Eppure non esiste praticamente nessuno storico che vi dica: “Quella volta c’è stato un errore, sarebbe stato meglio non andare avanti, sarebbe stato meglio stare fermi”. Il che significa che l’idea della storia come progresso è così radicata nella mentalità moderna che tutti ne siamo mentalmente vittime. Va comunque sottolineato che l’idea di storia come processo globale, in cui tutto è interconnesso e in cui tutto è coinvolto dall’idea di progresso, è una superstizione generale che riguarda tutte le ideologie politiche moderne.
Il marxismo ha soltanto accentuato, idealizzandola politicamente e filosoficamente, l’idea di sviluppo necessario e inarrestabile che è fisiologica nel capitalismo. Lo sviluppo economico nel marxismo diventa addirittura un’altra cosa, mediante un salto dialettico che mette in mostra l’idea, secondo me molto tedesca, di pedagogizzare la storia. Marx, infatti, aggiunge all’idea capitalistica di sviluppo l’idea che questo sviluppo, buono di per sé già all’80%, diventa ottimo quando fa sì che alcune classi, che sono il reale motore dell’economia, vanno al potere attraverso una rivoluzione. Al fondo di tutto, insomma, sia nei capitalisti sia nei marxisti, c’è una solidarietà fortissima nell’ammirazione per lo sviluppo e per il gigantismo capitalistico: non è stato un caso che gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si siano messi a gareggiare sullo stesso terreno.
Nel primo ‘800, nella parzialmente sottosviluppata Germania, abitata da teologi e da filosofi idealisti, c’era certamente una sorta di entusiasmo ...[continua]
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