Francesco Guccini nella Canzone per il Che (2004), scritta in un periodo di crisi delle ideologie novecentesche, mette il centro emotivo della storia nella separazione del rivoluzionario dagli affetti privati: il rivoluzionario "è guidato da un grande / sentimento d’amore, / ha dei figli che non riescono a chiamarlo, / mogli che fan parte di quel sacrificio”1. Qui sta il suo "sacrificio”, il primo atto eroico, che costa dolore.
Un secolo e mezzo prima, invece, alle origini di una tale ideologia, le parti sono quasi rovesciate. La rottura con gli affetti privati è un atto desiderato, pressoché gioioso, di liberazione, e il martirio al quale può andare incontro il ribelle è incastonato in una corona dalla quale spesso esula la famiglia.
Con la memoria del Che, dunque, il cerchio si chiude. Quella figura di rivoluzionario, partito all’avventura nel cuore romantico dell’Ottocento, con una rottura da quella famiglia affettiva che veniva affermandosi, tra flirt e matrimonio elettivo, fa un ritorno a casa, al tramonto delle ideologie, nel tardo Novecento.
All’origine, invece, quando gli altri -esseri comuni- s’imbozzolavano nel nido domestico, il rivoluzionario se n’era staccato, per un atto di auto-individuazione e per abbracciare le grandi cause umanitarie. Quell’atto di nascita, almeno in Italia, è storicamente segnato, in modo paradigmatico, dalla figura di Andrea Costa: senz’altro il maggiore leader popolare che abbia preso il testimone da Garibaldi. Costa emergeva al tramonto della figura del rivoluzionario nazionale immettendovi il "malfattore”, il primo rivoluzionario internazionalista, e portandolo fino alla costituzione del primo partito socialista, anzi il Partito socialista rivoluzionario di Romagna2, nel 1881, quasi in coincidenza -emblematicamente- con la morte dell’eroe dei Mille.
Il libro di cui ci occupiamo è il bilancio di una storia iniziata, appunto, sul finire del Risorgimento ed esauritasi negli anni recenti. L’avvicinerei privilegiando gli aspetti più esistenziali e privati, a scapito dei prevalenti aspetti dottrinali e ideologici. È ben noto, infatti, che l’anarchismo è un campo ben ampio di culture politiche, di elaborazioni e critiche culturali, di costruzioni utopiche. Ma su questi aspetti mi sembra completo il bilancio storiografico steso da Berti e De Maria in un saggio incluso nel volume, il quale costituisce, da questo punto di vista, una rassegna completa, meglio un’analisi esaustiva della storiografia dell’anarchismo, e ne fornisce una mappa concettuale, suddivisa in sette sezioni tematiche: dalle interpretazioni, alle biografie, agli insediamenti territoriali, all’esperienza dell’esilio, fino all’ecologia e al neoanarchismo, all’arte e alla letteratura, concludendosi con una sezione dedicata agli strumenti (repertori e fonti). La ripartizione dei saggi suddivide in tre fasi la storia dell’anarchismo, in Italia e nel mondo occidentale: la prima va dalla nascita alla Prima guerra mondiale; la seconda copre il periodo dei totalitarismi novecenteschi; la terza comprende gli ultimi sessant’anni e il declino di questa famiglia politica.
Il libro si fa apprezzare per onestà e apertura intellettuale: da un lato prende atto di una carenza di fondo della storiografia sull’anarchismo, che risiede nell’interesse quasi esclusivamente politico, e dall’altro si apre alla ricerca di nuovi approcci verso la storia sociale. Una direzione che per molti versi era già stata frequentata, anche se non sistematicamente come è avvenuto recentemente con il dizionario degli anarchici, dagli studi di carattere biografico, dando prova di approcci originali. Seguendo le vicende delle singole individualità, spesso le biografie si sono allargate al contesto sociale, agli aspetti più generali del movimento collettivo. Gli studiosi si sono misurati con le carte di polizia e dei militanti, conservate negli archivi pubblici e privati, approfondendo le linee di tensione fra la dimensione privata e quella pubblica.
Da Cafiero a Malatesta, da Costa a Merlino: non sarà il caso di richiamare i volumi e i saggi fondamentali di Nico Berti. Carlo De Maria a sua volta è tornato su Berneri, poi su un socialdemocratico come Alessandro Schiavi, mostrando tutta la fecondità di un approccio biografico allargato al ...[continua]
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