“Ferro”, lo splendido capitolo de Il Sistema periodico di Primo Levi contiene il ritratto morale di Sandro Delmastro, indimenticabile e indimenticato amico di Levi, e si conclude così: “Sandro era Sandro Delmastro, il primo caduto del Comando militare piemontese del Partito d’azione. Dopo pochi mesi di tensione estrema, nell’aprile del 1944 fu catturato dai fascisti, non si arrese […], tentò la fuga […], fu ucciso” (Primo Levi, Opere, vol. I, Einaudi 1997, p. 781). In un’ottima ricerca, Roberta Mori (Svegliarsi adulti. Vita di Sandro Delmastro partigiano e amico di Primo Levi, Einaudi, 2025) muove da questo epilogo per domandarsi: “Ma chi era davvero Sandro Delmastro? Com’era nata quell’amicizia che sembrava sfidare il tempo e persino la morte?” (p. 12).
Levi compose Il Sistema tre decenni dopo il feroce omicidio di Delmastro, nel pieno della stagione della violenza terroristica neofascista, tra Piazza Fontana e Piazza Della Loggia, e del massimo consenso al partito erede della Repubblica Sociale Italiana, il Msi. Il fascismo che aveva ucciso l’amico sembrava esser tornato e ogni tempo ha il proprio fascismo, scrisse Primo Levi.
L’autrice ricostruisce la biografia e l’amicizia con Levi del “nostro Sandro”, cioè il suo Sandro, ricostruito attraverso le fonti. Lo fa scegliendo di “abitare il mondo della storia” (e cioè scavando in archivi, biblioteche, fondi pubblici e privati, sino a scoprire preziosi inediti di Delmastro), però “anche avventurandosi in quello della letteratura”. Affianca, cioè, al suo Sandro “il Sandro di Primo”. Quello -scrive Levi- “fatto come i gatti”: lo studente universitario del Corso di Laurea in Chimica Pura dell’Ateneo torinese (prima svogliato, poi, in virtù dell’amicizia, brillante) che si fa “amico e prossimo di Primo”; il giovane “isolato”, introverso, solitario che s’accosta a chi, a causa delle leggi fasciste antiebraiche del 1938 “sta diventando isolato”. Nell’amicizia, Sandro e Primo condividono lo studio di chimica e fisica, che Levi pretende esser discipline “chiare e distinte” e potenti antidoti, perciò, della retorica, del falso racconto, del mito fascista; ma condividono anche la passione per l’alpinismo, non immune da tentazioni a compiere imprese azzardate, rischiose, sconsiderate: come ribatte Delmastro a Levi dopo un’ascensione fallita e un pericoloso ritorno- “non vale la pena avere vent’anni se non ci si permette il lusso di sbagliare strada” (“Ferro”, p. 779). Nell’amicizia, insomma, il dono di Primo per Sandro fu il metodo dello studio serio e rigoroso, di Sandro per Primo fu la montagna, da accostare liberamente fuori da ogni percorso precostituito (disprezzo per il C.a.i.) e, soprattutto, senza tecnologia: “La sua era una montagna ruvida e proletaria” (“Ferro”, ibidem).
Mori scopre che invece “la montagna” di Delmastro fu anche “letteraria”, oltre che ruvida e proletaria (Delmastro scriveva racconti rimasti inediti e leggeva il romantico e nietzschiano Eugen Guido Lammer, ma anche il razionale Albert Frederick Mummery, sullo sfondo dell’amato Jack London): la vita naturale contro la “vita meccanizzata”, il dominio della tecnica industriale, la devozione al successo e al consumo. I falsi idoli di un mondo moderno che incarnava la distopia del Brave New World di Huxley.
Tra 1939 e 1940 l’opposizione dei due amici al regime si esprime nell’incontro di Sandro e Primo con i gruppi antifascisti di lettura: nella Scuola Ebraica di Torino e con quello di Giorgio Diena ed Emauele Artom; soprattutto nella frequentazione assidua di Alberto Salmoni, Bianca Guidetti Serra, Ester Valabrega (la fidanzata ebrea che Delmastro non riuscì a sposare, lui nato cattolico, a causa della legislazione antiebraica). La cesura della guerra avrebbe imposto poi ben altre scelte (Claudio Pavone ci ha insegnato che la questione della scelta occupò un rilievo centrale nelle vicende di quella generazione).
Ancora studente (laureando) Delmastro venne destinato, in quanto chimico, ai corsi estivi per il corpo tecnico delle Armi Navali, presso l’Accademia di Livorno, frequentati da allievi provenienti da tutti gli Atenei e Politecnici; poi, laureatosi nel maggio 1941, giunse definitivamente a Livorno. A ventiquattro anni si ammala di artrite reumatoide ma, pur sofferente della conseguente patologia cardiaca, rifiuta la dispensa dal servizio e viene trasferito al laboratorio di approvvigionamento munizioni dell’Arsenale della Spezia. Da quella posizione, deve constatare che le sconfitte militari italiane, sino al disastro dell’inverno 1943, sono causate dall’impotenza del regime, cioè dall’incapacità di una razionale pianificazione industriale della guerra, dall’arretratezza tecnologica, dai conflitti di competenze tra i vari poteri. Lo Stato fascista è ben peggio di una “macchina imperfetta”, come l’ha definita Guido Melis. I limiti sono catastrofici ed errori rispecchiano un regime corrotto che non ha affatto plasmato “totalitariamente” la società, ma dalla società di corpi e interessi frammentati è stato plasmato. La guerra della Marina, “guerra tecnica” per eccellenza, documenta tragicamente il fallimento fascista. Le lettere scritte da Delmastro dal settembre 1941 all’estate 1943 documentano la progressiva acquisizione della coscienza che il regime è una “truffa sistematica e organizzata contro l’intelligenza”. E la coscienza impone l’assunzione di un nuovo “senso di responsabilità”, la “scintilla del fuoco di Prometeo in ognuno di noi”. Sono le frasi estratte dal suo epistolario.
Distaccato a Equi Terme in Lunigiana, assiste allibito all’operazione trasformistica badogliana e alla partita doppia del nuovo regime monarco-militare con (ex) alleati nazisti e angloamericani, in cui il governo azzarda un doppio gioco sino all’armistizio. Ne conseguono la disgregazione dello Stato e la tragedia dei militari che “sono stati traditi dai capi” (ancora da una lettera di Sandro, che lamenta di “non aver potuto combattere immediatamente”). Lo fa invece, proprio alla Spezia una parte dei marinai, quelli ad esempio guidati da Italo Geloni, mentre persino la 1ª Flottiglia Mas non segue tutta il proprio capo verso il collaborazionismo con i nazisti. E la Marina lo fa anche a Piombino, insieme agli operai. Tra Italia, Balcani e isole dell’Egeo, sono migliaia e migliaia i militari italiani caduti in combattimento contro i nazisti dopo l’8 settembre 1943 (e seicentocinquantamila quelli internati in Germania, la cui grande maggioranza avrebbe preferito la prigionia terribile alla collaborazione). Spiace dunque di leggere nel libro di Mori, a p. 133, che: “Ovunque gli ufficiali e la truppa tagliarono la corda”. Non fu così, neppure a La Spezia.
Tornato a Torino e fallito un primo tentativo partigiano nelle Valli di Lanzo con i compagni Gianni Aliberti e Alberto Salmoni, dopo il convegno segreto dei cospiratori azionisti in Val Pellice dell’ottobre 1943, Delmastro viene destinato alla direzione delle azioniste Sap torinesi, e il giovane chimico diventa maestro di sabotaggi, mentre i Gap comunisti si dedicano al “sacrosanto terrorismo” -come giustamente lo definisce Mori.
Primo Levi (Sistema periodico, “Oro”) ricorda: “Eravamo estremamente insicuri dei nostri mezzi, sicuri della giustezza della nostra scelta”. Mori aggiunge: “E qui Levi parla anche per Sandro”. Vero. Primo viene arrestato già nel dicembre 1943 e deportato a inizio 1944; Sandro, dopo aver organizzato il sostegno agli scioperi operai di marzo 1944, deve fuggire a Torino. Anni dopo, Ester Valabrega, avrebbe narrato all’amico Levi del suo arresto, della fuga dalla prigione e del suo omicidio da parte di un fascista repubblichino quindicenne.
“Sandro non era uomo da raccontare -nota Primo Levi- perché stava tutto nelle azioni e, finite quelle, di lui non resta nulla”. Ma, “attraverso la letteratura” -chiosa Roberta Mori- Levi trasforma l’azione dissoltasi con la vita in “parole e pensiero”. Dal canto suo Mori ha il grande merito di aver ritrovato molte parole dimenticate e nascoste di Delmastro, e di sciogliere il nesso dialettico e conflittuale tra realtà letteraria e verità storica presente nel testo di Levi.
Levi, con una procedura che gli è propria, ricostruisce (in Ferro, ma anche in altri testi o in interviste successive) gli strati successivi della soggettività di Sandro, e inevitabilmente rischia anche di proiettare se stesso attraverso le scelte narrative, sul proprio personaggio letterario e sul ricordo dell’amico. D’altro canto, non è il caso di giudicare se davvero Il sistema periodico corrisponda, almeno nel caso di Delmastro, al disegno di organizzare una “tavola dei comportamenti umani” analoga a quella di Mendeleev per gli elementi: ma è certo che la “chimica dell’esistenza alla luce della ragione” progettata da Primo Levi non ignora qui che “errore e contraddizione sono dati dell’esperienza umana a pieno titolo”. Anche nel caso del ritratto morale di Delmastro in Ferro. Ogni comportamento può essere analizzato con rigore ma, spesso, il giudizio deve restare sospeso, per rispettare la complessità di ogni individuo, nonché per evitare “ogni tendenza a semplificare la storia” (I sommersi e i salvati, Opere, cit., vol. II, pp. 1026 e 1031).
Mori, mi pare che tenga di conto di tali preziosi indicazioni di Primo Levi. Affronta il nesso, talvolta dialettico, talvolta conflittuale, tra realtà letteraria e verità storica, distinguendo le differenze e le connessioni “tra i livelli di realtà interni al testo letterario” e i “livelli di realtà rispetto al fuori”. In questa scelta mi par di riconoscere la lezione di Italo Calvino, (penso in particolare al testo “I livelli della realtà in letteratura”, in Una pietra sopra, Mondadori 1995, p. 374 e sgg.).
Per altri, invece, le dissonanze tra le figure storiche evocate e i personaggi letterari che li rappresentano sarebbero i sintomi di un’ambiguità morale di Primo Levi, ambiguità non diversa dall’ambiguità dei tanti abitanti della sua “zona grigia”. Per tali implacabili giudici, Levi così diventa responsabile di censure e autocensure (l’episodio della fucilazione dei compagni partigiani ladri e vessatori -peraltro invece da lui stesso reso noto) e dell’invenzione di un “dossier partigiano più fantasioso che esatto nella ricostruzione di date e dati”. (Sono le imputazioni portate contro Levi da Sergio Luzzatto in due occasioni, nel 2013 e nel 2024, e che Alberto Cavaglion ha puntualmente smontato proprio su questa rivista).
Il sistema periodico dimostrerebbe, secondo Luzzatto, che Primo Levi avrebbe “pagato pedaggio alla vulgata resistenziale degli anni Settanta”, ma anche tale accisa suona falsa: sin dai primi anni Sessanta, Levi invece mise in guardia proprio dal rischio di una “imbalsamazione” -la definizione è sua- della Resistenza. E, tra 1974 e 1975, accingendosi a concludere il libro, scrisse che il suo intento era quello di comprendere che “ogni tempo ha il suo fascismo”: quello di quegli anni era fatto non solo e necessariamente di “terrore e intimidazione poliziesca”, ma anche invece di “inquinamento della giustizia” e “falsificazione dell’informazione”.
Ecco. Ancora oggi sono parole da meditare.
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