I. Comporre una ricerca e scriverne il testo a quattro mani può costituire un rischio, e per molte ragioni. Può risultare difficile connettere le rispettive sezioni della ricerca e del libro che ne è risultato; può emergere un serio conflitto di metodo, se non addirittura di merito; si possono creare sovrapposizioni, incongruenze e dissimetrie ineliminabili. Figuriamoci quando gli autori sono tre.
Tutti questi pericoli sono stati evitati nel caso di Fratelli Cervi. La storia e la memoria (Viella 2024), un bel volume promosso dalla presidenza dell’Istituto dedicato alla memoria dei sette nell’80° anniversario della loro fucilazione, e scritto da Toni Rovatti, Alessandro Santagata e Giorgio Vecchio. Quest’ultimo dedica il proprio corposo contributo alla storia agraria della Bassa reggiana, alla genealogia familiare dei Cervi nella lunga durata e alla prosopografia del padre (papà Cervi”), dei fratelli, delle loro compagne, dei loro figli; Toni Rovatti ricostruisce nei più articolati dettagli la storia delle scelte che condussero i nostri all’opposizione al regime e alla guerra, sino a quella di una resistenza armata precoce rispetto allo stesso esordio della rivolta organizzata (che sarebbe iniziata nel 1944, dopo la loro morte); Alessandro Santagata ripercorre tutti i fili della costruzione della loro memoria, dal ricordo immediato trasmesso per la via del racconto orale sino alle celebrazioni pubbliche, dall’elaborazione narrativa all’uso ideologico. Il libro, dunque, appare organizzato su ben tre livelli di realtà narrativa.
II. Giorgio Vecchio e Toni Rovatti spiegano bene le basi materiali, cioè economiche e sociali, delle scelte dell’opposizione antifascista dei Cervi, maturate insieme alla loro formazione tecnica e professionale (i Cervi frequentarono con profitto i corsi di istruzione professionale promossi dall’Ispettorato provinciale dell’Agricoltura): la costruzione della loro cultura politica può essere perciò connessa anche alla strategia economica familiare e alla scelta di abbandonare la condizione sociale di mezzadri per fondare una moderna impresa autonoma. La famiglia divenne infatti titolare di un contratto di affitto e s’ installò nel podere dei Campirossi, proprio negli anni -tra 1934 e 1935- in cui il regime invece incentivava la soluzione tradizionale della mezzadria in una cornice di politiche paternalistiche, autarchiche e corporativistiche.
Quel passaggio implicò l’avvio di una coraggiosa ed economicamente rischiosa attività di bonifica e di livellamento dei terreni (i Cervi costruirono persino una minuscola ferrovia per il trasporto dei materiali e della terra estratta), nella prospettiva dello sviluppo degli investimenti indirizzati alla coltivazione dei foraggi, all’allevamento (da otto a oltre cinquanta capi bovini nell’arco di pochi anni) e alla produzione di latte, burro e formaggi. La famiglia inoltre effettuò investimenti in impianti automatici e macchine (il celebre trattore, e non solo), integrando attività agricola, allevamento, produzione casearia, concia dei pellami e distillazione dei vini. La dedizione alla modernizzazione tecnica e al perfezionamento professionale venne riconosciuta dalle stesse autorità e raggiunse il picco con il premio ottenuto nel Concorso Nazionale per il Progresso delle Coltivazioni Foraggere e l’Allevamento, nel 1941. Ma allora, nel 1941, i Cervi erano da tempo già attivi nella cospirazione clandestina.
La famiglia era di fede e milizia cattolica: è documentata l’attività nell’Azione Cattolica di non pochi membri, così come la partecipazione del padre Alcide alla fondazione della locale sezione del Partito Popolare nel 1921 -un partito sostanzialmente interclassista, che nella regione aveva visto convivere al proprio interno un proprietario come Jacini e un sindacalista delle leghe contadine come Miglioli. Dal 1935, però, parallelamente e contemporaneamente all’avvio dell’impresa economica e tecnica, maturò la conversione del più vivace dei fratelli, Aldo, al partito comunista: decisiva in essa la collaborazione con il gruppo dell’attrice Lucia Sarzi, e -tra difficoltà maggiori- con la rete del più esperto militante della Bassa reggiana, Didimo Ferrari. (Con l’adesione al comunismo, per i Cervi la versione italiana della collettivizzazione sovietica sarebbe stata immaginata nella cooperazione agricola, quella promossa dai socialisti emiliani già prima della Grande Guerra. Ma, nel contesto degli anni Trenta, all’economia sovietica era stata data l’attenzione anche da dirigenti del regime come Gatto, Gregoraci e il ferrarese Italo Balbo).
III. Anche Toni Rovatti, per indagare le radici della scelta politica dei Cervi si appoggia alla prosopografia e alla storia della famiglia, nel contesto della storia economica della Bassa. I rapporti di produzione nella Bassa (riva emiliana del Po), tra Campegine e Gattatico, erano stati connotati sin dal XIX secolo dal conflitto tra proprietari e mezzadri: i mezzadri, ancora negli anni Venti, erano presenti in 9.000 poderi su 11.000. Sullo sfondo della storia locale e familiare si pone dunque il problema storico economico della mezzadria, su cui si è discusso per decenni, interpretandola come forma di conduzione agricola connotata da arretratezza e interclassismo, ma anche come via alla stessa modernizzazione capitalistica. La loro “interpretazione pratica” i Cervi la fornirono scegliendo risolutamente l’abbandono della mezzadria, concependo l’impresa economica non in conflitto con le proprie radici nel solidarismo cristiano, integrandola nell’adesione al comunismo (e del resto, precedenti importanti della storia familiare -il patriarca Agostino era stato protagonista dei moti contro la tassa sul macinato del 1869- appaiono anche indizi di una radicata propensione all’autonomia, spinta poi sotto ila fascismo fino alla ribellione).
Rovatti spiega bene come proprio tale contesto debba essere ritenuto il vero presupposto delle convinzioni e delle azioni dei Cervi tra guerra e Resistenza, e critica giustamente sia la mitizzazione della loro vicenda fatta nei riti e nelle manifestazioni degli anni Cinquanta e Sessanta, sia la propensione della letteratura e della storiografia (Roberto Battaglia) a farne il “simbolo” della ribellione dei contadini emiliani alla Repubblica Sociale fascista e all’occupazione tedesca. Le sottovalutazioni successive della loro esperienza di ribellione appartengono invece alla storiografia più recente.
IV. I sette fratelli si sottrassero regolarmente agli obblighi del servizio militare e nessuno di loro -tranne il più giovane, Ettore- fu inquadrato nelle formazioni dell’esercito impegnate nella guerra e moltiplicarono le loro espressioni di dissenso (ad esempio in occasione della guerra d’Etiopia, e proprio quando il regime fascista stava accumulando consensi). Così, nel 1939-40 la famiglia era già stata sottoposta ad attenzione e vigilanza da parte dei carabinieri e delle autorità di polizia. Tra 1942 e 1943, lo stesso Mussolini emanò ordini speciali per la regione e la provincia di Reggio, imponendo il controllo armato sulla trebbiatura, al fine di evitare la sottrazione del raccolto agli ammassi prescritti dalle autorità e di reprimere la resistenza dei contadini alle pressioni disciplinari. I Cervi animavano non poche di tali proteste contro l’aumento dei prezzi del carburante e dei fertilizzanti, imboscavano burro latte e formaggi, producevano e commerciavano illegalmente pelli e liquori: reati annonari che, però, facevano parte della loro attività clandestina, con il gruppo di Lucia Sarzi: accoglienza e protezione dei renitenti alla leva fascista e dei prigionieri alleati fuggiti, prime azioni di sabotaggio, requisizioni, lotta armata. Dopo gli attentati (falliti) ad alcuni dirigenti fascisti locali (e dopo un tentativo di trasferirsi in montagna, andato a vuoto) si determinarono ad agire localmente, in un contesto sempre più difficile, in cui neppure i militanti comunisti ritenevano possibile agire, soprattutto nel contesto di una campagna intensamente coltivata e abitata: i Gap erano ancora di là da venire. Ma i Cervi non attesero il partito. Così, nell’autunno del 1943, la loro fattoria venne assalita e incendiata dalla Guardia Nazionale Repubblicana e i fratelli furono catturati: sarebbero stati fucilati, dopo una farsa di processo, all’alba del 28 dicembre, forse anche in reazione ad altre imprese effettuate di partigiani segnate da scarsa etica della responsabilità.
V. Nell’ultima sezione del libro, Alessandro Santagata si impegna lucidamente nell’analisi di quello che definisce “il mito” dei sette fratelli (“i figli di Alcide non sono mai morti”). Quello che Santagata definisce il mito risulta una stratificazione complessa di ricordi elaborati nei tempi seguiti all’eccidio, riti (il funerale, o la “doppia sepoltura” ricorrente nelle manifestazioni del dopoguerra), celebrazioni del 25 Aprile, narrazione letteraria, ideologia, memoria pubblica. Questa -rileva Santagata in epilogo- nel corso dei decenni “ha perso la sua capacità originaria di identificazione e attrazione, assumendo tratti sempre più sfumati e diversamente interpretabili”.
Il saggio rimanda infatti alla genealogia del cosiddetto mito nei primi racconti orali, all’adozione della denominazione “Fratelli Cervi” da parte di una prima unità partigiana e poi del distaccamento di una Brigata Garibaldi, ai discorsi delle prime cerimonie successive alla Liberazione, alla consegna delle sette medaglie nella Sala del Tricolore del municipio di Reggio Emilia. Lo avrebbe scritto Fenoglio ne Il partigiano Johnny, nell’episodio dell’ammonimento del protagonista al compagno Regis: “ricordati che senza i morti, i loro e i nostri, nulla avrebbe senso” -un senso che proviene dalla morte e dal suo racconto trasformato e trasfigurato già durante la guerra partigiana “nelle storie raccontate attorno al fuoco” (Così Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno).
Mi limito ad osservare, a tale proposito, che negli anni, quelle storie raccontate si adattarono progressivamente nella loro trasmissione e trascrizione ad un paradigma antico, quello del sacrificio, di ascendenza religiosa e risorgimentale: quello che Giuseppe Mazzini, in Della Giovine Italia, aveva benedetto come il “sacrificio solenne”, o quello dell’“esempio morale per la patria, la famiglia, l’umanità” declamato dal Pellico, dal Frignani, dal Settembrini. Sebbene secolarizzato, il paradigma non era immemore dello schema cristiano del martirio, che era stato perpetuato, ancora nel Risorgimento, con l’omaggio ai “martiri di Belfiore” di Monsignor Martini (Il confortatorio di Mantova). Non per caso la sua eco la si coglie in non poche delle lettere dei condannati a morte della Resistenza, talvolta suggerita dai mediatori-confortatori dei condannati, i cappellani della Rsi o sacerdoti qualsiasi. Ma anche la letteratura (se si eccettua Paura all’alba, di Arrigo Benedetti, pubblicato già nel 1945) sarebbe intervenuta in tali operazioni, soprattutto nei testi e nei materiali di quella che Alessandro Santagata definisce “la svolta del decennale”, tra 1953 e 1955.
Nel 1953, Italo Calvino pubblicava infatti il suo testo Nei sette volti consapevoli, la nostra futura rinascita. Qui dipingeva il podere, “i Campirossi, come l’avamposto della società futura”, in cui venivano a fondersi la solidarietà sociale, il progresso materiale e tecnico, il riscatto politico: così, per Calvino, “i sette fratelli formano insieme una repubblica”. Appena un anno dopo, nel gennaio 1954, Pietro Calamandrei componeva l’Orazione per il decennale della morte in occasione di una manifestazione al teatro Eliseo di Roma, un discorso che si collocava nel contesto di un’operazione più vasta, rappresentata dal libro Uomini e città della Resistenza. Discorsi scritti ed epigrafi (1944-1955) -la silloge dedicata a Lauro de Bosis, ai fratelli Rosselli, a Gianfranco Mattei, ai Cervi, a Benedetto Croce e a Dante Livio Bianco. E il contesto era quello della battaglia contro durissima la “legge truffa”, la riforma elettorale in senso maggioritario, accostata da Calamandrei alla legge Acerbo.
Ne I fratelli Cervi (ma anche nell’epigrafe La madre, per Genoveffa Cocconi, in Sala del Consiglio e Campegine) Calamandrei scriveva: “Non ci fu l’eroe, l’apostolo, il capo… la chiamata fu anonima, di questo Dio ignoto, che è dentro ciascuno di noi”. I Cervi incarnarono gli ideali spirituali della Resistenza, e la loro Resistenza ebbe “la stessa metodica pacatezza del loro lavoro”. La Resistenza dei Cervi fu insomma espressione di una nuova fraternità: verso il fuggiasco, il renitente alla leva, il prigioniero (quanto complessa fosse la posizione di Calamandrei verso i resistenti lo avrebbe rivelato però l’edizione del Diario), molti anni dopo. Nel 1955 apparve infine il libro intestato al padre Alcide (in realtà opere di Renato Nicolai): I miei sette figli, un racconto che avrebbe intrecciato il livello dell’intervista con la narrazione orale e l’elaborazione autoriale dei testi usciti negli anni precedenti (soprattutto quelli ad opera di Calamandrei e di Calvino).
L’intreccio populistico e neorealistico di oralità, celebrazione ideologica ed elaborazione letteraria formatosi tra dopoguerra e anni Cinquanta sarebbe stato attaccato in Scrittori e popolo da Alberto Asor Rosa: “Nei ricordi del padre (dei Cervi) […] si intrecciano strettamente culto produttivistico della terra, bonaria concezione della solidarietà umana, l’idea che socialismo e cristianesimo siano una cosa sola, l’uno dipendente dall’altro nel rispetto della patria”. Ma l’intreccio populistico- neorealistico resistenziale veniva attaccato da Asor Rosa nella prospettiva dell’“antitesi operaia” (come la definì Calvino) -cioè, della rilettura di Panzieri e Tronti del neocapitalismo- e nella prospettiva della rivalutazione politica del verismo e del realismo (si pensi alle pagine di Romano Luperini su Giovanni Verga).
Se nel “mito” dei Cervi non c’era la lotta di classe e mancava la realtà, secondo Asor Rosa, ci si può anche chiedere se il fallimento del progetto di realizzare un film sui Cervi, elaborato da Cesare Zavattini con Luigi Chiarini, sia da ricondurre ad un conflitto tra il populismo letterario e cinematografico e un diverso realismo, quello che Zavattini identificò, proprio in quegli anni, nella fotografia di Paul Strand La famiglia Lusetti raccolta in Un paese, il libro ideato nel 1955 da Zavattini proprio con le fotografie di Paul Strand.
VI. La stratificazione di memorie e narrazioni nella storia del ricordo dei Cervi potrebbe essere connessa quindi non ad un “mito”. Il mito è un racconto falso, nella tradizione ermeneutica. Mentre qui abbiamo un groviglio e un intreccio tra finzione (fictio), narrazione e ideologia: la dimensione narrativa (fictio) non sembra mai separabile, nel caso dei Cervi, dall’operazione ideologica a partire dai contatti di Calvino con Togliatti ed Emilio Sereni. Nell’elaborazione, il fondamento è costituito dal discorso di Togliatti, Ceti medi ed Emilia Rossa, e dalla sua proposta di costruire un nuovo blocco storico di classe operaia, contadini-mezzadri e ceti medi produttivi contro l’alleanza tra capitalisti industriali e agricoli, o latifondisti, al fine di consolidare una politica di reali riforme della struttura economico-sociale italiana quale base strutturale della “democrazia progressiva” (democrazia politica ed economica, ma non pianificazione e collettivizzazione). La proposta fu elaborata nel 1946 e si fondava sul dialogo con il socialismo riformatore, di cui il Pci voleva essere l’erede, e il cattolicesimo democratico, nonché sul rigetto del “massimalismo” e dell’insurrezionalismo di matrice partigiana (il discorso fu pronunciato da Togliatti in polemica, tra l’altro, proprio con i comunisti di Reggio Emilia). Il deuteragonista dell’operazione strategica fu però Emilio Sereni, che avrebbe voluto al proprio fianco Alcide Cervi alla presidenza del congresso di fondazione dell’Alleanza Nazionale dei contadini. Fu in realtà proprio Emilio Sereni che fondò il nesso tra Resistenza e mondo contadino sulla base di una interpretazione della società italiana fondata sui suoi studi di storia agraria e sul nesso città-campagna nella storia d’Italia. Sereni aveva avviato la riflessione sin dalla giovinezza universitaria, trascorsa presso l’Osservatorio di Economia Agraria di Portici, negli anni ’20, con l’amico Manlio Rossi Doria. Poi, dal 1929 aveva trasferito tale visione nella milizia comunista (sebbene si fosse laureato con una tesi sulla colonizzazione ebraica in Palestina, premessa del lungo dialogo con il fratello Enzo, socialista, sionista, emigrato in Medio Oriente). Cruciale, nel pensiero di Sereni, era stata proprio, soprattutto la centralità delle “tecniche” agrarie per definire la natura di un “sistema agronomico e di una formazione economica-sociale”. Lo documentano i suoi contributi maggiori, Il capitalismo agrario nelle campagne, 1860-1900 e Storia del paesaggio agrario italiano, ma anche Resistenza contadina e democrazia e Contadini e rivoluzione antifascista: fu proprio questa linea interpretativa la base dell’empatia di Sereni con i Cervi e la loro “passione” per la tecnica, le loro imprese di livellamento, la modernizzazione delle coltivazioni e dei sistemi di allevamento.
VII. L’altro lato della storia del racconto dei Cervi, dell’intreccio tra racconto e ideologia, del loro “mito” rimase però quello della scelta esplicita, esistenziale, radicale del confronto duro e armato con il fascismo. Si spiega così la torsione che avviene nell’estate del 1960, in occasione dell’eventualità concreta di una partecipazione del movimento neofascista (Msi, erede della Rsi) al governo della Repubblica. La provocatoria convocazione del congresso dell’Msi nella città di Genova bastò a innescare le rivolte di piazza: ma proprio a Reggio Emilia queste furono represse al prezzo di cinque morti, fucilati dalla Celere il 7 luglio 1960. Il testo della canzone di Fausto Amodei, Per i morti di Reggio Emilia, propose un registro nuovo e diverso, che giocava sulla prossimità tra la Resistenza e la nuova ribellione della “generazione dell’anno zero”, la generazione dei nati tra guerra e dopoguerra scesi in piazza contro i neofascisti. Per i ribelli del 1960, i Cervi divennero “sangue del nostro sangue, nervi dei nostri nervi”.
Due anni dopo ci fu Piazza Statuto a Torino. Otto anni dopo, il Sessantotto.
Nel film di Gianni Puccini non sarebbero mancate allora citazioni di Ernesto (Che) Guevara, mentre il figlio di Aldo Cervi, Adelmo (che mai ebbe a conoscere il padre) avrebbe dialogato con fatica e passione con il nuovo antifascismo militante. In quel frangente si formava anche il “gruppo dell’appartamento”, con Paroli, Franceschini e Prospero Gallinari. Un’altra storia, ma sempre nervi dei nostri nervi.
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